mercoledì 18 aprile 2012

«Pensar male» e «pensar bene»

L’implicazione d’ordine morale è inevitabile – direi necessitata – nella definizione del «malpensante», cioè di chi è «incline a pensare male, a formulare giudizi negativi sugli altri» (Devoto-Oli), di chi «tende a vedere il male ovunque o ad avere una cattiva opinione degli altri» (De Mauro), di chi «per propria natura è incline a pensare male del prossimo e a interpretare nel senso peggiore le azioni e i comportamenti altrui» (Treccani): ogni definizione del «malpensante», infatti, non può fare a meno di usare un termine – il «male» – che non ha alcun senso fuori dall’ambito morale. In quest’ambito, com’è noto, il «male» (ma anche il «bene») pretende statuto di assoluto e nel farsi avverbio rimanda inesorabilmente al «pessimo» (e all’«ottimo») che impronta il pregiudizio «pessimistico» (o quello «ottimistico»), sicché «pensar male» (o «pensar bene») si fa strumento obbligato della costruzione di un sistema entro il quale tutto regge, ma solo se si assume che l’uomo sia «intrinsecamente cattivo» (o «intrinsecamente buono»). Il «malpensante», dunque, sarebbe chi inclina a un pregiudizio «pessimistico» sulla natura umana, facendole con ciò quel torto che difficilmente gli uomini perdonano, soprattutto se hanno bisogno di essere confortati dall’«ottimismo» del «benpensante». È del tutto ovvio, dunque, che sul «malpensante» pesi la tacita condanna di quanti hanno bisogno del conforto che è il tacito patto dei «benpensanti». È altrettanto ovvio, però, che fuori dalla tautologia sulla quale poggia ogni morale, e per la quale «il male è male» e «il bene è bene», «pensar male» non abbia alcun senso. In altri termini, solo a un «benpensante» è dato il poter rilevare un errore morale nel «malpensante»: solo chi ha bisogno di pensare che l’uomo sia «intrinsecamente buono» può permettersi di liquidare il «pensar male» come semina di ingiusto sospetto. (Qui conviene sorvolare sulla natura di questo bisogno, ma abbiamo già detto che ha per oggetto un conforto. Senza dilungarci troppo sul movente psicologico che mira a questo genere di conforto, possiamo però identificarlo come istanza difensiva e consolatoria, tra le procedure nevrotiche post-traumatiche: il «benpensante» ha bisogno di sentirsi «buono tra i buoni» per costruirsi un involucro protettivo che lo difenda dalle minacce esterne e dalle paure interne.)
Ciò premesso, devo dire che non mi riconosco nel «malpensante» sul quale G. scaglia i suoi strali di «benpensante» (non lo linko e non lo cito per esteso, adeguandomi al suo canone allusivo). Dichiaro la mia estraneità a quell’ambito morale entro il quale è d’obbligo decidere se l’uomo sia «intrinsecamente buono» o «intrinsecamente cattivo» e infatti ogni volta che «penso male» di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai «questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva», ma «forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano», e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe «cattive», ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica se sgusciate dal mallo ipocrita. Offro le mie argomentazioni ad ogni confutazione, ma non posso ritenere valida quella che pretenda di eluderle dichiarandole viziate da un pregiudizio che a ben vedere è solo la negativa di un proiettato: rigetto, infatti, le definizioni del «malpensante» con le quali ho aperto questo post, perché implicano l’uso di categorie che non ritengo efficaci nella formazione del giudizio che si sussume al «pensare».

lunedì 16 aprile 2012

[...]

Non sono disposti a rinunciare neanche all’ultima tranche dei rimborsi elettorali: «Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici ai partiti - dicono - sarebbe un errore drammatico: la politica finirebbe nelle mani di lobbies, centri di potere e di interesse particolare». Perché, ora che i partiti sono finanziati con denaro pubblico, la politica in quali mani è? 

mercoledì 4 aprile 2012

Il filo

Chissà se Günter Grass scriveva già poesie ai tempi in cui vestiva l’uniforme delle Waffen-SS, chissà se anche allora, come oggi, aveva tanto a cuore la pace mondiale. Se sì, avrebbe potuto scrivere già allora i versi che ci offre oggi: la pace mondiale è minacciata dagli ebrei, scrive, ed è quello che avrebbe potuto scrivere già allora, perché la tesi che gli ebrei fossero una minaccia alla pace mondiale era quella portante del Mein Kampf, che le Waffen-SS erano tenute ad avere in fondo allo zaino, tra due cambi di mutande e la maglia di lana pesante. La vita può trasformare un ragazzino della cazzuta gioventù hitleriana in un bonario cazzone socialdemocratico insaccato in amabile tweed e mite velluto a coste, può rivoltare un uomo come un guanto: di fatto non scompare il filo antisemita che ne cuce insieme le sagome. 

