lunedì 28 febbraio 2011

Risorgimento in nuce


“Un giorno che il Machiavelli andava riparlando al tavolo d’un’osteria di questa bandiera da alzare per raccogliere tutta la gente di quella battuta, corsa, invilita provincia d’Italia, gli domandarono i suoi amici: «Ma infine, che impresa mettereste voi su questa bandiera?». Allora egli disegnò sulla tavola, intinto nel vino il suo indice, una bandiera; e in quella bandiera uno stemma sul quale scrisse, con belle lettere di cancelleria: ITALIA UNITA, ARMATA, SPRETATA”

Giuseppe Prezzolini,
Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino,
Longanesi 1969

Salviamo la democrazia possibile


Stabilito che “un’oligarchia ben organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile” (Il Foglio, 22.5.2008), non resta che organizzare bene l’oligarchia e smetterla col rincorrere democrazie impossibili. In primo luogo, per evitare che qualche rompiballe sollevi la questione che oligarchia è una cosa e democrazia un’altra, occorre dare alla prima almeno una parvenza della seconda, e dunque occorre che gli oligarchi sappiano sostenere entrambe le parti che stanno nel gioco democratico: i rappresentanti della maggioranza e quelli dell’opposizione dovranno dichiararsi alternativi gli uni agli altri e, quando non dovessero apparire tali, dovranno dichiararsi consociati in vista dell’interesse generale, che così sarà fatto sovrapponibile a quello dell’oligarchia, facendo apparente equivalenza tra tenuta del sistema democratico e inattaccabilità del patto consociativo.
In realtà, i rappresentanti della maggioranza e quelli dell’opposizione dovrebbero essere consociati ab initio in quanto appartenenti alla stessa élite oligarchica, o almeno così dovrebbe essere, e tuttavia non sempre accade: talvolta capita che tra chi interpreta la parte di rappresentante della maggioranza e chi interpreta quella di rappresentante dell’opposizione si perda di vista il fine ultimo della rappresentazione e si finisce per smarrire il senso di appartenenza ad un’unica élite. Capita, ad esempio, che quella forma di oligarchia che è detta partitocrazia possa subire una frattura interna, dando vita a due centri di poteri, distinti e alternativi per davvero, sostanzialmente motivati dallo stesso intento, che è l’esclusivo esercizio del potere, ma col rischio che a nessuno dei due riesca troppo agevolmente.
Si tratta di situazioni che mettono in serio pericolo il controllo oligarchico di una società, col rischio di rimettere nelle mani dei più il potere che i pochi non sono intenzionati a spartirsi. In tali situazioni, in nome dell’unica democrazia possibile, diventa necessario – anzi, indispensabile – che la frattura si ricomponga, e qui il patto consociativo non sarà più soltanto la rappresentazione di un compromesso tra maggioranza e opposizione per la tenuta del sistema democratico, ma una vera e propria misura emergenziale per rifondare ex novo un’oligarchia ben organizzata.

A cosa dovrà assomigliare un’oligarchia ben organizzata che pretenda di essere considerata come sola democrazia possibile in una repubblica parlamentare? Ad una partitocrazia che regga ad ogni rischio di frattura interna. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Costituzione, art. 49), ma dicevamo che “un’oligarchia ben organizzata assomiglia molto a una democrazia possibile”: se questa oligarchia è trasversale ai partiti, il solo metodo democratico possibile è quello che assicuri all’élite partitocratica il pieno controllo di entrambe le parti in gioco. In altri termini, i dirigenti dei partiti di opposizione devono essere fatti consci, se non lo fossero, della possibilità di concorrere a determinare la politica nazionale da consociati, piuttosto che da concorrenti: il concorrere, infatti, indica il competere ma anche il collaborare e, quando si collabora nel costruire una democrazia possibile, c’è bisogno di una “concertazione tra tutte le forze sociali, per una sempre migliore calibratura nella distribuzione dei poteri corporativi [e c’è bisogno di] un incontro tra esecutivo e businessmen per stabilire dove e come investire [perché] riforme è parola generica per indicare un orizzonte e una nuova strumentazione legislativa fondata su liberalizzazioni e deregolamentazioni [ma poi ci sarebbe bisogno pure di un] Bersani [che] amasse [tanto] il suo mestiere [da] votare quanto necessario in Parlamento” (Il Foglio, 28.2.2011). Insomma, salviamo la democrazia possibile.



Da un attento raffronto comparativo tra quello che invii e quello che pubblicano...



