giovedì 24 febbraio 2011

Pochi ma ottimi lettori


“Insomma, il quesito sta nel titolo di questo articolo del Corriere della Sera: il cibo a un malato con un sondino è terapia o solo alimentazione? È evidente che, se lo si considera terapia, si può evocare la questione dell’accanimento terapeutico. [...] Luigi Castaldi aveva risolto la questione con una memorabile proposta sul suo blog Malvino. [...] Castaldi proponeva il seguente esperimento: se il ministro Sacconi e la sottosegretaria Roccella sono in grado di inserire un sondino a un paziente in terapia intensiva e con ciò alimentarlo senza ucciderlo [1], allora è evidente che si tratta di un trattamento ordinario; se invece occorrono un medico e degli infermieri [2], be’, allora non si può sostenere che quello è il bicchiere d’acqua e quello è il pezzo di pane, perché chi lo sostiene mente sapendo di mentire. La proposta Castaldi ci pare ineccepibile”

Massimo Bordin, Stampa e Regime




[1] Domani, in Parlamento, si comincerà a discutere di testamento biologico e pare che il punto sul quale sarà impossibile trovare intesa sia quello relativo all’alimentazione e all’idratazione artificiali: c’è chi le ritiene cure mediche cui «nessuno può essere obbligato» (Costituzione, art. 32), e che in sede di testamento biologico sia legittimo rifiutarle; e c’è chi, invece, non le ritiene affatto cure mediche, pur convenendo che si tratta di mezzi artificiali, e che esse debbano essere obbligatorie per tutti. Si tratta di due posizioni che non ne consentono una terza: l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono cure mediche, o non lo sono. Io sono dell’opinione che lo siano, però potrei cambiare idea se una Eugenia Roccella o un Maurizio Sacconi – tanto per citare i primi due che mi saltano in mente – mi dimostrassero di saper infilare un sondino nasogastrico a un soggetto in stato vegetativo permanente, senza infilarglielo in trachea o farglielo uscire da un orecchio: nel caso non vi riuscissero e per farlo fossero costretti a chiedere l’aiuto di personale medico, questo genere di cura si configurerebbe come trattamento sanitario o no?” (Malvino, 26.1.2009).

[2] Per applicare un sondino nasogastrico occorrono un sondino in materiale plastico (meglio se silicone), della pomata lubrificante che abbia tra i componenti dell’anestetico locale, una vaschetta di plastica, una siringa con catetere da 50 ml ed un’altra senza catetere, un bicchiere d’acqua, del cerotto e delle garze, un telino sterile, un fonendoscopio e dei guanti.
Prima di applicarlo bisogna valutare quale delle due narici sia quella che offra maggiore facilità di inserimento, riconoscendo eventuali patologie (ipertrofia dei turbinati, deviazioni del setto, ecc.), e calcolando la porzione del tratto del sondino da inserire per evitare che il capo peschi nell’esofago, se troppo corto, o faccia anse nello stomaco, se troppo lungo. Lubrificato il sondino con la pomata, lo si infila nella narice prescelta spingendolo con delicatezza e ruotandolo sul suo asse maggiore fino ad arrivare al rinofaringe. Qui bisogna far estendere il capo di circa 45° per far scivolare la punta del sondino lungo l’ipofaringe e verso l’esofago, evitando di infilare la laringe e la trachea o di provocare danni all’epiglottide e alle corde vocali, ma soprattutto per evitare che il “cibo” vada a finire nei polmoni provocando da semplici polmoniti e letali asfissie. Per consentire un migliore scivolamento del sondino, si fa bere dell’acqua al paziente (se è in grado di deglutire, sennò si accetta l’eventualità di qualche piccolo sanguinamento da abrasione). Nel corso dell’inserimento si provvede ad aspirare a più riprese il materiale (muco, saliva e sangue, per lo più) che possono venirsi ad accumulare lungo il tragitto del sondino. A complicare l’operazione, di sovente, subentra il riflesso della tosse (rammentiamo che tale riflesso può essere presente anche in soggetti con gravissime ed estese lesioni corticali): in questi casi conviene soprassedere rimandando ad altro tentativo con premedicazione adeguata. Una volta infilato il sondino, si valuta col fonendoscopio la presenza di quei rumori che ne attestino il corretto posizionamento nello stomaco, e se ne fissa col cerotto l’estremo che emerge dalla narice, provvedendo ad una aspirazione dei succhi gastrici di cui l’inserimento del corpo estraneo abbia eventualmente stimolato la produzione. Quindi, si chiude il foro esterno del sondino con un tappetto – a piacere, giallo, rosso o verde – in attesa di applicarvi l’ugello della pompa che somministrerà il “cibo”. Dimenticavo: anche quando correttamente inserito, il sondino nasogastrico ha tendenza ad ostruirsi e deve essere sostituito con una certa frequenza” (Malvino, 13.2.2009).

