martedì 22 novembre 2016

Bravo D’Alimonte

Su due cose stanno battendo il ferro, e da mesi, Renzi e i suoi:
(1) la legge elettorale detta Italicum non centra niente con la riforma costituzionale sulla quale si vota il 4 dicembre (non farebbero affatto «combinato disposto», come sostengono quanti si oppongono alluna, allaltra o a entrambe);
(2) nelle intenzioni di chi si è tanto speso, e tanto si spende, perché vengano approvate entrambe non cè mai stata quella di cambiare la forma di governo (che non cambierebbe affatto, dicono, se entrambe fossero approvate).
Poi arriva DAlimonte, che ha scritto entrambe, e manda tutto in vacca:
(1) «Come sapete, Renzi tiene distinta la riforma costituzionale dalla riforma elettorale. Io invece ritengo che questo sia un errore, perché gli italiani devono capire che siamo di fronte a una scelta che si fonda sulla combinazione tra il nuovo sistema di voto, lItalicum, e i cambiamenti costituzionali. Insieme queste due riforme disegnano un modello di democrazia rappresentativa diverso da quello che ha caratterizzato il nostro sistema politico a partire dal 1948»;
(2) «Il cosiddetto Italicum è una riforma in fondo molto semplice, al di là di certe tecnicalità. Il suo punto di forza è che noi elettori saremo messi in condizione di scegliere “direttamente” il governo del paese. Lo dico senza mezzi termini perché non mi spaventa laccusa di tanti costituzionalisti che con lItalicum si cambia la forma di governo».
Più linguacciuto di Calderoli, capace di assai più stretta sintesi (daltronde si sa come son fatti, i professoroni), però altrettanto onesto, anzi di più, perché, per dire chiaro e tondo che aveva scritto «una porcata», Calderoli impiegò anni, e invece DAlimonte lo dice ora, prima che le sue porcate vengano approvate, bravo DAlimonte.
Avrebbe meritato di avere più voce in questa campagna referendaria per sei quinti centrata sul taglio dei costi della politica, anzi addirittura sul «taglio dei politici»sarebbe stato bello sentirlo dire che «questa questione è abbastanza irrilevante»«non è la parte più importante della riforma», però merita di essere gonfiata perché «serve a mobilitare consenso».
Questo ci sarebbe piaciuto sentire, e invece per mesi ci è toccato patire i pippotti mandati a memoria dagli uommene scic e dalle femmene pittate coi quali Renzi ci ha intasato tutti i canali di comunicazione: la riforma costituzionale non ha niente a che vedere con lItalicum, non cambia la forma di governo, serve a risparmiare denaro pubblico, è l’ultima chance per evitare il default... Meglio, molto meglio, DAlimonte: «La riforma poteva essere fatta meglio». Nel senso che, dovendo far fuori la democrazia parlamentare, il presidenzialismo poteva essere meno implicito, ma, si sa, anche chi è onesto non può sempre essere esplicito come vorrebbe. 



[Tutti i virgolettati sono tratti dalla lezione tenuta dal professor Roberto D’Alimonte al Convegno del Bancoper’s tenutosi lo scorso 29 ottobre e pubblicata su Il Foglio di martedì 22 novembre.]

[...]

Gli mancavano solo kneych in testa, barba e payot a incorniciargli il viso e taled sulle spalle, e poi lavresti scambiato per rabbi Jehida Löw ben Bezalel chiamato a rispondere del suo ultimo golem davanti al Consiglio degli Anziani: «Al referendum non giudichiamo Renzi»; e poi: «Non condivido le sue motivazioni: lobiettivo non è tagliare le poltrone». Povero Napolitano, con Monti e Letta nessun problema, ma stavolta la creaturona gli è scappata di mano: personalizza, fa il populista, insomma, smerda la Qabbalah. 

lunedì 21 novembre 2016

A due settimane dal referendum del 4 dicembre


A due settimane dal referendum del 4 dicembre mi accorgo che sulla tessera elettorale non ho più spazi liberi per la certificazione del voto, ma la grave forma di allergia che da sempre mi si scatena a meno di tre metri da un qualsiasi sportello della pubblica amministrazione mi pone seri ostacoli al suo rinnovo, al punto da considerare lipotesi di soprassedere, unendomi così ai tanti che di sicuro anche stavolta, per le più svariate ragioni, si asterranno.
Sì, ma poi come giustificarlo? Mettiamo caso, per esempio, che fra qualche anno un nocillo o un limoncello accenda a fine cena la discussione sul referendum del 2016, e qualcuno mi chieda cosa votai in quella occasione, che figura rimedierei a rispondere che preferii astenermi perché la tessera elettorale aveva esaurito gli spazi per il bollo e mi scocciava rinnovarla?
Nellipotesi che vinca il Sì, e di conseguenza lItalia sia già proiettata nel luminoso futuro che così le si aprirebbe fin dal 5 dicembre, ci farei la figura di chi non vi ha contribuito in alcun modo, nemmeno con un No del quale dirmi pentito, offrendo così al Partito della Nazione il mio pentimento a edificazione del più alto sentimento patrio.
Nellipotesi che vinca il No, invece, rimedierei comunque il meritato biasimo per non aver fatto nulla per tirar fuori il paese dalla palude nella quale senza alcun dubbio ci ritroveremmo, senza poter offrire neppure uno «sbagliai» in onore di chi a ragione paventava tanta sciagura.
No, è chiaro che in entrambi i casi rimedierei una figura di merda. Se voglio scansare la rottura di cazzo del rinnovo della tessera elettorale, devo costruirmi una solida argomentazione in favore dellastensione, tanto più perché in giro non se ne vede, ma devo sbrigarmi, perché al 4 dicembre manca poco.
La fretta, tuttavia, non deve venire a detrimento della solidità della mia posizione. Piglierò il meglio del tiepidume che è girato in questi ultimi mesi, e con un pezzetto da chi «non ho deciso ancora, deciderò allultimo minuto», uno da chi «ho deciso, ma non dico cosa voterò», uno da chi «la riforma fa schifo, ma è meglio che niente», uno da chi «il Sì, non so, però, col No, vince linstabilità», vedrete, saprò rabberciare un vestitino di onestà intellettuale da far morir di invidia anche i più scaltri criptorenziani che non fanno il tifo per il Sì perché temono vinca il No e anche i più scafati pseudoantirenziani che «la Costituzione va salvata, sì, però che schifo ’st’accozzaglia». 