... ti rendi conto che quale sia il limite dei finiani. Ottime persone, senza dubbio, ma non riesci a insinuar loro neanche un sospetto e “l’editore” diventa “qualcuno”. Poco importa che il senso della letterina venga stravolto – sono abituato – ma è segno che la risposta che chiedevo a Giordano Bruno Guerri era davvero nella domanda che gli facevo.

Niente di personale



Adesso chiama il 5,
adesso chiama il 5…
E chiama proprio il 5.

A me Piroso sta sul cazzo. Niente di personale, mi sta sul cazzo quel tipo di intervistatore.
Stasera, per esempio, aveva davanti Davigo. E gli è andato a metter sotto il muso il caso Tortora. E quello a dirgli che non si pronunciava su processi dei quali non avesse letto gli atti. E Piroso a insistere: be’, però, si sarà fatta una mezza idea? E Davigo: non ho letto gli atti, non mi esprimo. E Piroso: sì, vabbe’, però... E Davigo: no. E Piroso: ma... E Davigo: no.
Bene, io credo che questo non dovrebbe mai accadere nel corso di unintervista: di fronte a un rifiuto del genere lintervistatore non deve insistere, ma punire lintervistato. Nel caso di Davigo, sarebbe stato consigliabile cambiare subito registro: solo domande alle quali Davigo potesse aver il legittimo diritto di non rispondere.

Per esempio:
Parliamo di sesso. Dottor Davigo, a lei che piace?
Vedo qui dal monitor che lei muove assai nervosamente la coscia sotto il tavolo: è nervoso? Lo fa spesso?
Dottor Davigo, nel cancellare i numeri sul tabellone luminoso che ha davanti, lei sceglie una sequenza che graficamente dà una X... Può escludere si tratti di ciò che *** [un nome inventato al momento] ha messo in relazione a una personalità di tipo *** [a scelta]? Ha letto il suo trattato, vero?

Non è tutto, c’è pure l’intervista a Martina Colombari, che a un certo punto gli risponde con una domanda: ma perché, tu che facevi vent’anni fa? Ecco, qui l’intervistatore ha solo due opzioni, ma non può rispondere: non è il caso di parlarne. O dice: qui sono io a fare le domande; o risponde e dice: ero co-conduttore di Primadonna, con Eva Robin’s. E con fierezza.
 
 

sabato 26 febbraio 2011

La piccola fiammiferaia



“Tanto ve lo ritrovate in tv prima o poi”

“Ho avuto l’offerta di rifare la mia vecchia rubrica Radio Londra e l’ho accettata”, annuncia. Cominciamo col dire che l’offerta era stata sollecitata, anche assai pateticamente, qualche mese fa: “È il mio terzo Natale senza tv, e ormai sono o immagino di essere come la piccola fiammiferaia, strofino il naso sul monitor scintillante dell’elettrodomestico più prestigioso del mondo, un giocattolo che la sorte ria, la vita amara, il destino cinico e baro mi hanno tolto per pura cattiveria” (Il Foglio, 20.12.2010). Mi pare fosse obbligatorio fargliela, l’offerta: se un deputato vale almeno 150.000 euro, una escort anche 178.000 e una igienista dentale uno stipendio da consigliere regionale, a un propagandista di ottimo livello puoi negare un contratto Rai?
Cerco di mettermi nei panni di Berlusconi di fronte alla richiesta che gli veniva da Ferrara. Avrà fatto i suoi calcoli e tutto si può dire tranne che non sappia farli. Smette di flirtare con Tremonti, anzi, può darsi sappia pure logorarmelo un poco. Mi dà una mano a spaccare l’opposizione tra garantisti e giustizialisti, e in quello è bravissimo, molto trasversale e molto obliquo. E poi dà una passata di straccio alla rivoluzione liberale. E poi lecca bene. Via, vale almeno sei o sette Capezzoni, tanto più che poi stavolta lo faccio pagare ai contribuenti, non come l’altra volta che Bettino me lo caricò sulle spese. Fate entrare la piccola fiammiferaia, poverina, ché li fuori gela.


[L’illustrazione è di Sospensorio.]

venerdì 25 febbraio 2011

Tutto fa brodo



A sostegno della tesi che le rivolte popolari in Tunisia, in Egitto e in Libia nascono “laiche” e che almeno fino ad ora non mostrano di aver subito significativi condizionamenti di parte islamista, si rileva che neppure una bandiera americana è stata bruciata in piazza, né a Tunisi, né al Cairo, né a Bengasi. Il rilievo dev’essere di notevole valore se un giornale che si sta spendendo molto in questi giorni a rappresentarci come estremamente serio il rischio di una deriva islamista dei moti che agitano il Nord Africa – e parlo de Il Foglio – pubblicava ieri una foto come quella che riporto qua sopra.
Foto scattata a Ramallah, in Cisgiordania, a più di 500 km dal Cairo, a più di 1500 km da Bengasi, a più di 2000 km da Tripoli, a quasi 2500 km da Tunisi. D’altronde, quando si deve dimostrare l’indimostrabile, tutto fa brodo.


