“Ormai non sono più visioni sul futuro, ma numeri che parlano chiaro: le vendite dei libri di carta sono in calo, e il ricorso alla stampa tipografica tradizionale è sempre più insostenibile. Per converso la stampa digitale ha fatto passi da gigante, in termini di qualità e flessibilità, ed è una realtà in fortissima crescita”. Così scrive Antonio Tombolini, ma non è l’introduzione a un saggio: pubblicizza il suo Simplicissimus Book Maker. Volentieri mi presto alla marchetta, peraltro non richiesta, anche se con un e-book in mano non m’immagino nemmeno. Oddio, una dozzina d’anni fa ero convinto che non avrei mai comprato un pc, tanto meno che da carta e penna sarei passato a tastiera e mouse, ma l’idea che un libro possa essere fatto altro che di carta e inchiostro mi dà le vertigini, preferisco non pensare al fatto che mi possa capitare anche questo. In realtà, poi, anche non pensandoci, mi rendo conto, per esempio, che non compro più L’Osservatore Romano ma lo leggo on line da almeno tre anni. Cioè, ogni tanto lo compro, ma è solo per sentire quella carta sotto i polpastrelli, perché quello c’è scritto l’ho già letto la sera prima. Bah, sarà che invecchio, ma mi ritrovo con un sacco di contraddizioni e nessuna voglia di risolverle. Cara carta, cara vecchia carta, sei l’ultima che pensavo potessi tradire, ma ogni tanto capita, mi dispiace, e lo rifaccio. Dispiacendomene, ti giuro, e senza mai cavarne la soddisfazione che mi hai dato in tanti anni, ma poi ricapita, e mi ridispiace.
Vabbe’, divagavo. Ma neanche tanto. È che Antonio Tombolini mi offre lo spunto per due o tre pensierini sfusi: sulle “visioni del futuro”, sulla crisi della “stampa tipografica tradizionale” e su cosa sarà della cara vecchia carta.
Quand’ero un bimbetto, le scommesse della fantascienza erano assai ottimistiche. Segno del tempi: s’era in pieno boom e il futuro non poteva essere immaginato che roseo. Ricordo che le cose cominciarono a guastarsi sul finire degli anni sessanta e Il medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca (1971) segnò il cambiamento di umore. A rileggerlo, tuttavia, si scopre che il pessimismo aveva cominciato a serpeggiare da almeno una decina d’anni prima, ma in circoli ristretti, tra analisti guardati con sospetto, forse considerati pure un po’ matti. Ignoti al grande pubblico, comunque, come lo sono i matti che prevedono il rinascimento prossimo venturo. Miserie dello storicismo, ci cascano anche i migliori, quelli che, se non ci azzeccano, ci vanno assai vicino.
In esergo riportava una citazione dall’Apocalisse di Giovanni (20, 1-5) ed andava subito giù duro, il libricino di Vacca: “Mentre scrivo mancano trent’anni al compimento del secondo millennio della nostra era e, per ragioni diverse da quelle di mille anni fa, molti si attendono a breve scadenza una tragica catastrofe totale. I profeti di oggi non dicono che dobbiamo temere angeli, draghi e abissi, ma che dobbiamo temere l’olocausto nucleare, la sovrapopolazione, l’inquinamento e il disastro ecologico”. Il clima era completamente mutato, anche piuttosto in fretta, devo dire, perché solo quattro o cinque anni prima un numero di Epoca prometteva un futuro mica male. Forse qualcuno avrebbe fatto fatica ad adattarsi ad una alimentazione tutta artificiale e in pillole, qualcuno avrebbe avuto un po’ di eczema per quelle tutine argentate così aderenti, modello Star Trek, ma per il resto non c’era troppo da lamentarsi: due o tre ore di lavoro a settimana, non di più; vacanze interstellari con grossi sconti per famiglie; case ipertecnologiche e robot tuttofare; energia a iosa e a gratis, grazie all’atomo; il Gerovital, poi, sarebbe stato mutuabile.
Né questo, né l’apocalisse, c’è da dire: un po’ e un po’, diciamo. Già una dozzina d’anni dopo, infatti, Ridley Scott avrebbe stravolto Philip Dick e in Blade runner, che è del 1982, avrebbe costruito un 1992 diverso da quello immaginato del 1968. Meno apocalittico, diciamo. È che siamo portati a immaginare il meglio sempre migliore di quel che poi in effetti sarà, e col peggio esageriamo anche di più. Ci facciamo prendere la mano, ecco.
Il libro di Vacca mi è ricapitato sotto mano in questi giorni e l’ho riletto, senza però riuscire a rievocare l’impressione che potesse avermi fatto quarant’anni fa. Una nota, appuntata a margine del passo che ho riportato, non mi ha aiutato, perché ambigua: “E questo libro si salverà?”, chiedevo. Non potevo certo prevedere l’invenzione degli e-book, ma lo stato in cui era ridotto il volume ha dato a quella nota il valore di una folgorazione: una bolla sulla quarta di copertina, pagine ingiallite, quasi friabili, e in gran parte staccate dalla costa, per la polverizzazione della colla. Un po’ distrutto dal tempo, un po’ no. Il supporto resisteva, diciamo. Così per quanto ho riletto: “Da molti segni appare che un tempo di fenomeni degenerativi è già cominciato…”. Ben detto: già da allora si cominciavano a produrre libri in materiale scadente, era l’inizio della crisi del cartaceo.
Non era iniziata male, anzi. La Bibbia di Johann Gutenberg, per dire, si mantiene ancora in ottimo stato. Altra carta, altro inchiostro, altro prezzo. Sfondo una porta aperta dicendo: un altro genere di lettore.
Non era iniziata male, la storia, ma neanche benissimo. La gloria andò a Gutenberg, ma il merito era stato tutto del grande Panfilo. Chissà come gli girerebbero le palle a leggere, su Wikipedia, che è certo abbia usato i caratteri mobili 22 anni prima di Gutenberg, senza però riconoscergli alcun reale primato: “sarebbero auspicabili ricerche negli Archivi di Stato di Venezia, Capodistria e Milano”, cincischiano. Ignorando che Antonio Coccio, detto il Sabellico (1436-1505), testimonia: “Alle altre felicità del principato del doge Pasquale Malipiero si aggiunge che allora, per la prima volta, la maniera di stampare i libri fu trovata in Italia; quella invenzione stessa che si dice essere di un germano” (Storia veneta, 1486).
Testimonianza viziata da orgoglio campanilistico, si dirà. Si dirà che della Bibbia di Gutenberg ci sono giunti 16 esemplari e delle opere stampate dal Nostro nessuna. E questo è falso, perché ci rimane testimonianza del padre guardiano del convento di Capodistria, morto nel 1476: cita un Responsorio di Sant’Antonio da Padova stampato dal grande Panfilo nel periodo che soggiornò in quella città. Prove in abbondanza che vi soggiornò fino al 1446: quattro anni prima che a Magonza vedesse luce la Bibbia del “germano”.
Sarà stata carta di qualità peggiore, questo è tutto. Certo, una Bibbia si conserva con cura maggiore di un Responsorio. Sta di fatto che la crisi de Il Foglio ha preso ad avvitarsi con la infelice scelta di cambiare la carta sulla quale veniva stampato: stesse stronzate, ma sotto i polpastrelli si cominciò a sentirlo.
La crisi del cartaceo prende piede dal trattar male la carta. Per esempio, vorresti farne una Bibbia in volgare ma la chiami il manifesto? Non può che finir male.