venerdì 30 marzo 2012

Un falso grossolano


Prima ancora di leggerne il contenuto, alcuni dettagli della lettera che stamane era resa pubblica da Irish Tribune devono indurci a pensare che si tratti di un falso: l’intestazione in latino (anche per la corrispondenza con l’estero è già da qualche anno in uso la dicitura in italiano «Congregazione per la Dottrina della Fede»); la mancanza della formula d’uso sotto il numero di protocollo («Si prega citare il numero nella risposta»); il timbro in calce (mai usato dal cardinal Levada, né da suoi predecessori). In quanto al contenuto, è follia pura.
Per accogliere la presunta proposta del Primate di Irlanda si dovrebbero modificare quasi due dozzine di canoni del Codice di Diritto Canonico. La Commissione Teologica Internazionale non è mai riuscita ad esprimere un parere in due mesi. Il papa che avrebbe approvato «favorably and kindly» l’ideona di «allow priests to have homosexual relations with each other as long as it serves to prevent any acts of pedophilia on children in their care» è lo stesso che nel 2005 ha dichiarato incompatibile al sacerdozio anche la sola tendenza omosessuale, aprendo la caccia al ricchione in tutti i seminari. Più di tutto e prima di tutto, la dottrina è avversa alla scelta del «male minore». Un falso così grossolano che neanche vale la pena di scendere nei dettagli.


Aggiornamento Un pop-up con un gran pesce si apre sulla pagina dell’Irish Tribune che ho linkato qui sopra: un falso grossolano che era un pesce d’aprile, confezionato il 30 marzo, non si capisce bene se dal giornale, cosa che a me pare gravissima sul piano deontologico, o da qualcuno che al giornale ha rifilato la falsa lettera del cardinal Levada, cosa altrettanto grave per la pubblicazione senza verifica.

martedì 20 marzo 2012

Bagattelle

«Via la Divina Commedia dalle scuole» è del 6 gennaio. L’appello «al Ministro della Pubblica Istruzione, ai Rabbini e ai Presidi delle scuole ebraiche, islamiche ed altre di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o almeno di inserire i necessari commenti e chiarimenti» non ottiene altro che «un certo numero di risposte critiche, alcune di queste volgari, piene di insulti e prive di contenuto, altre garbate e più articolate», alle quali arriva «Una risposta ai lettori della Divina Commedia», il 29 gennaio.
Prima di un articolo a firma di Anna Maria Brogi su Avvenire, che è del 12 marzo, non sono riuscito a trovare traccia di dibattito sulla questione sollevata da Gerush92: nulla tra il 6 e il 29 gennaio, nulla fino al 12 marzo. Il 13 marzo l’articolo è ripreso dal Corriere della Sera e solo allora, a due mesi dal lampo, s’ode il tuono: ad oggi, interrogando Google su “Gerush92+Dante”, si ottengono oltre 250 pagine, nessuna in data antecedente al 13 marzo. Mi domando se la questione sia stata sollevata da Gerush92 o da Avvenire o dal Corriere della Sera.
Mi pongo anche un’altra domanda. Non ho trovato neanche un commento favorevole all’iniziativa di Gerush92 e anch’io ritengo che si tratti di una proposta delirante. Proprio perciò chiedo: se a Dante Alighieri non possiamo rinfacciare il suo antisemitismo, perché continuiamo a rinfacciarlo a Louis-Ferdinand Céline? 

sabato 17 marzo 2012

La coppia gay è famiglia

In merito alla sentenza n. 4184/2012 della I Sez. Civ. della Cassazione – quella che prende atto di quanto sia «radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per così dire “naturalistico”, della “esistenza” del matrimonio» e perciò afferma che «il diritto alla “vita familiare”» e ad «un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata» debba essere riconosciuto anche ai «componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto» – non ho molto da dire: da queste pagine ho più volte espresso la stessa opinione.
Certo, le unioni omosessuali continueranno a non produrre effetti giuridici nell’ordinamento italiano fino a quando il Parlamento non prenderà atto che esse hanno, al pari di quelle eterosessuali, il pieno diritto di formalizzarsi in «matrimonio», ma un muro è caduto e una realtà autoevidente, cocciutamente negata dagli ottusi e torvi guardiani della tradizione, trova il dovuto riconoscimento nella sede qualificata a produrre argomento giurisprudenziale: la coppia gay è famiglia.
Siamo in uno di quei momenti che ci consentono di avvertire più distintamente quel continuo fluire da società a giurisprudenza e da giurisprudenza a società che periodizza il progredire umano. Chi si sognerebbe, oggi, di definire «pubblico scandalo» il matrimonio celebrato con rito civile tra un uomo e una donna? Chi si sognerebbe, oggi, di non considerarlo valido al pari di quello celebrato con rito religioso? Nemmeno più la Chiesa cattolica, anche se nel Codice di Diritto Canonico si continua a leggere che «non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento» (Can. 1055 - §2), ma dove stanno più i vescovi come monsignor Pietro Fiordelli che diano del «pubblico peccatore» e della «pubblica peccatrice» a un uomo e a una donna che abbiano deciso di sposarsi in municipio invece che in chiesa? Non parlano, forse hanno addirittura disimparato a pensarlo. Le sentinelle della tradizione non custodiscono più il sacramento: si accontentano di fare la guardia ad un istituto sconsacrato. Difendono strenuamente ciò che possono difendere, ma indietreggiando.
Un esempio? Nel 2007 l’odierno presidente della Cei disse: «Nessuna condanna per le convivenze, ma è inaccettabile creare un nuovo soggetto di diritto pubblico». «Nessuna condanna per le convivenze»? E che cazzo di cattolico sei? Non glielo chiese nessuno. Era vistosamente indietreggiato sul piano della morale cattolica e tuttavia la posa era marziale, si faceva attenzione solo a quell’«è inaccettabile creare un nuovo soggetto di diritto pubblico»: sembrava la difesa di un sacramento, e invece era la difesa di un istituto, anche laddove fosse sconsacrato. Il continuo fluire da società a giurisprudenza e da giurisprudenza a società assicurava un «trattamento omogeneo» a ogni genere di convivenza, perfino da parte di Sua Eminenza: il «pubblico scandalo» da condannare non era più la convivenza fuori dal matrimonio celebrato con rito religioso, ma l’equiparazione legale della convivenza a un qualsiasi genere di matrimonio.