Sì alla globalizzazione, ma che sia sul modello bizantino


I rivoltosi sarebbero manovrati da al Qaida, dice Muammar Gheddafi, e rispetto a qualche autorevole commentatore, che in questi giorni ci ha invitato almeno a temerlo, ha il vantaggio di dirlo coi rivoltosi a un tiro di schioppo, in tutti i sensi.
Gheddafi, dunque, accetta il ruolo di musulmano moderato e laico che l’occidente gli ha richiesto per farsi garante di una diga all’islamismo: finirà che dovremo davvero mandare truppe a Tripoli e a Bengasi, ma contro i rivoltosi, non contro Gheddafi. Oplà, Putin ci difende dall’islamismo da est e Gheddafi da sud.


   

giovedì 24 febbraio 2011

Tredici secondi degni di Buñuel




Pochi ma ottimi lettori


“Insomma, il quesito sta nel titolo di questo articolo del Corriere della Sera: il cibo a un malato con un sondino è terapia o solo alimentazione? È evidente che, se lo si considera terapia, si può evocare la questione dell’accanimento terapeutico. [...] Luigi Castaldi aveva risolto la questione con una memorabile proposta sul suo blog Malvino. [...] Castaldi proponeva il seguente esperimento: se il ministro Sacconi e la sottosegretaria Roccella sono in grado di inserire un sondino a un paziente in terapia intensiva e con ciò alimentarlo senza ucciderlo [1], allora è evidente che si tratta di un trattamento ordinario; se invece occorrono un medico e degli infermieri [2], be’, allora non si può sostenere che quello è il bicchiere d’acqua e quello è il pezzo di pane, perché chi lo sostiene mente sapendo di mentire. La proposta Castaldi ci pare ineccepibile”

Massimo Bordin, Stampa e Regime




[1] Domani, in Parlamento, si comincerà a discutere di testamento biologico e pare che il punto sul quale sarà impossibile trovare intesa sia quello relativo all’alimentazione e all’idratazione artificiali: c’è chi le ritiene cure mediche cui «nessuno può essere obbligato» (Costituzione, art. 32), e che in sede di testamento biologico sia legittimo rifiutarle; e c’è chi, invece, non le ritiene affatto cure mediche, pur convenendo che si tratta di mezzi artificiali, e che esse debbano essere obbligatorie per tutti. Si tratta di due posizioni che non ne consentono una terza: l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono cure mediche, o non lo sono. Io sono dell’opinione che lo siano, però potrei cambiare idea se una Eugenia Roccella o un Maurizio Sacconi – tanto per citare i primi due che mi saltano in mente – mi dimostrassero di saper infilare un sondino nasogastrico a un soggetto in stato vegetativo permanente, senza infilarglielo in trachea o farglielo uscire da un orecchio: nel caso non vi riuscissero e per farlo fossero costretti a chiedere l’aiuto di personale medico, questo genere di cura si configurerebbe come trattamento sanitario o no?” (Malvino, 26.1.2009).