domenica 20 novembre 2016

[...]

A me pare che il «da ucciderla» di cui tanto si è parlato in questi ultimi giorni fosse uniperbole, figura retorica cui peraltro Vincenzo De Luca ricorre di continuo. Certo, per sua stessa natura, liperbole può risultare irritante come ogni altra forma di eccesso, ma questo non consente in alcun modo di prendere alla lettera limmagine che le dà effetto. Ritengo esagerate, dunque, le reazioni che hanno fatto seguito allintervista mandata in onda qualche sera fa da Matrix, nella quale peraltro laffermazione cadeva in un inciso, e trovo francamente strumentale il leggerla come una condanna a morte in stile mafioso.
Direi che quel «da ucciderla» sia da considerare in questi termini: se alla politica non fossero di regola preclusi quei mezzi che altrimenti le darebbero continuazione in guerra secondo il noto adagio di Carl von Clausewitz, leliminazione fisica di un avversario sarebbe pienamente legittima, e con liperbole lo diventa, perché leccesso col quale essa si incarica di rappresentare una data situazione mira a rivelarne la natura alterandone il grado. Messa in questo modo, penso che la questione perda il peso che le si è inteso dare, per offrirsi eventualmente solo come spunto a una eventuale discussione sulluso delle figure retoriche nel dibattito politico, se non fosse che sarebbe un doppione di quella già tenutasi sulla «rottamazione».
Credo che invece l’attenzione possa più proficuamente applicarsi a considerare il casus belli: «Ci abbiamo perso un 1,5-2% di voti», dice Vincenzo De Luca, con ciò chiarendo in cosa abbia avvertito la ferita che, almeno nelle intenzioni da lui attribuite a Rosy Bindi, ritiene intendesse esser mortale, dando con ciò legittimità a una risposta che in guerra è sempre ben commisurata alloffesa, perché uccidere chi vuole ucciderti è il senso primo e ultimo di ogni impresa bellica. Va tuttavia fatto presente che tale perdita non ha impedito a Vincenzo De Luca di vincere su Stefano Caldoro, suo più diretto concorrente, con quasi il 3% in più di voti, e dunque la questione va posta in questi termini: «da ucciderla», sia, ma quando? Lì per lì, quando la ferita sembrava potesse essere mortale, o anche dopo che lesito non si è rivelato tale? Chiudiamo un occhio sulliperbole, ma chiariamo se in guerra si debba o meno fare prigionieri. Così, giusto per sapere come comportarci il giorno che Vincenzo De Luca dovesse capitarci sotto mano finalmente disarmato. 

venerdì 18 novembre 2016

Credere, tradire, vivere

Ero una lucertola, e beato prendevo il sole sul lucernario di un museo di paleontologia, e di sotto cera lo scheletro di un dinosauro, che a palpebre socchiuse, attraverso il vetro, miravo e rimiravo. Un gran bel dinosauro, devo dire. E più lo guardavo, più mi piaceva. Al punto che a un tratto l’orgoglio di classe animale mi ha fatto sbottare: «Che cosa straordinaria, sta nostra rettilitudine!».
Neanche il tempo di pensarlo, ed ecco che davanti mi si para un ragazzino, e fa per acciuffarmi. Per una frazione d’attimo resto di stucco: «E che ci fa quassù, un ragazzino?». Riparo subito sotto una tegola, ma la sorpresa mi fa indugiare il tanto da costringermi a lasciargli la coda in mano. «Fa niente – provo a consolarmi, pensando a quello che ho evitato, col cuore ancora in gola e il moncone sanguinante – tanto poi mi ricresce». E qui, di soprassalto, mi sveglio.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Per evitare limbarazzo, sorvolo sul significato e vado ai dettagli, a partire da quel bisillabo comune a lucertola e a lucernario. Non è una buona idea, perché lattenzione mi scivola subito su quella rettilitudine, cui mavvedo basta togliere una sillaba perché diventi rettitudine, ed ecco che di sponda limbarazzo mi schianta: sempre inconsciamente – e chi lo avrebbe mai detto  a Ernesto Galli della Loggia riconosco pure onestà intellettuale. E non basta, perché è evidente io senta che unaffinità ci unisce.
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più dun geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però devesserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».  