mercoledì 23 febbraio 2011

Il suffisso -ismo


Il suffisso -ismo per certi versi è inutile: non c’è alcuna sostanziale differenza tra una cosa e la sua contestualizzazione in un sistema, perché nulla è fuor di ogni sistema. Non reputo possibile, dunque, un pensiero de-ideologizzato: potrà non essere riconducibile ad una ideologia nota, ma credo che il pensiero sia per sua natura ideologico e ideologizzante. Arrivo ad essere radicale e dico che pensare è sistematizzare. Vi ho già fatto cenno – e nello specifico rimando a quanto ho addotto in argomento – quando ho detto che tra morale pubblica e moralismo non v’è alcuna sostanziale differenza. Oggi voglio parlarne un poco più estesamente intrattenendomi sul conato di de-ideologizzazione che da destra, come da sinistra, si è cominciato a sentire dal 1989 in poi. E mi limiterò a dire del ripetuto fallimento di questo conato da parte della destra italiana.
Cosa può significare liberare la destra italiana dal giogo ideologico? In pratica, può significare solo de-sistematizzare l’ideologia della destra, anzi, le ideologie della destra: può significare solo ri-contestualizzare i termini sui quali essa regge. Qui non voglio annoiare il mio lettore e rimando alle numerose pagine (qui un sommario) che ho dedicato alla sussistenza di molte destre nella destra, tutte irriducibili ad una, tranne che per una caratteristica comune: la natura trascendente dell’individuo. Chiedo solo: cosa può significare de-ideologizzare la destra se non spostare l’individuo da un sistema all’altro? E in quale? In altri termini: quando i finiani dicono di voler liberare la destra italiana dal giogo ideologico, in quale sistema intendono trasferirla? Ancora, più brutalmente: quale può essere l’esito – auspicabile o no – di un ri-pensamento della destra italiana?
Per me che, prima di approdare al liberalismo, ho speso la gioventù tra Nietzsche ed Evola, tra il “fascismo immenso e rosso” e nevrastenici estetismi paganeggianti, sono domande che valgono di più di una scommessa. Ho abbandonato An nel 1995, a pochi mesi dalla fondazione, perché correvo troppo avanti: il Manifesto di Fiuggi grondava ancora di rebecchinismo e di tatarellismo, di liberale aveva troppo poco. Però capivo Fini, che più di tanto per volta non poteva. Anche per questo non mi sono mai stupito troppo dei suoi strappi, che inevitabilmente laceravano la parte più mobile della base ex-missina da quella più refrattaria ad ogni emancipazione liberaldemocrazia, segnata senza speranza dalla fascinazione dell’autoritarismo. Capivo Fini, costretto a procedere ma lentamente. E però era troppo lento perché potessi stargli dietro.
Più andavo avanti io, più mi sembrava lontano, ma ad ogni suo strappo lo sentivo un po’ più vicino: sempre troppo lontano, in ogni caso, sicché quando nel 2003 scriveva il disegno di legge che sarebbe diventato la famigerata Fini-Giovanardi (decreto legge n. 272 del 30.12.2005, poi legge n. 49 del 21.2.2006), io ero già antiproibizionista da sei anni e, quando dichiarò che avrebbe votato sì a tre dei quattro quesiti referendari sulla legge n. 40 del 19.2.2004, gli rimproverai il no al quarto, strascico ideologico di una destra che riconosceva il vincolo parentale esclusivamente nel sangue.
Furono anni nei quali attorno a Fini si agglutinarono aennini e indipendenti nati dopo la caduta del fascismo, come lui d’altronde, e venuti alla politica dopo la morte di Almirante, foss’anche per mera questione anagrafica. Sangue fresco, potremmo dire, ma in arterie sclerotizzare, basti pensare alla sorte de L’Indipendente di Giordano Bruno Guerri, troppo avanti pure lui. Ora sento dire che Flavia Perina sta per perdere la direzione de Il Secolo d’Italia: si sarebbe spinta troppo avanti. E dire che le poche volte che ho letto il giornale sotto la sua direzione mi è parso organo finiano più dello stesso Fini, dunque destinato ad essere riposizionato alla prima difficoltà che Fini avrebbe incontrato sul suo cammino. E così è stato. A volere il licenziamento di Guerri fu – in pratica – Italo Bocchino, a volere quello della Perina?

[segue]

Ci vuole niente



L’annunciata beatificazione di Karol Wojtyla causa violente coliche biliari a molti ultras del tradizionalismo cattolico e da pontifex.roma.it vengono le urla e i lamenti di don Luigi Villa, “ex agente segreto vaticano – così dice – con nomina di Pio XII e su volontà di San Pio da Pietrelcina”, che in missione speciale contro l’infiltrazione massonica in Vaticano [1] “ha subito 8 attentati alla vita documentati”.
Su Giovanni Paolo II, invece, non ci sarebbero dubbi: “è stato un apostata protestante”, beatificarlo è “un insulto alla cristianità” [2]. Oggi, poi, don Villa produce un argomento al quale attribuisce il valore di pistola fumante: “Come è possibile che un Papa baci il Corano? Solo per questo gesto manifestamente ereticale, nessun tipo di beatificazione può essere possibile”. Ma è evidente che gli varrà a niente: non si fa alcuna fatica a trovare più di trecento deputati disposti a dirsi pubblicamente convinti che Berlusconi non abbia mai pagato una puttana [3], e che ci vuole ad avere la maggioranza alla Congregazione per le Cause dei Santi sul fatto che in quella foto Wojtyla non stesse baciando il Corano, ma solo guardando il prezzo in quarta di copertina?