[2] Per applicare un sondino nasogastrico occorrono un sondino in materiale plastico (meglio se silicone), della pomata lubrificante che abbia tra i componenti dell’anestetico locale, una vaschetta di plastica, una siringa con catetere da 50 ml ed un’altra senza catetere, un bicchiere d’acqua, del cerotto e delle garze, un telino sterile, un fonendoscopio e dei guanti.
Prima di applicarlo bisogna valutare quale delle due narici sia quella che offra maggiore facilità di inserimento, riconoscendo eventuali patologie (ipertrofia dei turbinati, deviazioni del setto, ecc.), e calcolando la porzione del tratto del sondino da inserire per evitare che il capo peschi nell’esofago, se troppo corto, o faccia anse nello stomaco, se troppo lungo. Lubrificato il sondino con la pomata, lo si infila nella narice prescelta spingendolo con delicatezza e ruotandolo sul suo asse maggiore fino ad arrivare al rinofaringe. Qui bisogna far estendere il capo di circa 45° per far scivolare la punta del sondino lungo l’ipofaringe e verso l’esofago, evitando di infilare la laringe e la trachea o di provocare danni all’epiglottide e alle corde vocali, ma soprattutto per evitare che il “cibo” vada a finire nei polmoni provocando da semplici polmoniti e letali asfissie. Per consentire un migliore scivolamento del sondino, si fa bere dell’acqua al paziente (se è in grado di deglutire, sennò si accetta l’eventualità di qualche piccolo sanguinamento da abrasione). Nel corso dell’inserimento si provvede ad aspirare a più riprese il materiale (muco, saliva e sangue, per lo più) che possono venirsi ad accumulare lungo il tragitto del sondino. A complicare l’operazione, di sovente, subentra il riflesso della tosse (rammentiamo che tale riflesso può essere presente anche in soggetti con gravissime ed estese lesioni corticali): in questi casi conviene soprassedere rimandando ad altro tentativo con premedicazione adeguata. Una volta infilato il sondino, si valuta col fonendoscopio la presenza di quei rumori che ne attestino il corretto posizionamento nello stomaco, e se ne fissa col cerotto l’estremo che emerge dalla narice, provvedendo ad una aspirazione dei succhi gastrici di cui l’inserimento del corpo estraneo abbia eventualmente stimolato la produzione. Quindi, si chiude il foro esterno del sondino con un tappetto – a piacere, giallo, rosso o verde – in attesa di applicarvi l’ugello della pompa che somministrerà il “cibo”. Dimenticavo: anche quando correttamente inserito, il sondino nasogastrico ha tendenza ad ostruirsi e deve essere sostituito con una certa frequenza” (Malvino, 13.2.2009).

mercoledì 23 febbraio 2011

Il suffisso -ismo


Il suffisso -ismo per certi versi è inutile: non c’è alcuna sostanziale differenza tra una cosa e la sua contestualizzazione in un sistema, perché nulla è fuor di ogni sistema. Non reputo possibile, dunque, un pensiero de-ideologizzato: potrà non essere riconducibile ad una ideologia nota, ma credo che il pensiero sia per sua natura ideologico e ideologizzante. Arrivo ad essere radicale e dico che pensare è sistematizzare. Vi ho già fatto cenno – e nello specifico rimando a quanto ho addotto in argomento – quando ho detto che tra morale pubblica e moralismo non v’è alcuna sostanziale differenza. Oggi voglio parlarne un poco più estesamente intrattenendomi sul conato di de-ideologizzazione che da destra, come da sinistra, si è cominciato a sentire dal 1989 in poi. E mi limiterò a dire del ripetuto fallimento di questo conato da parte della destra italiana.
Cosa può significare liberare la destra italiana dal giogo ideologico? In pratica, può significare solo de-sistematizzare l’ideologia della destra, anzi, le ideologie della destra: può significare solo ri-contestualizzare i termini sui quali essa regge. Qui non voglio annoiare il mio lettore e rimando alle numerose pagine (qui un sommario) che ho dedicato alla sussistenza di molte destre nella destra, tutte irriducibili ad una, tranne che per una caratteristica comune: la natura trascendente dell’individuo. Chiedo solo: cosa può significare de-ideologizzare la destra se non spostare l’individuo da un sistema all’altro? E in quale? In altri termini: quando i finiani dicono di voler liberare la destra italiana dal giogo ideologico, in quale sistema intendono trasferirla? Ancora, più brutalmente: quale può essere l’esito – auspicabile o no – di un ri-pensamento della destra italiana?
Per me che, prima di approdare al liberalismo, ho speso la gioventù tra Nietzsche ed Evola, tra il “fascismo immenso e rosso” e nevrastenici estetismi paganeggianti, sono domande che valgono di più di una scommessa. Ho abbandonato An nel 1995, a pochi mesi dalla fondazione, perché correvo troppo avanti: il Manifesto di Fiuggi grondava ancora di rebecchinismo e di tatarellismo, di liberale aveva troppo poco. Però capivo Fini, che più di tanto per volta non poteva. Anche per questo non mi sono mai stupito troppo dei suoi strappi, che inevitabilmente laceravano la parte più mobile della base ex-missina da quella più refrattaria ad ogni emancipazione liberaldemocrazia, segnata senza speranza dalla fascinazione dell’autoritarismo. Capivo Fini, costretto a procedere ma lentamente. E però era troppo lento perché potessi stargli dietro.
Più andavo avanti io, più mi sembrava lontano, ma ad ogni suo strappo lo sentivo un po’ più vicino: sempre troppo lontano, in ogni caso, sicché quando nel 2003 scriveva il disegno di legge che sarebbe diventato la famigerata Fini-Giovanardi (decreto legge n. 272 del 30.12.2005, poi legge n. 49 del 21.2.2006), io ero già antiproibizionista da sei anni e, quando dichiarò che avrebbe votato sì a tre dei quattro quesiti referendari sulla legge n. 40 del 19.2.2004, gli rimproverai il no al quarto, strascico ideologico di una destra che riconosceva il vincolo parentale esclusivamente nel sangue.
Furono anni nei quali attorno a Fini si agglutinarono aennini e indipendenti nati dopo la caduta del fascismo, come lui d’altronde, e venuti alla politica dopo la morte di Almirante, foss’anche per mera questione anagrafica. Sangue fresco, potremmo dire, ma in arterie sclerotizzare, basti pensare alla sorte de L’Indipendente di Giordano Bruno Guerri, troppo avanti pure lui. Ora sento dire che Flavia Perina sta per perdere la direzione de Il Secolo d’Italia: si sarebbe spinta troppo avanti. E dire che le poche volte che ho letto il giornale sotto la sua direzione mi è parso organo finiano più dello stesso Fini, dunque destinato ad essere riposizionato alla prima difficoltà che Fini avrebbe incontrato sul suo cammino. E così è stato. A volere il licenziamento di Guerri fu – in pratica – Italo Bocchino, a volere quello della Perina?