martedì 8 novembre 2016

L’impercettibile crepa

Ieri sera, a Porta a porta, si è parlato di Tiziana Cantone, la donna che, esasperata dalla gogna mediatica di cui era stata fatta oggetto in seguito alla diffusione di alcuni video che la riprendevano nel corso di incontri sessuali da lei avuti qualche tempo addietro, qualche settimana fa si è tolta la vita, e Bruno Vespa chi mi invita a madrina della sventurata? Selvaggia Lucarelli, fresca di condanna per diffamazione e a breve ancora alla sbarra per rispondere di concorso in intercettazione abusiva e violazione della privacy.
Mi figuro proprio a questo modo limpercettibile crepa che dal bordo della tazza di un cesso prima o poi si allargherà in un immenso buco nero che ingoierà tutta la nostra galassia. 

lunedì 7 novembre 2016

Cinque anni e mezzo fa

Fu Roberto De Mattei, cinque anni e mezzo fa, a darci la spiegazione teologica di un terremoto, quello che alcuni giorni prima si era avuto in Giappone, e anche quella volta fu dai microfoni di Radio Maria. Disse che «le catastrofi sono talora esigenza della giustizia divina, della quale sono giusti castighi», aggiungendo che «le nostre colpe possono essere personali o collettive, possono essere le colpe di un singolo o quelle di un popolo, ma, mentre Dio premia e castiga i singoli nelleternità, è sulla terra che premia o castiga le nazioni, perché le nazioni non hanno vita eterna».
Niente di diverso da ciò che padre Giovanni Cavalcoli ha detto dai microfoni di Radio Maria a commento degli eventi sismici che nelle ultime settimane hanno devastato ampie aree di Marche e Umbria, con la sola differenza che per il Giappone, cinque anni e mezzo fa, non veniva avanzava alcuna ipotesi sulla causa del castigo, mentre qui il peccato è stato individuato nellapprovazione da parte del Parlamento italiano di una legge che riconosce le unioni civili tra persone dello stesso sesso. Differenza che tuttavia possiamo ritenere irrilevante, perché, fra i castighi che Roberto De Mattei portò a esempio dei casi in cui «talora Dio si serve delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto della sua giustizia», non mancò «il fuoco che cadde su Sodoma».
Cinque anni e mezzo fa, in Italia, nessuno protestò, di conseguenza la Cei e la Santa Sede non ritennero opportuno contestare le affermazioni di Roberto De Mattei, né i responsabili di Radio Maria pensarono fosse necessario dissociarsene. Perché nessuno protestò? Ci è lecito supporre che agli italiani non dia alcun fastidio lidea che Dio possa servirsi di una catastrofe naturale per castigare un’intera nazione, ma solo a patto che a esserne colpita non sia la loro.
 

giovedì 3 novembre 2016

[...]


La riservatezza mi obbliga a non poter rivelare luogo, data e circostanza dellincontro che ho avuto con Matteo Renzi, ma non posso trattenermi dal confessare la piacevolissima impressione che ne ho tratto, mutando radicalmente lopinione che avevo sul suo conto. In due ore abbiamo spaziato in lungo e in largo, dai cieli della teoria al basso cazzeggio, e al selfie col quale abbiamo chiuso la nostra chiacchierata, con la reciproca promessa di rivederci, tutto quello che avevo sempre pensato di lui era già interamente rottamato, senza riserva.
Matteo Renzi è un simpaticone, con tratti del carattere che ho dovuto sorprendermi a trovare straordinariamente amabili, e poi è incredibilmente colto, e, per quanto possa sembrare poco rilevante, è assai più carino di come appare in tv. Contrariamente a quanto appare – in parte, per la superficialità con la quale lo si osserva e, in parte, per la posa che fa scudo alla sua timidezza – Matteo Renzi ha modi fini e delicati, e poi è dotato di grandissima sensibilità, di un garbo che ha linconfondibile cifra del vero signore, di una nobiltà danimo che non ha nulla di costruito. Insomma, è tutto il contrario di come mi era apparso fino a un minuto prima di poterci parlare.
Dopo tutto quello che ho scritto su di lui dal 2010 ad oggi, capirete che ho il dovere di fare ammenda e di rimangiarmi pubblicamente i severi giudizi che ho espresso sulluomo e sul politico. Solo ora mi avvedo di quanto fossero ingiusti, talvolta perfino odiosi: Matteo Renzi è persona seria e onesta, e, credetemi, ha un altissimo profilo morale, un notevole retroterra culturale, gusti insospettabilmente raffinati, e aggiungerei che ha pure un notevole sex appeal (e sia chiaro che lo dico da eterosessuale incallito).
Con ciò penso di aver fatto adeguatamente sgombro il campo da ogni sospetto che il mio giudizio sulla riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a esprimere un parere il 4 dicembre possa essere segnato da un malevolo pregiudizio su chi lha voluta così comè, perché purtroppo continuo a pensare che sia una riforma di merda, e per le ragioni che ho già ampiamente espresso. Di qui, lo sconcerto: non so darmi spiegazione del come un tale schifo possa esser stato partorito da chi ho scoperto unire a una genuina fede democratica, a uno sconfinato amore per lItalia, a vaste e profonde conoscenze in ogni campo del sapere, a una formidabile capacità argomentativa, il profilo del vero galantuomo. 
Sconcerto che mi auguro possa corroborare la mia già tanto celebrata qualità di analisi, da qualche tempo in crisi, dando una svecchiata al mio stile. 