[1] Forse non lo sapevate ma Giovanni XXIII e Paolo VI erano massoni, don Villa lo ha dimostrato in una mezza dozzina di volumi.
[2] Una nota ufficiale del suo superiore avverte che “gli scritti di don Villa non godono di nessun appoggio o consenso o riconoscimento da parte della diocesi o del presbiterio o del vescovo”, ma che importa? Quando fanno così, sono adorabili.
[3] Eccetera eccetera eccetera.

martedì 22 febbraio 2011

Da mandarlo a cagare, insomma


Al professor Francesco D’Agostino piace scassare il cazzo al prossimo e, in vista del dibattito parlamentare su un disegno di legge che intenderebbe negarci il diritto di rifiutare che ci venga ficcato un tubo di plastica in gola contro la nostra volontà, Avvenire gliene dà occasione. “Il tema è giuridicamente complesso ed emotivamente coinvolgente – scrive – [e] dovrebbe essere affrontato con pacatezza di ragionamento, sobrietà lessicale, assenza di pregiudizi, rinuncia all’uso di toni superfluamente emotivi, rispetto nei confronti delle opinioni diverse dalle proprie”, ma si tratta solo di una volgare provocazione, perché fa esattamente il contrario: si scalda, provoca, offende e, soprattutto, dà per assodato ciò che non lo è affatto. Da mandarlo a cagare, insomma.
Il suo editorialuccio prende da subito una piega intollerabile: chi non la pensa come lui, che si autodefinisce “realista”, è un “ingenuo illuminista” che “alza continuamente la voce”, dando corpo ad “aspre e insensate polemiche” che hanno come ultimo fine quello di attentare al “diritto più prezioso, quello della vita”. Alla faccia del “rispetto per le opinioni diverse dalle proprie”, chi non la pensa come il professor D’Agostino è uno sconsiderato.
“Il disegno di legge cerca di trovare una saggia e difficile mediazione tra la tutela della vita, soprattutto quella dei malati terminali, considerata comunque un bene indisponibile, e il diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad alcuna forma di accanimento terapeutico e soprattutto a quelle che essa consapevolmente rifiuti”. Sarebbe questa, la “sobrietà lessicale”?
Se la vita non è nella disponibilità di chi la vive, se un tubo ficcato in gola non è terapia, di quale consapevole rifiuto si ha diritto? Non c’è spazio per alcuna mediazione: il disegno di legge mira solo a rendere obbligatoria per tutti un’opzione che a molti pare intollerabile. Quella opposta, al contrario, non impone ad alcuno delle scelte obbligate: ciascuno decide per se stesso circa i tempi e i modi del proprio fine vita. Quale “saggia e difficile mediazione” sarebbe possibile tra le due opzioni? Se il disegno di legge trovasse l’approvazione del Parlamento, l’autodeterminazione libera e responsabile troverebbe un limite solo in una delle due opzioni: sopportare il tubo ficcato in gola si dovrebbe, rifiutarlo non si potrebbe.
Chiamarla “mediazione” è uno sporco imbroglio e in qualche modo, il professor D’Agostino è costretto ad ammetterlo: “La vera posta in gioco non è come migliorare questo testo. Quello che è in gioco è un braccio di ferro bioetico tra «illuministi» e «realisti». Gli «illuministi» vedono la fine della vita umana posta sotto il segno di un’autodeterminazione lucida, serena, forte, coraggiosa, direi quasi «giovanile» e chiedono, in nome del rispetto per i diritti della persona, che la legge obblighi comunque i medici a rispettare l’autodeterminazione dei malati (indipendentemente dal fatto che possano essere o no malati terminali). I «realisti» non negano, ovviamente, che l’autodeterminazione possa aver davvero rilievo in alcuni, rari casi, ma sono ben più attenti al dato di realtà, per il quale nella maggior parte dei casi la morte è evento senile, che si caratterizza per la fragilità, la debolezza, lo stato di paura e di assoluta dipendenza del morente. L’appello all’autodeterminazione, per i realisti, meriterebbe attenzione se non aprisse un varco inaccettabile all’abbandono terapeutico”. In pratica, se liberamente e responsabilmente chiedo che mi si sfili quel tubo dalla gola, metto a rischio anche la vita di altri. E come?
“I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplicemente non vogliono essere lasciati soli, vogliono essere «curati», cioè che ci si prenda cura di loro. Indurre i medici ad abbreviare la vita degli anziani, dei lungodegenti, dei malati terminali, vincolandoli a «rispettarne» lamenti, recriminazioni, richieste fatte in tempi lontani, esasperate da stati emotivi e carenti di adeguata informazione è un rischio che non possiamo correre e contro il quale il disegno di legge sul fine vita prende fermamente posizione, il che basta a renderlo apprezzabile”.
È tutto chiaro: io non sono mai libero e responsabile, c’è sempre un D’Agostino che può chiedere di decidere al mio posto, e la sua scelta è senza dubbio migliore della mia. Non resta che metterlo nero su bianco per impedirmi di sbagliare, contro me stesso. Se ho la possibilità di chiederlo, non sono nelle condizioni di poter decidere. Se decido per tempo, quando non sono nelle condizioni di poter decidere c’è chi decide al mio posto, e contro quanto avrei deciso per tempo.
Ora è finalmente chiaro perché la vita non sia un bene nella mia disponibilità: è nella disponibilità di D’Agostino.