Un muro è caduto ed è interessante passare in rassegna i bernoccoli. Avvenire ce ne offre un ampio assortimento.


Potranno anche baciarsi in pubblico senza che qualche stronzo abbia da ridire?

Nessuna novità? Prima della sentenza della Cassazione, una coppia gay era già famiglia?

Ecco, brava Eugenia, lei sì che soffre bene.

E i neri si sono emancipati perché abbiamo avuto una perdita di valore dell’essenza della razza bianca in quanto tale.

martedì 13 marzo 2012

[...]

“Suona insensata la proposta avanzata dal comitato per i diritti umani Gherush92 di censurare la Divina commedia in quanto antisemita, razzista e omofoba”, ha ragione Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 13.3.2012). Altrettanto insensato, però, suona quanto scrive riguardo a “Cicerone, Orazio, Seneca e Sant’Agostino, tutti più o meno terrorizzati dal proselitismo ebraico”: la pratica del proselitismo è estranea all’ebraismo.

«La vera minaccia non è l’Iran»

Dice che «la vera minaccia non è l’Iran», dice che «il timore di un “pericolo imminente” attribuito alla “comunità internazionale”» è in realtà una paranoia tutta israeliana: Cina, Russia, India, Turchia e quasi tutti i paesi arabi pensano che «la regione sarebbe più sicura se l’Iran fosse in possesso di armi atomiche», mentre l’Europa, dice, considera Israele «la principale minaccia alla pace mondiale». Dice che comunque «è ancora da provare» che l’Iran stia costruendo un arsenale nucleare e che, se davvero lo sta costruendo, avrebbe funzione esclusivamente «dissuasiva». Semmai è quello israeliano, dice, ad essere «estremamente pericoloso». Dice che non pochi negli Stati Uniti, più del fatto che gli ayatollah possano arrivare a costruire una bomba atomica, sono preoccupati di un attacco israeliano ai siti nucleari iraniani.
A parlare non è un leader di Hezbollah o di Hamas, ma Noam Chomsky (Internazionale, 939/XIX - pag. 32). Sembra sfuggirgli che gli israeliani sono in possesso di armi nucleari da quasi cinquant’anni e non le hanno mai usate, neppure quando lo Stato di Israele è stato fatto oggetto di aggressioni militari che avevano per fine dichiarato la sua distruzione. Sembra gli sfugga pure che la dittatura cinese e la democratura russa hanno attivamente sostenuto il programma nucleare della teocrazia iraniana, non si sono limitate ad appoggiarlo, e che l’hanno fatto solo in vista di un riassetto geopolitico del Medio Oriente a loro favorevole, poco importava, poco importa che il prezzo da pagare sia tutto israeliano. Sembra che a Chomsky sfugga che la distruzione di Israele è da sempre il sogno dato in pasto alle masse arabe dalle oligarchie che le opprimono addebitando all’esistenza di Israele ogni effetto di quell’oppressione. Senza dubbio, invece, gli sfugge che la posizione di India e Turchia verso Israele è mutata da poco, e solo per ragioni relative a problemi interni, causati dall’oltranzismo islamista. Non dovrebbe sfuggirgli, invece, che in Europa solo gli antisemiti più o meno dichiarati – avanzi di fascismo, comunistelli andati a male, ultras cattolici – ritengono che Israele sia una minaccia alla pace mondiale. Né dovrebbe sfuggirgli che negli Stati Uniti solo qualche isolazionista teme più un attacco preventivo israeliano che un missile armato di testata nucleare su Tel Aviv.
Troppe cose sembrano sfuggire a Chomsky. Sembra voglia farsele sfuggire per non prendere atto di ciò che è incontestabile: chi ha più volte dichiarato che Israele deve scomparire dalla carta geografica è ad un passo dall’avere la bomba atomica. Si può chiedere agli israeliani di non muovere un dito?

lunedì 12 marzo 2012

Premiata Rosticceria Bell’Italia

Da mesi si parlava solo di mercato e finanza, di lavoro e pensioni, di tasse e di crescita, di tagli e di ammortizzatori. Sentivate nostalgia della politica, vero? Sì, lo spread è politica, è politica pure il pil ed è politica l’irperf, l’ici, l’inps. Ma voi sentivate nostalgia della politica dei bei tempi andati, dico bene? Neanche molto andati, in verità, perché in fondo il governo Monti non ha neanche quattro mesi. È che vi eravate assuefatti all’aria fritta di cui la politica italiana è insuperabile friggitrice ed eravate in crisi d’astinenza, confessatelo, non vedevate l’ora di riassaporare quei croccanti battibecchi, fatti di niente, ma con tanto sale e tanto pepe, no? Niente paura, vogliate gradire un assaggino in attesa che la Premiata Rosticceria Bell’Italia riapra i battenti.

Angiolino: “La sinistra vuole i matrimoni gay”.
Rosi: “Giammai, il matrimonio è solo etero”.