[segue]

Ci vuole niente



L’annunciata beatificazione di Karol Wojtyla causa violente coliche biliari a molti ultras del tradizionalismo cattolico e da pontifex.roma.it vengono le urla e i lamenti di don Luigi Villa, “ex agente segreto vaticano – così dice – con nomina di Pio XII e su volontà di San Pio da Pietrelcina”, che in missione speciale contro l’infiltrazione massonica in Vaticano [1] “ha subito 8 attentati alla vita documentati”.
Su Giovanni Paolo II, invece, non ci sarebbero dubbi: “è stato un apostata protestante”, beatificarlo è “un insulto alla cristianità” [2]. Oggi, poi, don Villa produce un argomento al quale attribuisce il valore di pistola fumante: “Come è possibile che un Papa baci il Corano? Solo per questo gesto manifestamente ereticale, nessun tipo di beatificazione può essere possibile”. Ma è evidente che gli varrà a niente: non si fa alcuna fatica a trovare più di trecento deputati disposti a dirsi pubblicamente convinti che Berlusconi non abbia mai pagato una puttana [3], e che ci vuole ad avere la maggioranza alla Congregazione per le Cause dei Santi sul fatto che in quella foto Wojtyla non stesse baciando il Corano, ma solo guardando il prezzo in quarta di copertina?


[1] Forse non lo sapevate ma Giovanni XXIII e Paolo VI erano massoni, don Villa lo ha dimostrato in una mezza dozzina di volumi.
[2] Una nota ufficiale del suo superiore avverte che “gli scritti di don Villa non godono di nessun appoggio o consenso o riconoscimento da parte della diocesi o del presbiterio o del vescovo”, ma che importa? Quando fanno così, sono adorabili.
[3] Eccetera eccetera eccetera.