[...]



“Mi piace molto Berlusconi, penso sia un grande leader e un nostro grande amico, ma politicamente sono di sinistra: un socialista e non un conservatore. Quindi, solo per questo, preferirei D’Alema”

Seif al-Islam Gheddafi - Panorama, 10.9.2009


lunedì 21 febbraio 2011

Provate a dire agli italiani


Provate a dire agli italiani che la caduta della dittatura di Gheddafi avrà come conseguenze l’aumento della bolletta di luce e gas, l’arrivo di 70-80.000 libici a Lampedusa e un forte calo in borsa della Juventus, e poi vediamo quanto se ne potranno fottere dei bombardamenti sui civili, dei missili anticarro sparati ad altezza d’uomo contro folle inermi e del cecchinaggio su donne, vecchi e bambini che il rais ha appaltato a mercenari stranieri.
Credete che il nostro amore per la libertà sia così forte? Anche quando la dittatura non tocca noi? Avete così grande stima degli italiani? La nostra fede nella democrazia ci chiede ogni tanto la vita di un maresciallo o un caporalmaggiore in Afghanistan o in Iraq, e noi gliela diamo, ma si può pretendere di più? Si può pretendere che la caduta della dittatura in Libia ci debba costare così tanto alla pompa di benzina? Voi pensate di sì? Io ho dei dubbi. Penso che almeno la metà degli italiani – voglio essere ottimista – non sia disposto a pagare troppo la libertà e la democrazia in Libia. Penso che almeno metà dell’altra metà storcerebbe il muso al momento di pagare.

Dico che l’Italia ha tanto copulato con Gheddafi che ora se lo ritrova incastrato dentro. Situazione imbarazzante e oggettivamente tragicomica, roba che neanche al pronto soccorso sanno trattenere le risatine. Sfilarsi sarà facile per gli altri partner, per l’Italia no: Mattei, Andreotti e Craxi si erano limitati al petting, con Berlusconi si è arrivati all’amplesso, anche molto appassionato.
Amor fatale: se mette male per Gheddafi, mette male anche per la nostra già scassatissima economia. Sollevare la questione dei diritti umani del popolo libico sarà considerato di cattivo gusto, a termosifoni freddi. E gli italiani cominceranno a convincersi che – se non in Tunisia, se non in Egitto – c’è davvero un pericolo di una deriva islamista in Libia, e che Gheddafi ne è l’antidoto. In nome della lotta all’aumento dei prezzi, i nostri servizi segreti confezioneranno le prove che è stata al Qaida a organizzare la protesta di Bengasi, e converrà crederci. Putin manderà armi al rais perché correrà voce che fra gli insorti sono stati segnalati dei ceceni.
Scherzo, naturalmente, o almeno spero.

Solo sbarazzandoci di Berlusconi potremmo conservare il giro d’affari con una Libia che si sia sbarazzata di Gheddafi. Era un accordo tra popoli – potremmo metterla così – anche se è stato stretto da quei due tipacci, che certamente ci cavavano lucro personale a danno della loro gente: caduto uno, caduto l’altro, cosa impedisce ai due popoli di conservare il loro rapporto privilegiato?

 

Me lo sentivo



“Al primo carico di disperati che arriverà in Italia dalla Libia, qualcuno resterà di sasso, ci rimetterà la faccia e gli cadranno le braccia. Se gli spunteranno le tette, non sentiremo alcuna nostalgia per aver dato via la Venere di Cirene” (Malvino, 1.9.2008).

“Verrà un giorno…”


Tutto, sempre e ovunque, prima o poi cambia,
anche nei regimi che appaiono invulnerabili”

Il memento di Vittorio Zucconi ai Berluslovers è come una compressa effervescente di Alka Seltzer per chi è sopraffatto dalla nausea e dai bruciori di stomaco: non risolve il problema, ma dà sollievo. Ordunque, come il Manzoni fa dire a fra’ Cristoforo, siamo al “verrà un giorno…”, ma per non lasciare nel vago il monito: “Tutte le modifiche alla Costituzione, alla legge, alla procedura che rendano il potere politico ancora più intoccabile, opaco e impunito di quanto sia ora – scrive Zucconi – un giorno si rivolteranno contro coloro che oggi le chiedono per salvare [il culo a Berlusconi]. Beh, io non condivido e ritengo che sarebbe meglio abrogarle tutte, e subito, piuttosto che ritorcerle contro chi le ha volute.
Potrei capire, ma non giustificare, la rabbia degli esasperati e un altro Piazzale Loreto, potrei capire, ma non giustificare, le veline rapate a zero, Capezzone impalato, Cicchitto spalmato di pece, ricoperto di piume e dato alle fiamme, Sallusti e Signorini dilaniati a unghiate e a morsi, ronde di giacobini andar di casa in casa a rastrellare chiunque si sia troppo compromesso col regime… Potrei capire, insomma, il salasso di una resa dei conti che arrivi ad anemizzare il paese col rischio di ammazzarlo pur di levargli dal sangue ogni tossina: sarebbe pia illusione, e poi nemmeno tanto pia, ma potrei capirla.
Quello che non capisco – se mi è lecito il paragone – è come si possa immaginare che il fascismo sia davvero sconfitto lasciando intatto il Codice Rocco, e usandolo contro i fascisti.