E fino  al 5 dicembre, davvero, non ne parliamo più.  

venerdì 28 ottobre 2016

La Pala Radolovich / 2


Fate finta di dover riprodurre un quadro di Caravaggio, un quadro che Caravaggio potrebbe aver dipinto, ma di cui si è persa ogni traccia, o che non ha mai dipinto, ma di cui abbiate dalla specifica di una commessa qualche indicazione riguardo ai soggetti che in esso avrebbero dovuto figurare e alla disposizione che il gruppo avrebbe dovuto assumere nel dipinto: come procedereste?
Se avete appena un minimo di serietà, probabilmente comincereste col campionare i volti dei personaggi raffigurati nei quadri che sono con certezza attribuiti al Caravaggio. Con un programmino in grado di ridarveli in 3D, probabilmente provvedereste a sceglierne le pose e le espressioni che possano esservi utili a riprodurli nella scena che dovete costruire. Se volete ottenere un risultato brillante, probabilmente toglierete o aggiungerete qualche barba, in modo da ricreare personaggi apparentemente nuovi, o addirittura costruire degli ibridi (per esempio, fronte e occhi dal Bacchino malato, naso e bocca dal Ragazzo con cesta di frutta, ecc.). Costruiti o, per meglio dire, ricostruiti a questo modo i volti dei personaggi che poi riporterete sul dipinto, probabilmente procedereste a fare altrettanto coi vestiti, facendo in modo che i panneggi siano congrui alle posture, che quasi certamente saranno a forte impronta drammatica, con vividi effetti di torsione o sospensione. Probabilmente, poi, passereste a rifinire lassieme, ovviamente dando massima attenzione alla luce: ruotereste di qualche grado quella testa, inclinereste un po a destra quel busto...
Ora immaginate che alluzzolo di mettervi a caraveggiare sia disponibile pure un certo budget. Niente di spropositato, sia chiaro, diciamo un 10-20.000 euro, giusto il necessario per la supervisione da parte di uno storico dellarte e di un grafico. Bene, procedendo a questo modo, pensate di poter sperare in un risultato decente? Mi spiego meglio. Non dico che il vostro Caravaggio debba far piangere di commozione Vittorio Sgarbi, e nemmeno che non debba sollevare perplessità in chi abbia una pur superficiale conoscenza dellopera del Caravaggio, ma, ancorché vogliate proporlo come mero divertissement intellettuale, per poi annunciare che il tal giorno, in tal luogo, «grazie alle moderne tecnologie» presenterete al pubblico un inedito del Caravaggio «o almeno come avrebbe dovuto essere il dipinto», quanto si è fin qui detto non sarebbe il minimo? E dunque cosa cera da aspettarsi dall’annuncio dato dal Museo del Banco di Napoli di cui vi ho parlato pochi giorni fa? E in realtà che cosa è stato presentato al pubblico?
È presto detto: un giovinotto dallo scilinguagnolo giulivo a far da cicerone nelle stanze dell’archivio del museo; due scale appoggiate a una scaffalata; tre tizie biancovestite con un paio d’ali a tracolla lì sopra appollaiate in posa instabile; una qualcerta addobbata presuntivamente a Madonna a qualche piolo più in basso; e, sotto, quattro sacripanti coperti di pezze che un anticipo di simpatia sollecitava a credere secentesche. Una patetica pantomima da far rivalutare il presepe vivente di Roccaravindola come performance teatrale di altissimo livello. Questa sarebbe la Pala Radolovich, a detta di chi ha organizzato – sonora pernacchia – l’evento.
Non c’ero, ho preso orrore della cosa da un video di Mattino Tv. E ogni altro commento è superfluo.

giovedì 27 ottobre 2016

[...]

Voglio spezzare una lancia in favore di Matteo Renzi, ma in subordine alleventualità che persona a lui vicina sia attualmente sottoposta a intercettazione telefonica e un domani dovesse essere diffuso un colloquio svoltosi tra i due in queste ore: non si biasimi la sua euforia per un terremoto che cade a fagiuolo per strappare a Bruxelles qualche miliarduccio a copertura di mance, bonus e cotillons pre-elettorali, si sia indulgenti se nei toni o nelle espressioni potrà dare limpressione di uno che si rallegri come per una provvidenziale botta di culo. Cercate di mettervi nei panni dellometto, chessò, se proprio non riuscirete ad assolverlo, provate a trovargli unattenuante nel fatto che è Capricorno.
Tutto il mio schifo preventivo, invece, per chi domani, dalla prima pagina di questo o quel quotidiano filogovernativo, dirà: «Visto? Ora Bruxelles provasse a dirgli no, poi sarà chiaro di chi è stata la colpa della deriva populista».

