L’implicazione d’ordine morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante», cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti, non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il «bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio «pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene») si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio «pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel «malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono» può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto. (Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il «benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure interne.)
Ciò premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso, adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del «malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume al «pensare».