Cronisti libici riferiscono




La torture par l’espérance


“Nelle cripte del Tribunale Vescovile di Saragozza, al cader di una sera di tanto tempo fa, il venerabile Pedro Arbues d’Espila, sesto priore dei domenicali di Segovia, terzo Grande Inquisitore di Spagna – seguito da un ‘fra redemptor’ (maestro torturatore) e preceduto da due famigli del Santo Uffizio, che reggevano delle lanterne – scese verso una segreta perduta”. È l’incipit de La torture par l’espérance di Villiers de L’Isle-Adam (La speranza, ne: Il convitato delle ultime feste, FMR 1980), e nella cella c’è rabbi Aser Abarbel, che “da più di un anno [è] stato quotidianamente sottoposto a tortura”, ma non si è ancora deciso a convertirsi, sicché “il venerabile Pedro Arbuez d’Espila [ha] le lacrime agli occhi, pensando che quest’anima così ferma si priva[…] della salvezza”. L’Inquisitore va ad annunciargli che l’indomani ci sarà l’autodafé, che talvolta spinge l’infedele a convertirsi in extremis e visto che con lui ogni opera di persuasione è stata vana…

Volevo esprimere un concetto prendendo a prestito dalla letteratura e Villiers de L’Isle-Adam mi tornava a fagiolo. Ma non voglio intrattenermi troppo sul racconto e arrivo subito al punto. In breve: quando l’Inquisitore e i suoi si ritirano, Aser scopre che la porta della cella è stata lasciata inavvertitamente aperta; e scappa, col cuore in gola scappa, è la sua ultima speranza; e incrocia pure due sgherri, che – pare un prodigio – sembrano guardarlo senza vederlo; e arriva infine a trovare rifugio in grande giardino che sembra un paradiso; e lì sente abbracciarsi da dietro; e sono le paterne braccia di don Pedro; che gli dice: “Ma come, figlio mio! Alla vigilia, forse, della salvezza… volevate dunque lasciarci!” (trad. Claudia Weiss).

Il concetto che volevo esprimere è quello della crudeltà che sta nell’amore di chi ti vuole salvare ad ogni costo, avendo un’idea di salvezza esattamente opposta alla tua. Non ha gli strumenti del Tribunale Vescovile di Saragozza, oggi, e dunque si limita a torturarti con la molestia, e talvolta ti illude che puoi eluderla, ma è pura crudeltà: si tratta di un gioco sadico. Sua Eminenza, per esempio, attacca dicendo: “Riflettendo sul senso dell’educare, mi sono visto io per primo sempre bisognoso di educazione”. Poi ridacchia e fa: “Gesù è l’esempio a cui ispirarsi, non solo per i credenti” (Avvenire, 20.2.2011).




domenica 20 febbraio 2011

Coda


“Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, [Vittorio Feltri] non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo”, così per Giuseppe D’avanzo (la Repubblica, 14.11.2010), e in giro non trovo smentite degli interessati. Fino a stasera non lo sapevo, ero sicuro di aver letto che il decreto di condanna per molestie (Tribunale di Terni, 9.8.2004) e l’allegata Nota informativa fossero arrivati a il Giornale per posta.
Un’altra cosa che ignoravo è che Sallusti ha lavorato ad Avvenire, lo apprendo dall’intervista concessa ad Antonello Piroso (Niente di personaleLa7, 20.2.2011). Avrà conservato legami coi colleghi di Piazza Carbonari? Fra questi non ve n’è almeno uno che sapesse della querela e della condanna a carico del direttore?

Vuoi vedere che ci abbiamo perso la testa sopra, ma il siluro che ha fottuto Boffo partiva proprio da Avvenire?


“Perché noi siamo amore”


Non ho seguito il Festival di Sanremo e non mi azzardo a dire che ce ne fossero di migliori, ma la canzone di Roberto Vecchioni è davvero brutta: testo ruffiano e sciatto, linea melodica prevedibile di nota in nota, arrangiamento da Korg SAS-20, esecuzione da peracottaio dei buoni sentimenti. Dev’essere stato un premio alla carriera, che a mio modesto parere non conta più di cinque o sei brani decenti nell’arco di quarant’anni.
Stavolta si trattava di bambini affogati a due miglia da Lampedusa, operai in cassa integrazione, studenti in piazza contro la Gelmini e – in alto – stava “il bastardo che sta sempre al sole”, “il vigliacco che nasconde il cuore”, ma pure la certezza che “questa maledetta notte dovrà pur finire” e la consolazione che in fondo ci resta l’amore, “perché noi siamo amore”.
Siamo gente di cuore, noi italiani, e a questo mix appeal di dolore e speranza non potevamo rimanere insensibili: ci assicura “il sorriso di Dio in questo sputo di universo”, come potevamo negargli un gesto di simpatia? D’altronde, lasciare il povero Vecchioni senza un segno di gratitudine nazionalpopolare ci avrebbe torturato l’anima con gli scrupoli, che onestamente, a cantautore morto, è cosa che comporta sempre atroci seccature. E poi noi siamo amore, ci piace darne prova al televoto.