martedì 25 ottobre 2016

La Pala Radolovich


Una trentina danni fa, nellArchivio Storico del Banco di Napoli, fu trovata una commissione di pagamento per 200 ducati, datata 6 ottobre 1606, che Nicolò Radolovich disponeva in favore di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, come acconto per una «pittura che lha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo daltezza palmi 13 e mezzo et larghezza di palmi 8 e mezzo con le figure cioè di sopra, lImagine della Madonna col Bambino in braccio cinta di cori dAngeli et di sotto S. Domenico et S. Francesco nel mezzo abbracciati insieme dalla man dritta S. Nicolò et dalla man manca S. Vito».
In fuga da Roma, il Caravaggio era stato preceduto a Napoli dalla sua fama, e quella del Radolovich era solo una delle commesse che lavrebbero tenuto impegnato nei mesi successivi al suo arrivo in città. Incassò e depositò lanticipo, prelevandone la gran parte una ventina di giorni dopo, ma della Pala Radolovich non si è mai più saputo nulla. Fino allaltrieri, almeno.
Laltrieri, infatti, i responsabili del Cartastorie, il Museo dellArchivio Storico del Banco di Napoli, hanno annunciato che giovedì 27 ottobre il mistero sarà svelato. Caricando di suspense levento, ildenaro.it resta sul vago: «Una conclusione del tutto inaspettata». Qualcosa in più si apprende da ilmattino.it: «Grazie alle moderne tecnologie verrà mostrata al pubblico la pala o almeno come avrebbe dovuto essere il dipinto». Sembra si possa escludere il ritrovamento dell’opera o la sua identificazione in un dipinto fin qui attribuito ad altro autore: probabilmente sarà presentato al pubblico un collage, ritagli di altre opere del Caravaggio assemblati a comporre il gruppo descritto dalla specifica di commessa, e non c’è da dubitare che il risultato potrà pure avere un qualche fascino, giacché a costruirlo si saranno certamente chiamate delle eccellenze, sia in quanto a conoscenza della pittura del Seicento, sia in quanto a impiego di Photoshop. Operazione che merita comunque un plauso, e prim’ancora di aver avuto modo di vederne il risultato, perché in fondo è meglio buttar via denaro a questo modo piuttosto che al modo di Banca Etruria e del Monte dei Paschi di Siena.
Ciò detto, credo che per la fin qui introvabile Pala Radolovich possa tornar utile il rasoio di Occam, rammentando che di un’altra opera del Caravaggio, anchessa composta a Napoli tra la fine del 1606 e linizio del 1607, e che oggi è esposta a Vienna (Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie) non si è mai saputo chi fosse il committente o a quale altare fosse destinata, né si è mai trovata notizia di pagamento per la sua realizzazione: parlo della Madonna del Rosario. L’ipotesi che qui mi appresto ad argomentare è che molto probabilmente la Pala Radolovich altro non sia che la Madonna del Rosario.
Rammentando che nel Seicento, a Napoli, il palmo equivaleva a 26,45 cm, comincerei col dire che le sue dimensioni (cm 364,5 x 249,5) corrispondono più o meno a quelle pattuite col Radolovich, e che in essa è effettivamente presente «lImagine della Madonna col Bambino in braccio» richiesta dal committente. Da qui in poi, le possibili obiezioni, che concedo non siano poche: nella Madonna del Rosario non vi sono i «cori dAngeli» che voleva il committente; i santi, che dovevano essere quattro, sono solo due; al posto dei due santi mancanti, sono presenti, inginocchiati, tre lazzari, una donna con suo figlio, un gentiluomo con gorgiera e, in piedi, alle spalle del santo a destra, due personaggi non bene identificabili. Come spiegare queste vistose incongruenze rispetto a quanto era stato concordato col Radolovich?
Il Caravaggio arriva a Napoli in condizioni economiche assai precarie e la commessa del Radolovich arriva nei primi giorni in cui il pittore mette piede in città, quando ancora non gli era stato consegnato lanticipo per metter mano alle Sette opere di misericordia e ben prima che lo strepitoso successo ottenuto da questopera gli procurasse altre richieste e corposi incassi: quel denaro gli era indispensabile, non poteva rifiutare lofferta.
Al momento di accettarla era già intenzionato a prendersi delle libertà rispetto alle indicazioni del committente? Non lo sappiamo, di certo non si sarebbe trattato della prima volta che un committente poi rimanesse contrariato, si pensi a cosa era successo a Roma con la prima versione di Matteo e langelo e con la Morte della Vergine.
Di fatto, il Caravaggio non aveva mai dipinto «cori dAngeli», sebbene proprio per la Morte della Vergine gli fossero stati espressamente richiesti, né ne avrebbe mai dipinti successivamente. Cè da dire, poi, che una composizione come quella richiesta dal Radolovich non consentiva al Caravaggio di dare allopera la forte tensione scenica alla quale non avrebbe mai rinunciato: il quadro avrebbe avuto una dimensione troppo statica, mentre invece il brulicar di vita che aveva trovato nei vicoli di Napoli aveva ulteriormente acuito la sua predilezione per figure in movimento, colte in istantanee di gesti di umanissima quotidianità. Tutto gli sarebbe stato possibile, tranne il santino devozionale col quale il Radolovich pensava di poter ornare la sua cappella a Polignano a Mare, dove però, guarda caso, ancora oggi è viva la devozione alla Madonna del Rosario, cui da secoli è dedicata una festa che si tiene ai primi di ottobre, e la commessa del Radolovich arriva proprio in quei giorni.
Non ci sarebbe da stupirsi se il Caravaggio si fosse preso, come al solito, un po’ troppa libertà e il committente avesse rifiutato lopera, che probabilmente ai raggi X potrebbe pure rivelare qualche successivo aggiustamento allo scopo di destinarla ad altro acquirente. In tal senso si giustificherebbe leventuale aggiunta del personaggio con gorgiera inginocchiato ai piedi di San Domenico e col viso rivolto verso chi guarda il quadro: potrebbe trattarsi della persona che avrebbe dovuto acquistare lopera rifiutata dal Radolovich.
Come dicevo, si tratta solo di unipotesi, ma penso che darebbe risposta a tutti gli interrogativi, attualmente senza risposta, relativi alla Pala Radolovich (fu veramente dipinta? se sì, che fine ha fatto?) e alla Madonna del Rosario (chi la commissionò? perché non si ha traccia di commessa e di pagamento?).