martedì 22 febbraio 2011

Da mandarlo a cagare, insomma


Al professor Francesco D’Agostino piace scassare il cazzo al prossimo e, in vista del dibattito parlamentare su un disegno di legge che intenderebbe negarci il diritto di rifiutare che ci venga ficcato un tubo di plastica in gola contro la nostra volontà, Avvenire gliene dà occasione. “Il tema è giuridicamente complesso ed emotivamente coinvolgente – scrive – [e] dovrebbe essere affrontato con pacatezza di ragionamento, sobrietà lessicale, assenza di pregiudizi, rinuncia all’uso di toni superfluamente emotivi, rispetto nei confronti delle opinioni diverse dalle proprie”, ma si tratta solo di una volgare provocazione, perché fa esattamente il contrario: si scalda, provoca, offende e, soprattutto, dà per assodato ciò che non lo è affatto. Da mandarlo a cagare, insomma.
Il suo editorialuccio prende da subito una piega intollerabile: chi non la pensa come lui, che si autodefinisce “realista”, è un “ingenuo illuminista” che “alza continuamente la voce”, dando corpo ad “aspre e insensate polemiche” che hanno come ultimo fine quello di attentare al “diritto più prezioso, quello della vita”. Alla faccia del “rispetto per le opinioni diverse dalle proprie”, chi non la pensa come il professor D’Agostino è uno sconsiderato.
“Il disegno di legge cerca di trovare una saggia e difficile mediazione tra la tutela della vita, soprattutto quella dei malati terminali, considerata comunque un bene indisponibile, e il diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad alcuna forma di accanimento terapeutico e soprattutto a quelle che essa consapevolmente rifiuti”. Sarebbe questa, la “sobrietà lessicale”?
Se la vita non è nella disponibilità di chi la vive, se un tubo ficcato in gola non è terapia, di quale consapevole rifiuto si ha diritto? Non c’è spazio per alcuna mediazione: il disegno di legge mira solo a rendere obbligatoria per tutti un’opzione che a molti pare intollerabile. Quella opposta, al contrario, non impone ad alcuno delle scelte obbligate: ciascuno decide per se stesso circa i tempi e i modi del proprio fine vita. Quale “saggia e difficile mediazione” sarebbe possibile tra le due opzioni? Se il disegno di legge trovasse l’approvazione del Parlamento, l’autodeterminazione libera e responsabile troverebbe un limite solo in una delle due opzioni: sopportare il tubo ficcato in gola si dovrebbe, rifiutarlo non si potrebbe.
Chiamarla “mediazione” è uno sporco imbroglio e in qualche modo, il professor D’Agostino è costretto ad ammetterlo: “La vera posta in gioco non è come migliorare questo testo. Quello che è in gioco è un braccio di ferro bioetico tra «illuministi» e «realisti». Gli «illuministi» vedono la fine della vita umana posta sotto il segno di un’autodeterminazione lucida, serena, forte, coraggiosa, direi quasi «giovanile» e chiedono, in nome del rispetto per i diritti della persona, che la legge obblighi comunque i medici a rispettare l’autodeterminazione dei malati (indipendentemente dal fatto che possano essere o no malati terminali). I «realisti» non negano, ovviamente, che l’autodeterminazione possa aver davvero rilievo in alcuni, rari casi, ma sono ben più attenti al dato di realtà, per il quale nella maggior parte dei casi la morte è evento senile, che si caratterizza per la fragilità, la debolezza, lo stato di paura e di assoluta dipendenza del morente. L’appello all’autodeterminazione, per i realisti, meriterebbe attenzione se non aprisse un varco inaccettabile all’abbandono terapeutico”. In pratica, se liberamente e responsabilmente chiedo che mi si sfili quel tubo dalla gola, metto a rischio anche la vita di altri. E come?
“I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplicemente non vogliono essere lasciati soli, vogliono essere «curati», cioè che ci si prenda cura di loro. Indurre i medici ad abbreviare la vita degli anziani, dei lungodegenti, dei malati terminali, vincolandoli a «rispettarne» lamenti, recriminazioni, richieste fatte in tempi lontani, esasperate da stati emotivi e carenti di adeguata informazione è un rischio che non possiamo correre e contro il quale il disegno di legge sul fine vita prende fermamente posizione, il che basta a renderlo apprezzabile”.
È tutto chiaro: io non sono mai libero e responsabile, c’è sempre un D’Agostino che può chiedere di decidere al mio posto, e la sua scelta è senza dubbio migliore della mia. Non resta che metterlo nero su bianco per impedirmi di sbagliare, contro me stesso. Se ho la possibilità di chiederlo, non sono nelle condizioni di poter decidere. Se decido per tempo, quando non sono nelle condizioni di poter decidere c’è chi decide al mio posto, e contro quanto avrei deciso per tempo.
Ora è finalmente chiaro perché la vita non sia un bene nella mia disponibilità: è nella disponibilità di D’Agostino.

[...]



“Mi piace molto Berlusconi, penso sia un grande leader e un nostro grande amico, ma politicamente sono di sinistra: un socialista e non un conservatore. Quindi, solo per questo, preferirei D’Alema”

Seif al-Islam Gheddafi - Panorama, 10.9.2009


lunedì 21 febbraio 2011

Provate a dire agli italiani


Provate a dire agli italiani che la caduta della dittatura di Gheddafi avrà come conseguenze l’aumento della bolletta di luce e gas, l’arrivo di 70-80.000 libici a Lampedusa e un forte calo in borsa della Juventus, e poi vediamo quanto se ne potranno fottere dei bombardamenti sui civili, dei missili anticarro sparati ad altezza d’uomo contro folle inermi e del cecchinaggio su donne, vecchi e bambini che il rais ha appaltato a mercenari stranieri.
Credete che il nostro amore per la libertà sia così forte? Anche quando la dittatura non tocca noi? Avete così grande stima degli italiani? La nostra fede nella democrazia ci chiede ogni tanto la vita di un maresciallo o un caporalmaggiore in Afghanistan o in Iraq, e noi gliela diamo, ma si può pretendere di più? Si può pretendere che la caduta della dittatura in Libia ci debba costare così tanto alla pompa di benzina? Voi pensate di sì? Io ho dei dubbi. Penso che almeno la metà degli italiani – voglio essere ottimista – non sia disposto a pagare troppo la libertà e la democrazia in Libia. Penso che almeno metà dell’altra metà storcerebbe il muso al momento di pagare.