A milioni d’anni luce da Ventotene


La visione profetica di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi, uno che veniva dal Partito Comunista Italiano e l’altro dal Partito d’Azione, ci ha dato nel Manifesto di Ventotene un vero e proprio progetto di società laica, democratica e liberale. A pensarci bene, si può dirla vertigine: mentre l’Europa si consumava di totalitarismo, due cervelli pensavano un continente nuovo e stendevano un progetto – insieme – geopolitico e antropologico. Poi Spinelli e Rossi sono morti e il progetto fu affidato a Marco Pannella, almeno a quanto ci rimembra nei suoi Atti degli Apostoli.
Sul piano antropologico il progetto gli si è sgualcito in mano: la libertà è andata a prendere consulenza da Benedetto Croce e da Panfilo Gentile, l’idea di corpo s’è spiritualizzata e l’individuo-cittadino s’è preso la terzana del personalismo mounieriano, la quartana del pauperismo gandhiano, si è ridotto a eccentrico-sincretico, tra il monachesimo e la New Age.
Un po’ meglio sul piano geopolitico, ma non di troppo: immaginare Israele, Turchia e Marocco in Europa. [Anche qui in anticipo – i radicali sono sempre in anticipo – sul movimento della deriva dei continenti che ridurrà il Mediterraneo a una pozzanghera tra Egitto e Andalusia, ma con residuo profetismo, e altra vertigine.]
E poi? Poi arriviamo a Chianciano Terme, che sta a milioni d’anni luce da Ventotene, e Pannella sta lì e incanta tutti, parlando dell’“infinitezza dello spazio e del tempo”, del rorido nodo di amore e conoscenza, della buona equivalenza tra fede e mistero... E mica lo picchiano a sangue. Tutti nonviolenti.

Apoplessie




Il limite



“No, non l’ho sentito. La situazione è in evoluzione
e quindi non mi permetto di disturbare nessuno”
Silvio Berlusconi, 19.2.2011


La domanda di democrazia che sale dalle piazze di Tripoli e Bengasi non ha finora avuto altra risposta che una durissima repressione: Muammar Gheddafi ha dato l’ordine di sparare ad altezza d’uomo e al momento i morti sono almeno 84. Ci si aspetterebbe una pronta, ferma e univoca reazione sul piano diplomatico da parte di quei paesi che, fino a non troppo tempo fa, dichiaravano un tal surplus di democrazia interna da ritenere indispensabile esportarne un tot. E invece non si registrano che timide proteste, e in ordine sparso, nelle quali “preoccupazione” prevale su “condanna”, come se anche per la Libia – così è per l’Egitto – la fine della dittatura sia gravida di incognite peggiori della stessa dittatura, e pare, insomma, che l’unica democrazia possibile nei paesi arabi sia quella di importazione.
Non c’è da stupirsene, perché l’esportazione della democrazia non è mai stata dichiarata operazione solo filantropica: la si esporta innanzitutto per bloccare l’importazione di terroristi protetti o addirittura finanziati da stati canaglia, ed è lì che l’affare promette un ritorno. Anche questo, però, non basta. Gli strumenti necessari all’esportazione della democrazia sono per lo più di natura bellica, e dunque assai costosi, sicché conviene rinunciare quando il costo è troppo alto: dove un dittatore dia adeguate garanzie di non costituire minaccia alla sicurezza dei paesi esportatori di democrazia, si può chiudere un occhio, eventualmente entrambi se può ricavarsene un profitto economico. E così è stato per la dittatura di Ben Alì in Tunisia, ma soprattutto per quella di Hosni Mubarak in Egitto e quella di Muammar Gheddafi in Libia, fino a ieri in ottimi rapporti con le democrazie d’occidente.
Solo avendo un’anima molto bella si può biasimare questo atteggiamento occidentale. Amiamo la democrazia, è fuor di dubbio, e la vorremmo dappertutto, perché con tutti i suoi difetti è il meno peggio che ci sia e perché tra due paesi democratici è assai raro che si arrivi a una guerra. In fondo, siamo pacifici e ricorriamo alla forza solo come ultima risorsa, solo quando ci sembra necessaria, solo quando non ci pare peggio del far niente. Ma poi c’è la ragion di stato – di ciascun stato – e questa ci costringe a fare i conti con le difficoltà sul campo. Rimaniamo democratici ma cerchiamo di intrattenere buoni rapporti diplomatici con i dittatori che ci sembrano più affidabili. Accade che tali rapporti possano addirittura diventare ottimi, con reciproco vantaggio.