Nota Un lettore mi fa presente che la Madonna del Rosario è stata analizzata ai raggi X, ma che i risultati tenderebbero a escludere che lopera abbia subito aggiustamenti tali da lasciar credere che l’impianto originario rispondesse a quello richiesto dal Radolovich per elementi successivamente modificati (la fonte, tuttavia, non entra nel dettaglio, dunque non è dato sapere su quali argomenti poggi un’affermazione tanto categorica). Mi pare che questo non faccia cadere comunque lipotesi da me avanzata: anche per altre opere del Caravaggio che furono rifiutate dal committente, l’esame radiografico non rivela modifiche che siano motivabili dal rendergli accettabile il dipinto o dall’accomodarlo al gusto di un altro acquirente.    

lunedì 24 ottobre 2016

Ansvald il Piccolo


La mano è senza dubbio quella di Ansvald il Piccolo (Bruges, 971? - Lione, 1028), basti il raffronto coi miniati di attribuzione certa, in particolar modo col Libro di Giona (British Library). La gascromatografia dei pigmenti, poi, conferma che la tavolozza è indubbiamente sua, che i materiali sono quelli da lui solitamente impiegati (cfr. H. Voeller, Ansvald, Losanna 1940). È il supporto, tuttavia, a porre il problema, e problema non irrilevante, perché la miniatura è dipinta sul margine di pag. 347 di una copia de Lape latina, un manualetto Hoepli stampato nel 1911, lì dove l’Indice di alcune cose notevoli rimanda al «sunt lacrimae rerum...» di Virgilio (Eneide, I, 462): miniatura racchiusa in una striscia di poche lignes, che a occhio nudo sembrerebbe uno sbavo d’inchiostro, ma che alla lente (≥ 50) rivela la sublime arte del pennellino a un sol pelo, della quale «il Piccolo Grande Ansvald», come era solito chiamarlo il compianto Oreste Federzoni (Ansvald il Piccolo, Firenze 1952), fu insuperabile maestro. Siamo dinanzi ad un’allegoria, è evidente: un povero blogghero (proparossitono, equivalente medievale del moderno blogger) annaspa nel lapislazzulo di uno sconfinato oceano di ignoranza dal quale emerge qui e lì l’ematite di alcune isole di malafede, e, a esprimerne lo stato danimo, ecco un cartiglio svoltolato sul suo capo, a mo di fumetto, recante iscritta la seconda parte del verso di Virgilio («… et mentem mortalia tangunt»). 

lunedì 17 ottobre 2016

Non segue

Lart. 56 della Costituzione è fra quelli risparmiati dalla riforma che il 4 dicembre sarà sottoposta al vaglio referendario, e dunque, anche nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, al suo terzo comma continuerà a recitare: «Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della elezione hanno compiuto i venticinque anni di età». Nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, però, al Senato entrerebbero 95 amministratori locali (74 consiglieri regionali e 21 sindaci) eleggibili al compimento del 18° anno di età, sicché potremmo avere dei senatori anche di sette anni più giovani dei deputati, e questo in barba al fatto che in latino «senator» significa «più vecchio».
È col segnalare questa assurdità che intendevo aprire il seguito di Una merda di riforma costituzionale (Malvino, 3.10.2016), ammettendo che sostanzialmente fosse irrilevante e tuttavia emblematica di quel patente analfabetismo istituzionale che ha dato il peggio di sé in assurdità ben più rilevanti sul piano pratico. E ad analizzare queste mi disponevo quando un déjà vu mha paralizzato: mi sono rivisto alla tastiera del pc ai tempi dei referendum sulla legge 40, e ho ripensato a tutti i post scritti a quei tempi. Sono andato a rileggerli, e vi ho trovato tutti gli argomenti che sarebbero stati fatti propri dalle sentenze che in questi ultimi dieci anni hanno fatto a pezzi la legge, ma che a quei tempi su queste pagine potevano tuttal più aspirare a rinsaldare nella propria convinzione chi già fosse convinto che quella legge fosse cretina e crudele.
Non è tutto, perché poi è accaduto un fatto decisivo nel togliermi ogni residua motivazione nel continuare la mia personale rassegna degli spropositi contenuti nella riforma: ho scoperto che non ero stato il primo a notare lassurdità dei senatori più giovani dei deputati, laveva già segnalato Emanuele Rossi (Una costituzione migliore? – Pisa University Press, 2016). Ecco, mi son detto, non c’era certo bisogno che lo facessi notare io. 
E qui ho tirato i fili: su alcune questioni, e in certi contesti, la ragione è impotente, e i suoi tentativi di farsi valere possono aver senso solo come contributo testimoniale, e solo a futura memoria, dunque nellatto di fede, assurdo come tutti gli atti di fede, che la ragione abbia un futuro. Atto di fede, questo, che oggi pare assai più assurdo che in passato: già da tempo la discussione pubblica è impermeabile alla logica della retta argomentazione, e la persuasione è sempre più spesso affidata allo strumento delle più rozze fallacie, che oggi, molto più di quanto sia stato in passato, risultano straordinariamente efficaci in un foro animato da impulsi primordiali che spesso rivelano la neutra cogenza che domina la materia inorganica.
È tempo di decidere, mi son detto: mettersi in posa da martiri o ritirarsi in un discreto silenzio su tutte le questioni che esigerebbero uno sforzo di intelligenza, inesigibile da unopinione pubblica ormai abbrutita dalla paura e dallignoranza.
Io credo che a prevalere saranno i Sì, credo che sia del tutto inutile discutere della riforma costituzionale sulla quale si voterà il 4 dicembre, credo che nel merito interessi a pochissimi, e che dunque il voto la toccherà solo come pretesto. Daltronde, via, siamo onesti, questo paese merita di essere governato da Matteo Renzi, e chi siamo noi, sparuta minoranza di irriducibili cultori della democrazia parlamentare e della divisione dei poteri, per poter pretendere di togliergli dal grugno quelle smorfie da dittatorello in erba?