Sapori di un tempo che qualcuno disperava fosse perso per sempre.  

domenica 11 marzo 2012

Hans e Greta, nomi di fantasia

Dev’essere stato assai frustrante farsi un culo grosso come una capanna, per anni, nel tentativo di dimostrare dalle pagine di Avvenire che non vi fosse alcuna ragione per aprire una discussione in sede legislativa sulle esenzioni fiscali di cui godono gli immobili di proprietà ecclesiastica, e che chiedere di discuterne fosse strumentale, per poi leggere in prima pagina, su Avvenire, che almeno una ragione s’era trovata e proprio Angelo Bagnasco, quello che gli passa la mesata, concedeva: “Discutiamone”. Roba da mangiarsi il fegato, povero Umberto Folena. Distrarsi, dunque, pensare ad altro, cambiare genere e registro. La bioetica, per esempio, ma alla mano.


Hans e Greta, nomi di fantasia, ma non richiamano alla mente Hansel e Gretel, quelli dei fratelli Grimm? Sarà per farci intendere che sono prigionieri di una strega? Che la casetta sarà di marzapane ma dentro vi si consuma un incubo? L’augurio è che i due bambini crescano e ammazzino la strega, che poi sarebbe il giusto lieto fine? 

venerdì 9 marzo 2012

Un metablog strafighissimo

Come dareste la notizia che La7 è stata condannata a risarcire Daniele Luttazzi per un milione e 200 mila euro più interessi e spese processuali per la chiusura anticipata, nel 2007, del suo programma “Decameron”? Probabilmente scegliereste un titolo del tipo: «Luttazzi vince contro La7», oppure: «Luttazzi vince causa con la La7», o ancora: «La7 perde causa “Decameron”». Per il lettore dalla memoria corta che non rammenta perché il programma fu chiuso (i responsabili dell’emittente ritennero che quel «Pensa a Giuliano Ferrara dentro una vasca da bagno…» potesse procurare noie), probabilmente aggiungereste un breve ragguaglio del tipo: «era satira», oppure, volendo un po’ allungare il titolo, «per i giudici si trattò di censura».
Ora, però, immaginate di avere una moglie che piglia la mesata da La7 e un debito di riconoscenza nei confronti di Ferrara, al quale il babbo vi raccomandò per entrare nel giro, e dite: come titolereste? Presto detto: «Daniele Luttazzi dice che La7 ha perso la causa contro di lui». «Dice», poi va’ a sapere se è vero, può darsi pure l’abbia persa lui, boh, chissà, passiamo ad altro: sapevate che la birra non va bevuta troppo fredda? No, eh? Siamo un metablog strafighissimo, ammettetelo. 

Bugiardini obliqui

Riporto la prima parte di un articolo che ieri era ospitato da Avvenire nel suo inserto èVita:


“A un mese circa dal previsto arrivo nelle farmacie italiane di EllaOne, la pillola dei cinque giorni dopo, e a poco meno di due anni dal debutto della Ru486, si affaccia sul mercato un’altra pillola dalle potenzialità abortive. Parliamo di Esmya, un prodotto a base di Ulipristal acetato, il principio attivo della stessa EllaOne. Esmya è il nome commerciale di un nuovo tipo di farmaco impiegato per il trattamento preoperatorio dei fibromi uterini nelle donne adulte in età riproduttiva. Il 27 febbraio la Gedeon Richter, la casa farmaceutica ungherese produttrice, ne ha annunciato l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte della Commissione europea, decisione che segue il parere positivo del Comitato per i medicinali prodotti per uso umano dell’Agenzia europea per i medicinali del 16 dicembre 2011 e che si applica per tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Trattandosi di Ulipristal, però, la prudenza si impone. Lo evidenzia un’interrogazione parlamentare al ministro della Salute presentata in settimana da Paola Binetti, che ribadisce i vantaggi del farmaco nel suo impegno specifico di cura dei fibromi, ma ne rileva il terribile potenziale. «Il prodotto – si legge – verrà messo in commercio in compresse da 5 milligrammi in blister da 28». È sufficiente un rapido calcolo per comprendere che «assumendo 6 compresse insieme si riproducono i 30 milligrammi di EllaOne, mentre con una decina si supera l’effetto della Ru486». Dopo il Cytotec, farmaco comunemente usato come anti-ulcera e abusato come abortivo clandestino, ecco che si rinnova, sotto nuove vesti, il problema dell’uso scorretto di un medicinale per ottenere effetti abortivi. Come fare a contrastarlo?...”.

Ho provavo a mettermi nei panni di chi considerasse necessario contrastarlo e con disappunto ho rilevato che Paola Binetti dava dalle pagine di Avvenire tutte le informazioni utili per un “corretto abuso” del farmaco.