È il caso della Libia, che può essere interessante considerare attraverso l’analisi che ne fa un giornale filogovernativo, e parliamo di un governo che ha sempre schierato il paese in prima fila tra gli esportatori di democrazia: “Il regime di Gheddafi ha investito molto [in Italia] […] Messi in fila questi capitali danno la somma di 6,3 miliardi di euro […] Il problema è se i libici vadano considerati degli sleeping partner – dei puri investitori appunto – o invece degli azionisti strategici. E tutto fa propendere per la seconda ipotesi. L’ingresso in Unicredit, in Finmeccanica e soprattutto nell’Eni è solo ufficialmente avvenuto attraverso normali operazioni borsistiche. In realtà è abbastanza noto che siano stati oggetto di negoziati tra governi, in particolare tra Silvio Berlusconi e Gheddafi, con il duplice obiettivo di rafforzare patrimonialmente le nostre principali banche e aziende, e di garantirne gli sbocchi su attuali e futuri mercati. L’Eni è in Libia praticamente da sempre, da quando Enrico Mattei combatteva contro le sette sorelle del petrolio americane, inglesi e francesi. Ma oggi è qualcosa di più, è partner del regime di Tripoli […] Ma certo l’Italia non è sola. La Libia è il primo produttore di petrolio africano, il quarto al mondo dietro Arabia Saudita, Emirati, Iran. Da quando nel 2004 gli Usa hanno abolito le sanzioni e, nel 2006, tolto la Libia dall’elenco degli stati canaglia, tutte le grandi major si sono precipitate a fare affari con il colonnello” (Il Tempo, 19.2.2011).
“Certo l’Italia non è sola”, ma il modo in cui l’Italia ha performato la sua ragion di stato ha prodotto vantaggi tanto consistenti al punto di dover temere gli effetti di una caduta della dittatura libica: siamo nell’imbarazzante situazione di essere esportatori di democrazia, per quanto nel ruolo di gregari degli Stati Uniti, ma di augurarci che la dittatura di Gheddafi regga. Ma non possiamo dirlo esplicitamente, perché ci guadagneremmo solo una figura di merda.

Dev’esserci evidentemente un limite tra il credere nella democrazia, da un lato, e il dover temere che essa prenda il posto di una dittatura, dall’altro. Tra il ritenere che in alcuni paesi possa essere esportata, anche ammazzando i civili, e in altri no, e qui andare a partnership strategica con dittatori che ad ammazzare i civili ci pensano da soli. Dev’esserci un limite tra il duro e necessario rassegnarsi alla ragion di stato, da un lato, e il prenderci tanto gusto da smarrire ogni altra ragione, dall’altro. Nel caso dell’Italia questo limite è stato varcato, e neanche tanto inavvertitamente, facendo della politica estera una questione di amicizia personale tra capi di stato.
Abbiamo collezionato nei confronti di Gheddafi tante e tali manifestazioni di amicizia – e non solo, perché in molte occasioni si è arrivati a molto peggio – da non poterle ritirare troppo bruscamente: il danno che ce ne verrebbe non sarebbe solo l’imbarazzo di un veloce riposizionamento strategico, com’è ad esempio per gli Stati Uniti, ma la vergogna di aver tradito un amico. Sarebbe un danno materiale e di immagine, sarebbe dover rimangiarci tutta una filosofia, che peraltro abbiamo spacciato come una delle più genuine espressioni del nostro carattere nazionale. Appena ieri gli abbiamo baciamo la mano, come potremmo mordergliela oggi, anche sapendo che è la stessa che spara sulla propria gente?
Sì, è gente che chiede democrazia, e in apparenza è la stessa democrazia che saremmo stati disposti ad esportare in Libia se solo ci fosse stato possibile, ma anche bombardando Tripoli non è stato possibile, e ci siamo dovuti rassegnare alla ragion di stato. Da italiani non ci è stato difficile: quello era il petrolio più vicino e verso l’antica colonia avevamo un gran senso di colpa che Gheddafi non si è mai fatto scrupolo di tener vivo. Andreotti e Craxi hanno incarnato questa ragion di stato, ma poi abbiamo superato il limite.

sabato 19 febbraio 2011

Fare quadrato verso l’esterno e all’interno



“Fare quadrato verso l’esterno: contro insinuazioni e accuse che tendano a coinvolgere uomini o istituzioni della Chiesa nella vicenda di Tangentopoli. Ma fare quadrato anche all’interno: nei confronti cioè di quel movimento di opinione ecclesiale che tende a ottenere dai vescovi un’ammissione pubblica di corresponsabilità, se non altro per essere stati alleati e qualche volta conniventi con corrotti e corruttori” (Corriere della Sera, 28.9.1993). E valga come paradigma in tutte le occasioni nelle quali le gerarchie ecclesiastiche sono costrette a riposizionarsi.