lunedì 10 ottobre 2016

lunedì 3 ottobre 2016

Una merda di riforma costituzionale / 1

«Correggere una costituzione
non è impresa minore
del costruirla la prima volta»

Aristotele, Politica IV, 1 (1289 a 5) 



«La costituzione di un paese
non è un atto del suo governo,
ma del popolo che costituisce il governo»

Thomas Paine, I diritti delluomo (1791)



I. Al referendum che si terrà il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati a esprimersi su una riforma che modifica più di un terzo degli articoli della Costituzione ai titoli I, II, III, V, VI della sua Parte II.
Già qui mi pare si ponga un problema non irrilevante, quello relativo alla libertà del voto, di fatto negata su ciascuno dei tanti articoli toccati dalla riforma, per lasciare allelettore solo la possibilità di esprimere un parere complessivo su un pacchetto quanto mai disomogeneo nei suoi contenuti, con ciò disattendendo allindicazione più volte espressa dalla Consulta circa la necessità che ogni progetto di legge debba rispettare i caratteri di omogeneità e autonomia riguardo ai contenuti e quello di coerenza riguardo alla loro sistematicità. Non cè da stupirsene, perché ad approvare questa riforma è stato un Parlamento eletto con una legge elettorale poi riconosciuta incostituzionale, e della quale avrà voluto dimostrarsi allaltezza.
Al dubbio sulla legittimità giuridica, se non morale, che un tale Parlamento potesse metter mano a una riforma costituzionale si è soliti opporre il fatto che la Consulta non ha dichiarato illegittimi gli atti legislativi licenziati dalle Camere elette con una legge elettorale che pure dichiarava incostituzionale, ma si dimentica che il principio sul quale si reggeva quella che al buon senso suona come una contraddizione era quello della prorogatio che la Costituzione concede al Parlamento solo al fine di riempire il vuoto che a seguito di nuove elezioni si crea in attesa che vengano convocate le nuove Camere (art. 61) oppure, e perciò espressamente chiamate a supplenza, per la conversione in legge di decreti prossimi a scadenza (art. 77): una prorogatio, dunque, finalizzata esclusivamente al disbrigo di affari correnti, non per darsi tempi e compiti da Assemblea Costituente.
Ma così – si obietta – si sarebbe andati alle elezioni con il proporzionale del cosiddetto Consultellum. Bene, anzi benissimo, quale altro sistema avrebbe potuto rappresentare al meglio tutto il Paese in Parlamento al fine di dare un segno di condivisione ad una nuova legge elettorale e ad una revisione della Carta della quale i partiti politici si facessero esplicitamente promotori col loro programma elettorale? O è da ritenersi più corretto che, sul piano politico, questa riforma sia nata per liniziativa di un partito che non la contemplava nel programma col quale chiedeva voti agli elettori e che, sul piano istituzionale, sia stata promossa da un governo che non si è risparmiato in colpi di mano in Commissione e in Aula per farla approvare in via definitiva da soli 361 deputati su un totale di 630?
Si risponde fosse una riforma non più prorogabile, e dunque non importa troppo come si sia arrivati alla sua approvazione, l’importante è che al più presto venga meno il bicameralismo perfetto, che d’altronde non piaceva nemmeno a Piero Calamandrei, del quale probabilmente si ignora quanto scrisse sulla necessità che un governo si tenga fuori dal processo di revisione costituzionale: «Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana» (Come nasce la nuova Costituzione, 1947).
Date queste premesse, la riforma sulla quale gli italiani sono chiamati a esprimersi il 4 dicembre non si sarebbe dovuta neppure scrivere. Per votare no, potrebbe bastare anche solo questo.