mercoledì 7 marzo 2012

After-birth abortion

Un editoriale di Carlo Cardia (L’infanticidio nel deserto del nichilismo - Avvenire, 6.3.2012) mi dà occasione di dare finalmente una risposta a quanti mi hanno scritto, la scorsa settimana, per segnalarmi l’articolo di Alberto Giubilini e Francesca Minerva (After-birth abortion: why should the baby live? - Journal of Medical Ethics), che ha provocato pronte e vivaci proteste da parte di alcuni organi di stampa cattolici, giornale della Cei in testa. La tesi esposta nell’articolo, che oggi, dopo essere stato difeso dal direttore della rivista, è irreperibile sul sito della rivista (è scomparso anche l’abstract), è zoppa nella formulazione (“aborto post-natale” è contraddizione in termini) e nell’argomentazione (dirò perché): tutto, in pratica, poggia sull’assunto che il neonato non sia persona, come non lo è l’embrione, sicché le ragioni che giustificano l’aborto giustificherebbero anche l’infanticidio. Non c’è bisogno di essere volpini per capire che si tratta dello stesso argomentare di chi è contrario all’aborto, sempre, perché si tratterebbe di “infanticidio in utero” (altra contraddizione in termini).
In entrambi i casi siamo dinanzi a tizi che non riescono a scorgere nessun evento notevole nel nascere: per gli oltranzisti che sono contrari all’aborto la nascita sta già nel concepimento, per Giubilini e Minerva si nasce solo due, quattro o otto mesi dopo il parto. Superfluo dire che si tratta di due forzature inammissibili, almeno a mio parere.
Nel primo caso, infatti, l’ovocellula fecondata avrebbe già statuto di persona e dovrebbe essere considerata soggetto giuridico: voglia o no, una gravida sarebbe tenuta a portare a termine la gravidanza, anche se il frutto del concepimento è conseguenza di uno stupro, anche se la gestazione mette a rischio la sua salute fisica o psichica. Nel secondo caso, invece, il neonato non avrebbe alcun diritto: li maturerebbe tutti successivamente (i due autori dell’articolo non sono molto chiari sul quando). È evidente che in entrambi i casi si preferisca guardare un problema estremamente complesso da un lato solo.
Devo perciò deludere chi ha pensato che la tesi di Giubilini e Minerva fosse anche la mia. Per tutti, cito Giovanni Fontana, che mi ha scritto: “Credo tu sia d’accordo con l’articolo, al di là di una sostanziale rozzezza delle argomentazioni (comunque ben più sofisticate delle repliche avute dal grande pubblico), come lo sono io”. No, non sono affatto d’accordo con l’articolo. Le argomentazioni sono rozze, ma la tesi è palesemente insostenibile.
Agli altri – cito, tra tutti, Nicola Bergonzi, che mi ha fatto la cortesia di linkarmi tutto il necessario per questo post – dico che a mio parere il discrimine deve essere posto intorno all’epoca gestazionale oltre il quale il feto ha possibilità di vita autonoma (20-22 settimane). Non vorrei ripetermi: rimando alla polemica che si è consumata su queste pagine tra me e Francesco Maria Colombo, l’anno scorso.

Ma veniamo all’editoriale di Carlo Cardia, il quale pensa di poter approfittare di un articolo infelice, ancor più infelicemente argomentato, per poter mettere in discussione il diritto di una donna di interrompere una gravidanza, quando questa metta a rischio la propria salute e quando il feto non è ancora in grado di vivere fuori dall’utero.
“Credo si debba riflettere ancora sul terreno di coltura che ha favorito l’affermazione di tesi che prima neanche affioravano nel pensiero umano (se non in segmenti di estremismo votati all’irrilevanza), e sulle loro conseguenze. Il terreno di coltura è quello proprio del nichilismo, nel quale l’uomo si trova per caso a vivere e vive seguendo il caso, perdendo coscienza della propria umanità. In questo deserto non esiste verità alcuna, che ci parli e ci interroghi, da ricercarsi con fatica e gioia, diventi criterio di comportamento che avvicina gli uomini, li rende solidali, li fa crescere insieme. Esistono solo opinioni, tante quante sono le persone, tutte burocraticamente eguali, e ogni gerarchia di valore e giudizio è azzerata. L’uomo è abbandonato a se stesso, la sua possibilità di dominio è dilatata fino a comprendervi ogni cosa, a cancellare il concetto di bene e di male, scendendo nel declivio che porta al male assoluto, da consumarsi anche nel privato. Il male è spogliato della sua tragicità, esposto come merce da prendere o lasciare, teoria da accettare o rifiutare, nel silenzio della coscienza”. Cazzate. La tesi esposta nell’articolo di Giubilini e Minerva era espressamente un esercizio di logica applicato alla morale. Non aveva alcuna pretesa di normare, né avanzava proposta in tal senso. [Uso l’imperfetto perché il Journal of Medical Ethics ha ritirato l’articolo, convincendosi infine che fosse indifendibile.]
Altrettanto assurda quanto quella di negare a una donna una gravidanza libera e responsabile, la tesi di Giubilini e Minerva almeno aveva l’attenuante di non porgersi al legislatore come istanza irrinunciabile, tentazione sempre irrefrenabile per i cattolici, che, potendo, manderebbero in galera pure chi si fa le seghe.
Ovviamente è chiaro che Cardia e Avvenire abbiano il diritto di pensare ciò che vogliono e di scriverlo, ma il fatto che la rivista abbia rinunciato allo stesso diritto non dimostra affatto che l’ovocellula fecondata sia persona, ma è questo che Cardia vuol farci intendere: “Il velo teorico che appanna questi concetti fa crescere la vertigine in chi li legge nella loro realtà corporea, e fa riflettere”. Pensando di aver trovato prova provata della sua tesi nella resipiscenza del Journal of Medical Ethics, Cardia esagera e inciampa: “Si pensa alle parole di Fëdor Dostoevskij sul male che si reca ai più piccoli, come alla colpa più grave che esista al mondo”, e così sembra non aver mai letto I fratelli Karamazov, dove per la sofferenza dei piccoli innocenti Ivan chiama Dio a imputato, che trova in Alyosha un avvocato difensore in grave difficoltà. “Inizia un cammino a ritroso nella storia, e si dà corpo a ipotesi che sembrano appartenere alla fantasia corrotta del marchese De Sade”, dimenticando il Dio che stermina gli innocenti primogeniti degli egiziani per fare un favore al suo popolo eletto e che chiede ad Abramo di sacrificargli Isacco. Conviene andare a ritroso?