Dico che l’Italia ha tanto copulato con Gheddafi che ora se lo ritrova incastrato dentro. Situazione imbarazzante e oggettivamente tragicomica, roba che neanche al pronto soccorso sanno trattenere le risatine. Sfilarsi sarà facile per gli altri partner, per l’Italia no: Mattei, Andreotti e Craxi si erano limitati al petting, con Berlusconi si è arrivati all’amplesso, anche molto appassionato.
Amor fatale: se mette male per Gheddafi, mette male anche per la nostra già scassatissima economia. Sollevare la questione dei diritti umani del popolo libico sarà considerato di cattivo gusto, a termosifoni freddi. E gli italiani cominceranno a convincersi che – se non in Tunisia, se non in Egitto – c’è davvero un pericolo di una deriva islamista in Libia, e che Gheddafi ne è l’antidoto. In nome della lotta all’aumento dei prezzi, i nostri servizi segreti confezioneranno le prove che è stata al Qaida a organizzare la protesta di Bengasi, e converrà crederci. Putin manderà armi al rais perché correrà voce che fra gli insorti sono stati segnalati dei ceceni.
Scherzo, naturalmente, o almeno spero.

Solo sbarazzandoci di Berlusconi potremmo conservare il giro d’affari con una Libia che si sia sbarazzata di Gheddafi. Era un accordo tra popoli – potremmo metterla così – anche se è stato stretto da quei due tipacci, che certamente ci cavavano lucro personale a danno della loro gente: caduto uno, caduto l’altro, cosa impedisce ai due popoli di conservare il loro rapporto privilegiato?

 

Me lo sentivo



“Al primo carico di disperati che arriverà in Italia dalla Libia, qualcuno resterà di sasso, ci rimetterà la faccia e gli cadranno le braccia. Se gli spunteranno le tette, non sentiremo alcuna nostalgia per aver dato via la Venere di Cirene” (Malvino, 1.9.2008).

“Verrà un giorno…”


Tutto, sempre e ovunque, prima o poi cambia,
anche nei regimi che appaiono invulnerabili”

Il memento di Vittorio Zucconi ai Berluslovers è come una compressa effervescente di Alka Seltzer per chi è sopraffatto dalla nausea e dai bruciori di stomaco: non risolve il problema, ma dà sollievo. Ordunque, come il Manzoni fa dire a fra’ Cristoforo, siamo al “verrà un giorno…”, ma per non lasciare nel vago il monito: “Tutte le modifiche alla Costituzione, alla legge, alla procedura che rendano il potere politico ancora più intoccabile, opaco e impunito di quanto sia ora – scrive Zucconi – un giorno si rivolteranno contro coloro che oggi le chiedono per salvare [il culo a Berlusconi]. Beh, io non condivido e ritengo che sarebbe meglio abrogarle tutte, e subito, piuttosto che ritorcerle contro chi le ha volute.
Potrei capire, ma non giustificare, la rabbia degli esasperati e un altro Piazzale Loreto, potrei capire, ma non giustificare, le veline rapate a zero, Capezzone impalato, Cicchitto spalmato di pece, ricoperto di piume e dato alle fiamme, Sallusti e Signorini dilaniati a unghiate e a morsi, ronde di giacobini andar di casa in casa a rastrellare chiunque si sia troppo compromesso col regime… Potrei capire, insomma, il salasso di una resa dei conti che arrivi ad anemizzare il paese col rischio di ammazzarlo pur di levargli dal sangue ogni tossina: sarebbe pia illusione, e poi nemmeno tanto pia, ma potrei capirla.
Quello che non capisco – se mi è lecito il paragone – è come si possa immaginare che il fascismo sia davvero sconfitto lasciando intatto il Codice Rocco, e usandolo contro i fascisti.