II. Laddove non si considerassero valide le ragioni fin qui esposte, basta rammentare i passi salienti che hanno segnato il suo iter parlamentare, a cominciare dall’impulso datole da Giorgio Napolitano come condicio sine qua non dell’accettare la sua rielezione al Quirinale, che non è esagerato definire una vera e propria mostruosità istituzionale, forse il punto più basso nella storia dell’istituto della Presidenza della Repubblica, peraltro già ampiamente stravolto nel settennato che si era appena chiuso: il Capo dello Stato prendeva un’iniziativa che andava ben al di là delle prerogative assegnategli dalla Carta, sulla quale poneva una vera e propria questione di fiducia al Parlamento, arrogandosi il diritto di poter chiedere al governo di cui avrebbe nominato il Presidente del Consiglio un impegno vincolante in tal senso, per poi spendersi giorno dopo giorno, quasi sempre in forma assai irrituale, come dominus delliter parlamentare.
È il pressing del Quirinale a fare degli esecutivi di Enrico Letta, prima, e di Matteo Renzi, poi, dei governi di scopo, e lo scopo è fissato da Giorgio Napolitano. Il cosiddetto cronoprogramma di Enrico Letta trova perplessità in seno al suo stesso governo con gli interventi critici di Emma Bonino e di Andrea Orlando, che tuttavia non trovano voce in capitolo: «Non ho intenzione di tirare a campare – dichiara Letta – e tra diciotto mesi tirerò una riga: se sulla riforma non c’è nulla, ce ne andiamo tutti a casa». Ma c’è chi scalpita per prenderne il posto, perché non corre abbastanza: «È un incapace», dice Matteo Renzi, intercettato a colloquio telefonico con Michele Adinolfi, generale della Guardia di Finanza, e dopo il noto #enricostaisereno va a chiederne la testa alla Direzione del Pd, che gliela concede.
Ora Napolitano può contare su uno che i cronoprogrammi se li mangia: pronta rimozione dei parlamentari del Pd che avevano espresso qualche riserva nella Commissione Affari Costituzionali del Senato; rimozione del relatore di minoranza, Roberto Calderoli, con una motivazione (il patto del Nazareno si è esaurito) che dovrebbe far rizzare i capelli in testa a chiunque sappia che le procedure di revisione costituzionale non possono essere alterate per congiunture di natura politica; su iniziativa del senatore Roberto Cociancich, una ventina d’anni prima capo-scout di Matteo Renzi, passa un emendamento che annulla il voto segreto su tutte le votazioni che il governo riteneva a rischio; pur di non rivedere il testo della riforma, che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, passa nella stesura definitiva della modifica dell’art. 57 la patente contraddizione tra il comma 2 (i membri del nuovo Senato saranno eletti dai Consigli Regionali) e il comma 5 (tale elezione dovrà avvenire in conformità alle scelte degli elettori).
Approvata in via definitiva a tempo di record, ma senza ottenere i voti dei due terzi delle Camere, la riforma si avvia giocoforza al vaglio referendario previsto dall’art. 138 della Costituzione, che Renzi si sente in diritto di spacciare come gentile concessione del suo governo con una motivazione che ha dell’incredibile («l’avremmo indetto comunque»), ma sulla quale è probabile ritiene offesa che si abbia qualche dubbio. In fondo, via, si tratta di un uomo di parola.
Ma sarà il caso di passare al merito della riforma.

[segue]


domenica 2 ottobre 2016

venerdì 30 settembre 2016

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Qualche notte fa ho scoperto che, dalluna alle cinque, La7 manda in replica le puntate di Ottoemezzo, L’aria che tira e Tagadà andate in onda il giorno prima, e probabilmente la percezione sarà stata amplificata dalleffetto di compressione causato dal guardarle di seguito, ma ho trovato estremamente fastidiosa, fino a punte di forte irritazione, la faziosità di Lilli Gruber, Myrta Merlino e Tiziana Panella, una faziosità insopportabilmente sfacciata per quel certo maldissimularla che mi è parso fosse intenzionale, studiato, quasi a voler suggerire al telespettatore che, anche a cercare di imporsela per salvare le apparenze, limparzialità rispetto alle due opposte posizioni da moderare in sede di confronto fosse umanamente insostenibile, anche se formalmente rispettata. Nello specifico, mi è parso che, con un insistente ricorso a spudorati ammicchi, didascaliche smorfiette e battutine del cazzo, le tre signore intendessero comunicare al telespettatore qualcosa del tipo: è pacifico che il referendum sulle riforme costituzionali sia una sfida tra il coraggio dellinnovazione e l’ottuso istinto di conservazione, ma a me tocca, e che fatica, trattare alla pari entrambi i contendenti che oggi ho invitato nel mio salottino. Così per le faccende riguardanti il M5S: caro telespettatore, fosse per me, nemmeno l’avrei invitato questo bifolco d’un grillino, ma qui mi sta a rappresentare un terzo dell’elettorato e devo impormi di trattarlo alla pari dei rappresentanti degli altri due terzi, ed è dura, sono certa che comprenderai quanto mi costa.
Un renzismo così odiosamente strisciante, quello delle tre signore, che il renziano di turno, pur ributtante com’è per la media dei renziani che in tv ripetono a pappagallo gli hashtag del capo, finiva regolarmente per risultarmi assai più dignitoso della conduttrice di cui era ospite (e in un caso si trattava di Fabrizio Rondolino, il che è tutto dire).
Quattro ore di propaganda di regime malcamuffata da equilibrato confronto tra le parti, e con la quasi compiaciuta strafottenza sulla pessima qualità del camuffamento. E non si tratta della Rai ormai per tempo militarmente occupata dagli sgherri di Matteo Renzi, né si tratta delle reti Mediaset che ormai da mesi sembrano seguire più la linea di Denis Verdini che quella di Renato Brunetta: si tratta di La7, quella che il giovedì manda in onda Corrado Formigli, e il martedì Giovanni Floris, che risaputamente non smuovono un voto, ma che cinque giorni a settimana, nelle ore in cui trentanni fa la Fininvest preparava casalinghe e pensionati a diventare elettorato di Forza Italia, regala un spot di quattro ore al Partito della Nazione. 

[...]

Ieri il manifesto ha mandato in pagina unintervista a Rino Formica sulla quale mi pare sia utile meditare