lunedì 5 marzo 2012

Il parente dell’eroe

Superando di pochissimi voti Rita Borsellino, Fabrizio Ferrandelli sembra avere vinto le primarie di Palermo. Senza dubbio seguiranno polemiche, forse anche chiassose, già se ne avvertono avvisaglie con oblique denunce di brogli e chiamata in giudizio di Pierluigi Bersani, colpevole di aver puntato un’altra volta sul cavallo sbagliato, anche se stavolta era il cavallo della scuderia che non perdeva da un pezzo. Si tratta delle solite polemiche che seguono tutte le primarie del centrosinistra, che una volta chiuse, chiunque le abbia vinte, dovrebbero vedere i candidati perdenti dare il solenne impegno di un pieno sostegno al vincitore e che invece, di regola, lasciano ferite più o meno purulente, risentimenti mal dissimulati, che di solito portano alle elezioni una coalizione pesantemente fiaccata, pronta a sfibrarsi se le vince e a parcellizzarsi se le perde. La litigiosità intestina mossa da ambizioni, sempre sovradimensionate a chi le indossa, sembrerebbe essere scritta nel dna del centrosinistra. Negli ultimi anni, poi, è sempre più evidente, talvolta con atroce evidenza, che sotto la vernice delle idee sfoggiate dagli opposti contendenti alla guida della coalizione c’è ben poco, spesso nient’altro che il marchio di una cordata.
Nel caso di Palermo, le polemiche sarebbero seguite anche se avesse vinto Davide Faraone o Antonella Monastra. Non così, c’è da scommettere, se avesse vinto la sorella del giudice che fu vittima di un attentato nel 1992. Per il nome che porta, la vittoria di Rita Borsellino sarebbe parsa altra cosa che la vittoria di un ex Idv sostenuto da dissidenti del Pd e da Raffaele Lombardo, chiacchieratissimo governatore della Regione Sicilia. Non è escluso che anche stavolta qualcuno insinuerà che la mafia possa averci messo lo zampino, è da escludere che sarebbe accaduto se avesse vinto Rita Borsellino: c’è da presumere che lo farà Leoluca Orlando, è il pezzo forte del suo esiguo repertorio.

A chi gli chiedeva chi avrebbe votato a Palermo, qualche giorno fa, su Raitre, Luigi De Magistris ha risposto: “Rita Borsellino, senz’alcun dubbio”. Perché? Perché “con quel cognome” non avrebbe potuto farne a meno. Che il partito al quale iscritto appoggiasse proprio Rita Borsellino non gli è parso motivo sufficiente, ma è probabile che l’Idv abbia deciso di appoggiarla per la stessa ragione che a Luigi De Magistris parrebbe sufficiente per votarla.
È evidente che il rispetto della memoria di Paolo Borsellino implichi l’obbligo di un occhio di riguardo a sua sorella, almeno per chi pensa di poter con ciò reclutare un martire alla propria causa. È altresì evidente che la sorella di un martire possa far carriera politica indipendentemente da ogni qualità e da ogni merito. Può darsi io sia in errore, ma mi pare una pessima abitudine, che in sé ne chiude altre due, altrettanto disdicevoli, tutte e due molto italiane.
La prima è quella di estendere i meriti di un eroe ai suoi familiari, che io trovo non meno odiosa dell’estendere le colpe di un reo ai suoi cari. D’altra parte, questa abitudine è di così ampia presa da essere rintracciabile ovunque, anche dove il familismo trova critiche feroci. Basti l’esempio della signora Farina e della signora Schett, alle quali i radicali, in barba al vigente diritto di famiglia, si ostinano a negare il loro cognome, per sbandierarle come bandiere: Maria Antonietta Coscioni e Mina Welby.
La seconda pessima abitudine è la negativa della prima: il parente dell’eroe si sente investito delle sue virtù e rivendica pieno diritto di incassarne gli utili. Quanto scommettiamo che Rita Borsellino insinuerà che la sua sconfitta sia oltraggio alla memoria di suo fratello?