Schiava di Roma


Roberto Benigni ha fatto notare a Umberto Bossi che l’analisi grammaticale dell’inno di Goffredo Mameli rivela che schiava di Roma non è l’Italia ma la vittoria (Raiuno, 17.2.2011) e Lilli Gruber lo fa notare a Mario Borghezio (La7, 18.2.2011), che obietta in modo scandaloso. Può darsi sia così – concede – ma il 99% dei padani legge la frase come la legge il Senatur e non c’è neppure bisogno di chiudere il sillogismo: Mameli ha scritto che l’Italia è schiava di Roma, e questo non è giusto, quindi fanculo all’inno.
È follia, ma ha un metodo. È su questo che conviene appuntare l’attenzione, sennò non resterebbe che farsi una risata, ma ridere dei pazzi non è bello. Il senso di una frase – secondo Borghezio – non starebbe in ciò che essa esprime nel rispetto della logica che regge la sua costruzione, ma in ciò che normalmente se ne intende, anche se proprio contro quella logica.
Non uso normalmente a caso, perché norma è regola, ma anche moda, ed è evidente che Borghezio chiami a convenire sulla norma data dalla media lasca degli ignoranti al suo livello, che in forza del numero aspirano a dettar legge. Come vedete, una risata sarebbe fuori luogo, perché siamo dinanzi a una questione delicata: la media lasca degli ignoranti non si azzardano a voler cambiare le norme che regolano la costruzione di una frase – la qual cosa sarebbe estremamente impegnativa anche se legittima – ma avanzano la pretesa di poterla leggere come meglio pare a loro. In Borghezio, insomma, non c’è pretesa di una nuova grammatica, ma di poter fare della vecchia il cazzo che gli pare. Non è posta la questione se Mameli possa essersi espresso in modo ambiguo: Mameli voleva dire l’Italia è schiava di Roma anche se non lo ha detto, perché così Bossi legge l’inno e così può ritenersi sia per il 99% dei padani.
Dico padani, ma è per cautela: non vorrei aver inteso male, ma mi pare che Borghezio possa aver detto addirittura italiani. Potremmo dover essere ignoranti per aspirare ad essere normali.

venerdì 18 febbraio 2011

La santità d’Italia


Premesso che da Televacca all’Oscar, da Arbore a Dante, Benigni non m’è mai piaciuto, dico che quello di ieri sera mi è sembrato il peggiore di sempre. Col distinguo tra patriottismo e nazionalismo sembrava aver pigliato una piega decente, ma poi, quando è arrivato a dover spremere sangue dalla rapa, la patria è diventata Roma che rade al suolo Cartagine, il nobile lignaggio dei Savoia e poco ci mancava un pensierino al culo di poter ospitare la Santa Sede.
Nel mito dell’impero romano e dei suoi surrogati e succedanei si è consumato più di un tragico frainteso e ieri sera Benigni li ha promossi tutti a destino, poco ci mancava l’apologia della stirpe afroditico-mediterranea della sinossi evoliana, e si è fermato giusto in tempo, ma non per evitare di evocare la spiritualità come radice della cittadinanza, e quasi mi sembrava il Minghi de La santità d’Italia.
Abbiamo bisogno di archi di trionfi per immaginarci degni di un futuro decente, non basta il sangue di un Mameli poco più che adolescente. Senza un fondale di cartapesta e un inno, ci è difficile pensarci nazione. Ho ripensato a Prezzolini, mi è parso un enorme galantuomo. Ho pensato che ormai ci scorre sangue solo nelle protesi.


giovedì 17 febbraio 2011

“Vada a farselo tradurre”



Nel corso dell’ultima conferenza stampa della Presidenza del Consiglio, rivolto a un giornalista di Bloomberg Tv che gli aveva chiesto: “I suoi problemi giudiziari potrebbero creare difficoltà alla candidatura di Draghi [alla presidenza della Bce]?”, Silvio Berlusconi ha detto: “Lei non è «compos sui», poi vada a farselo tradurre”. Bene, secondo Chaïm Perelman (Il dominio retorico, Einaudi 1981), quel “vada a farselo tradurre” è un sintomo: l’espressione ha avuto uso recente nei colloqui privati di Silvio Berlusconi, verosimilmente da imputato coi suoi legali, e il contesto gliel’ha fatta ritenere di quelle che chiudono una questione con la forza della formula senza appello.
È da escludersi una linea difensiva che punti a dimostrare che Silvio Berlusconi non fosse padrone di sé quando ha pagato le prestazioni sessuali di una minorenne: più probabile che si punti a dimostrare che sia Karima El Marough a non esser «compos sui». E questo sarebbe congruo con quanto ha affermato la ragazza: “Silvio mi ha detto: fai la pazza”. Assisteremo a un capovolgimento dell’ipotesi accusatoria: il nostro premier è stato vittima di una squilibrata. Accoltellato nella privacy.


Povera Italia mia


Ho scritto: “Vedrete che il primo passo sarà la ricusazione dei giudici”, e un lettore ha commentato: “Magari la realtà supererà la fantasia”. La realtà sta in ciò che Gaetano Pecorella ha detto ieri: “Ci sono reati su cui le donne sono più attente e sensibili e anche più motivate per quel che riguarda la misura della pena. Quindi, un collegio di tre donne in un reato che riguarda atti che sono stati ritenuti violare la dignità delle donne è il peggio che si poteva pensare” (cnrmedia.com, 15.2.2011).
Già avvocato difensore di Silvio Berlusconi ed ora deputato del Pdl – curriculum dei più triti – il Pecorella s’era fatto sentire giusto un mese fa, quando era in vista il rinvio a giudizio: “Io abbasserei il limite per la maggiore età” (Il Mattino, 17.1.2011), e probabilmente l’idea era di abbassarlo di soli sei mesi, quelli che mancavano a Ruby per essere maggiorenne quando andava ad Arcore.
Una voce sola non fa coro e allora: “Ecco perché in America Berlusconi non sarebbe giudicato da tre donne” (Il Foglio, 17.1.2011), parola di Giulio Meotti, ancora un poco unto dall’olio in cui fino a qualche anno fa friggeva patatine in un McDonald’s di Arezzo. Che in conoscenza dell’America, povera Italia mia, fa punteggio.