Cronisti libici riferiscono




La torture par l’espérance


“Nelle cripte del Tribunale Vescovile di Saragozza, al cader di una sera di tanto tempo fa, il venerabile Pedro Arbues d’Espila, sesto priore dei domenicali di Segovia, terzo Grande Inquisitore di Spagna – seguito da un ‘fra redemptor’ (maestro torturatore) e preceduto da due famigli del Santo Uffizio, che reggevano delle lanterne – scese verso una segreta perduta”. È l’incipit de La torture par l’espérance di Villiers de L’Isle-Adam (La speranza, ne: Il convitato delle ultime feste, FMR 1980), e nella cella c’è rabbi Aser Abarbel, che “da più di un anno [è] stato quotidianamente sottoposto a tortura”, ma non si è ancora deciso a convertirsi, sicché “il venerabile Pedro Arbuez d’Espila [ha] le lacrime agli occhi, pensando che quest’anima così ferma si priva[…] della salvezza”. L’Inquisitore va ad annunciargli che l’indomani ci sarà l’autodafé, che talvolta spinge l’infedele a convertirsi in extremis e visto che con lui ogni opera di persuasione è stata vana…

Volevo esprimere un concetto prendendo a prestito dalla letteratura e Villiers de L’Isle-Adam mi tornava a fagiolo. Ma non voglio intrattenermi troppo sul racconto e arrivo subito al punto. In breve: quando l’Inquisitore e i suoi si ritirano, Aser scopre che la porta della cella è stata lasciata inavvertitamente aperta; e scappa, col cuore in gola scappa, è la sua ultima speranza; e incrocia pure due sgherri, che – pare un prodigio – sembrano guardarlo senza vederlo; e arriva infine a trovare rifugio in grande giardino che sembra un paradiso; e lì sente abbracciarsi da dietro; e sono le paterne braccia di don Pedro; che gli dice: “Ma come, figlio mio! Alla vigilia, forse, della salvezza… volevate dunque lasciarci!” (trad. Claudia Weiss).

Il concetto che volevo esprimere è quello della crudeltà che sta nell’amore di chi ti vuole salvare ad ogni costo, avendo un’idea di salvezza esattamente opposta alla tua. Non ha gli strumenti del Tribunale Vescovile di Saragozza, oggi, e dunque si limita a torturarti con la molestia, e talvolta ti illude che puoi eluderla, ma è pura crudeltà: si tratta di un gioco sadico. Sua Eminenza, per esempio, attacca dicendo: “Riflettendo sul senso dell’educare, mi sono visto io per primo sempre bisognoso di educazione”. Poi ridacchia e fa: “Gesù è l’esempio a cui ispirarsi, non solo per i credenti” (Avvenire, 20.2.2011).




domenica 20 febbraio 2011

Coda


“Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, [Vittorio Feltri] non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo”, così per Giuseppe D’avanzo (la Repubblica, 14.11.2010), e in giro non trovo smentite degli interessati. Fino a stasera non lo sapevo, ero sicuro di aver letto che il decreto di condanna per molestie (Tribunale di Terni, 9.8.2004) e l’allegata Nota informativa fossero arrivati a il Giornale per posta.
Un’altra cosa che ignoravo è che Sallusti ha lavorato ad Avvenire, lo apprendo dall’intervista concessa ad Antonello Piroso (Niente di personaleLa7, 20.2.2011). Avrà conservato legami coi colleghi di Piazza Carbonari? Fra questi non ve n’è almeno uno che sapesse della querela e della condanna a carico del direttore?

Vuoi vedere che ci abbiamo perso la testa sopra, ma il siluro che ha fottuto Boffo partiva proprio da Avvenire?


“Perché noi siamo amore”


Non ho seguito il Festival di Sanremo e non mi azzardo a dire che ce ne fossero di migliori, ma la canzone di Roberto Vecchioni è davvero brutta: testo ruffiano e sciatto, linea melodica prevedibile di nota in nota, arrangiamento da Korg SAS-20, esecuzione da peracottaio dei buoni sentimenti. Dev’essere stato un premio alla carriera, che a mio modesto parere non conta più di cinque o sei brani decenti nell’arco di quarant’anni.
Stavolta si trattava di bambini affogati a due miglia da Lampedusa, operai in cassa integrazione, studenti in piazza contro la Gelmini e – in alto – stava “il bastardo che sta sempre al sole”, “il vigliacco che nasconde il cuore”, ma pure la certezza che “questa maledetta notte dovrà pur finire” e la consolazione che in fondo ci resta l’amore, “perché noi siamo amore”.
Siamo gente di cuore, noi italiani, e a questo mix appeal di dolore e speranza non potevamo rimanere insensibili: ci assicura “il sorriso di Dio in questo sputo di universo”, come potevamo negargli un gesto di simpatia? D’altronde, lasciare il povero Vecchioni senza un segno di gratitudine nazionalpopolare ci avrebbe torturato l’anima con gli scrupoli, che onestamente, a cantautore morto, è cosa che comporta sempre atroci seccature. E poi noi siamo amore, ci piace darne prova al televoto.