Spirito, con la minuscola


È la prima pagina della Logica come scienza del concetto puro (1905). A me pare che bastino queste due dozzine di righe a darmi ragione di quanto scrivevo alcune settimane fa: «Non è un caso che di Croce non vengano più ristampate le opere filosofiche: a rileggerle si sente puzza di cane morto. Fosse per quelle, Croce sarebbe stato già dimenticato da tempo: lo ritroveremmo solo in due righe, su qualche dizionario, come un neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa. A salvarlo dall’oblio è stato solo il suo tiepido antifascismo, qualche discorso in Parlamento, qualche pagina ben scritta sul Seicento, il catalogo degli aneddoti smerciato dalle figlie, le citazioni ormai stucchevoli che certi tromboni sfiatati si passano da ormai tre generazioni».
A poco più di un secolo da quando fu scritta, la Logica sta a dimostrare perché del sistema crociano non resti in piedi nulla: ne era la struttura portante e non uno degli assunti relativi a pensiero, concetto, intuizione, sensazione o rappresentazione è in grado di reggere a quanto abbiamo scoperto grazie alle neuroscienze. L’idealismo crociano, di cui la Logica è il prontuario, esce con le ossa rotte proprio dallo scontro con la scienza che Croce aveva pensato di poter eludere degradandola a mero strumento per “chiamare a raccolta moltitudini di rappresentazioni o almeno di indicare con sufficiente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e di richiamarle”. Dove è possibile trovare, oggi, chi sia disposto ad affermare che «la conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è insomma, o produttrice di immagini o produttrice di concetti»? Sulle gengive gli arriverebbe l’ultima edizione dei Principles of Neural Science di Kandel, Schwartz e Jessel, che pesa più di un chilo e ha copertina dai bordi micidiali.
Il sistema crociano può aspirare solo a qualche paginetta nei manuali di Storia della Filosofia, prima o dopo quelle dedicate a Giovanni Gentile, che, se non avesse avuto linfelice idea di compromettersi col fascismo, oggi godrebbe senza dubbio di maggiore attenzione di quanta ne residua su Benedetto Croce, per l’esser stato, seppur tiepidamente, antifascista e l’aver preso titolo di liberale, sebbene gli si possa imputare, come ho scritto in altra occasione, «il fallimento del liberalismo in Italia, insieme ai tanti liberali che come lui hanno tradito la lezione del liberalismo di scuola anglosassone, mettendo la persona al posto dell’individuo e sporcando di metafisica il concetto di libertà».

Sono stato fatto oggetto di severo rimprovero per i giudizi espressi nei post che qui ho richiamato. Mi è arrivato via e-mail da un tizio che si è definito «crociano» e che ha mosso obiezione alle mie affermazioni con argomenti che compensavano la loro intrinseca debolezza col veemente pathos del nipote al quale abbiano offeso il nonno.
Ho l’abitudine di non rispondere a una lettera senza aver prima verificato se la firma in calce corrisponda o meno al vero nome di chi l’abbia inviata. Non potendo accontentarmi dell’account del mittente, che può essere mendace quanto la firma, mi affido a Google: parto dalla convinzione che chi ha letto ciò che scrivo su queste pagine abbia quel minimo di attività in rete che inevitabilmente porta a lasciar segno del proprio nome o di un account di uso corrente. Questa volta non ne ho trovato traccia.
Avrei lasciato cadere la faccenda, cestinando la lettera senza darvi risposta, se non fosse che la prosa, levati gli insulti discretamente fioriti, suonava particolarmente legnosa, di timbro scolastico, e però coi  «quindi» zoppi e i «dunque» orbi. Bastava poco per scoprire che si trattava di ampi stralci copiati da filosofico.net, anche malamente cuciti assieme. Ho sorriso: era la lettera di un buontempone, quasi certamente «crociano» estemporaneo, per bizza o impuntatura. Spirito, ma con la minuscola. Meritava una pagina di Croce, che probabilmente neanche avrà mai letto, e con commento.

sabato 3 marzo 2012

Dai, Menichini, abbozza almeno un mezzo inchino

Dopo l’insistente piagnisteo col quale Stefano Menichini ci ha maciullato i coglioni per settimane e settimane mi sarei aspettato che sul sito di Europa la notizia fosse in primo piano e, invece, neanche un cenno: tornano gli aiuti pubblici per l’editoria italiana e chi ha chiesto l’elemosina con tanto pathos non riesce a trovare neanche una parolina, neanche un piccolo grazie. Anche se nelle sue tasche arriva per l’interessamento di un sottosegretario, si tratta pur sempre di denaro nostro: un minimo di buona educazione non guasterebbe, e che cazzo.
Dai, Menichini, abbozza almeno un mezzo inchino. Non è tanto per la gratitudine verso il contribuente, dimostra che eri in buona fede quando scrivevi che non erano soldi rubati. 

venerdì 2 marzo 2012

Se tanto mi dà tanto

Se per una cover di Dalla, peraltro cantata con le adenoidi, Morgan ha bisogno di arrivare a quella midriasi, a Brahms, per comporre la sua ninnananna, non sarebbero bastate due tonnellate di anfetamina. 

“Lux in arcana”

Una batteria di cento storici impiegherebbe almeno due o tre secoli per passare al setaccio gli ottantacinque chilometri lineari di scaffali che compongono l’Archivum Secretum Vaticanum e naturalmente non vi troverebbe i documenti che furono distrutti nel corso dei dodici secoli che copre la raccolta perché ritenuti compromettenti per il buon nome della Ditta. Naturalmente non troverebbero neppure i documenti che per lo stesso motivo non furono mai archiviati o che addirittura non furono mai redatti a registrare i capitoli più infami di quella che Karlheinz Deschner ha definito storia criminale del cristianesimo. Probabilmente, invece, troverebbero qualche copia di quelle opere che la Ditta si premurò di distruggere ritenendole pericolose per la fede e che oggi riteniamo andate irrimediabilmente perse o delle quali neppure c’è giunta notizia. Anche solo per questo motivo sarebbe impresa meritevole, ma portarla a compimento avrebbe un costo immenso.
C’è poi una difficoltà insormontabile: l’archivio è formalmente “aperto” dal 1881, ma le procedure per accedervi sono estenuanti e la libertà di ricerca nella sterminata mole di codici e faldoni è estremamente limitata. Comprensibilmente limitata, direi, perché molti dei cunicoli che attraversano la storia della Chiesa di Roma sono ignoti anche ai chierici e lasciarvi entrare un laico, col rischio che ne esca con qualcosa di imbarazzante, sarebbe pericoloso. Accedere all’Archivum Secretum Vaticanum, dunque, è possibile. Pressoché impossibile, invece, pensare di potervi trovare documenti imbarazzanti per la Chiesa di Roma, se non per un fortuito caso che le rigide regole poste all’accesso e alla ricerca mirano efficacemente a scongiurare. Tutto questo è ampiamente noto ed è per questo che solo pochi fessi inoltrano domanda per accedere ai documenti dell’archivio, al punto che è la stessa Ditta a doverli invogliare.
Questo parrebbe il senso della mostra che nei giorni scorsi ha visto esposti al Museo Capitolino cento documenti tratti dall’Archivio Segreto Vaticano dopo attenta selezione: a sfogliare il catalogo si ha già la sensazione della presa per il culo, ma il tocco di stile – lo stile tipico della Ditta – sta nel titolo della mostra, che è “Lux in arcana”. Un fiammifero acceso allo sbocco di una immensa cloaca sotterranea e hanno l’impudenza di chiamarla luce.

mercoledì 22 febbraio 2012

Se non vi convince, ci sarebbe Antonio Gramsci


Avete mai letto il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa? Quando avete due o tre orette da perdere, fatelo. Arrivati in fondo, provate a tirare le somme: vedrete che vi sarà impossibile avere un’idea precisa di quale società esca fuori da tutte quelle pagine. Vi sembrerà di essere dinanzi a un monumento di ambiguità, sul piano politico e su quello economico, del quale potrete farvi una ragione in due soli modi.
Il primo è quello di cui ci dà esempio Massimo Faggioli sull’ultimo numero di Leftwing: «Il magistero cattolico sulle questioni economico-sociali è ben più antico del magistero del pontefice regnante, chiunque egli sia. La forza intellettuale del cattolicesimo sta nel fatto che sulle grandi questioni la tradizione viene ribadita e allo stesso tempo sviluppata nel tentativo di essere fedeli al Vangelo in uno sforzo creativo di rispondere alle emergenze sociali del mondo in cui viviamo. Nessuno ormai più sostiene la naturale compatibilità del cattolicesimo col liberismo, né l’idea di un “comunismo originario” nel magistero sociale di Gesù di Nazareth. Nei suoi grandi documenti il magistero sociale cattolico tenta di non prestarsi troppo allo Zeigeist, anche in materia economica. È sulla pelle delle persone che si giocano le dottrine economiche, e la chiesa sa che un magistero sociale respinto dai fedeli è come se non fosse stato mai proclamato»
Convincente? Può darsi. Se non vi convince, ci sarebbe Antonio Gramsci: «Sul “pensiero sociale” dei cattolici –scrive – mi pare si possa fare questa osservazione critica preliminare: che non si tratta di un programma obbligatorio per tutti i cattolici, al cui raggiungimento sono rivolte le forze organizzate che i cattolici posseggono, ma si tratta puramente e semplicemente di un complesso di argomentazioni polemiche positive e negative senza concretezza politica. Ciò sia detto senza entrare nelle quistioni di merito, cioè nell’esame del valore intrinseco delle misure di carattere economico-sociale che i cattolici pongono alla base di tali argomentazioni. In realtà la Chiesa non vuole compromettersi nella vita privata economica e non si impegna a fondo, né per attuare i principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per difendere, mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei principi era già attuata e che sono state distrutte. Per comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna, occorre comprendere che essa è disposta a lottare solo per difendere le sue particolari libertà corporative (di Chiesa come Chiesa, organizzazione ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina: per questa difesa la Chiesa non esclude alcun mezzo, né l’insurrezione armata, né l’attentato individuale, né l’appello all’invasione straniera. Tutto il resto è trascurabile relativamente, a meno che non sia legato alle condizioni esistenziali proprie. Per  “dispotismo” la Chiesa intende l’intervento dell’autorità statale laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non molto di più: essa riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purché non tocchi i suoi privilegi, la legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la proclama provvidenziale» (Quaderni dal carcere, 5).
Analisi datata? Nel leggere il Compendio vi sarà sfuggito che «la Chiesa non si fa carico della vita in società sotto ogni aspetto, ma con la competenza sua propria, che è quella dell’annuncio di Cristo Redentore. La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine che le ha prefisso è di ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa derivano un compito, una luce e delle forze che possono servire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la Legge divina. Questo vuol dire che la Chiesa, con la sua dottrina sociale, non entra in questioni tecniche e non istituisce né propone sistemi o modelli di organizzazione sociale: ciò non attiene alla missione che Cristo le ha affidato» (68): qualsiasi sistema o modello può andar bene, basta che consenta alla Chiesa la missione che le è propria. 
Crederemo, insomma, a Massimo Faggioli che nel magistero sociale della Chiesa vede la «tradizione cattolica di equilibrio tra capitale e lavoro» o ad Antonio Gramsci che gli riconosce «un puro valore accademico» e lo definisce «elemento ideologico oppiaceo»?