Paolo Mieli (Ottoemezzo,
23.11.2016) ritiene sia assurdo credere che Vincenzo De Luca abbia
mai realmente pensato che Rosy Bindi meriti d’essere
ammazzata, e ancor più assurdo credere che quel suo «da
ucciderla» possa mai intendersi come un mandato, ancorché
preterintenzionale, trattandosi palesemente di interiezione
estemporanea, equivalente a un «ma va’
a mori’
ammazzata!». Sono d’accordo
con lui, d’altronde
allo stesso modo era da intendersi quella lettera aperta pubblicata
da l’Espresso
nel giugno del 1971, e di cui Paolo Mieli era tra i firmatari, nella
quale Luigi Calabresi era indicato come il responsabile della
morte di Giuseppe Pinelli: non una sentenza la cui esecuzione era
affidata a qualche volenteroso giustiziere, ma un
innocente «ammàzzate-oh!».
giovedì 24 novembre 2016
martedì 22 novembre 2016
Bravo D’Alimonte
Su
due cose stanno battendo il ferro, e da mesi, Renzi e i suoi:
(1) la
legge elettorale detta Italicum
non c’entra
niente con la riforma costituzionale sulla quale si vota il 4
dicembre (non farebbero affatto «combinato disposto», come
sostengono quanti si oppongono all’una,
all’altra
o a entrambe);
(2) nelle intenzioni di chi si è tanto speso, e tanto
si spende, perché vengano approvate entrambe non c’è
mai stata quella di cambiare la forma di governo (che non cambierebbe
affatto, dicono, se entrambe fossero approvate).
Poi arriva
D’Alimonte,
che ha scritto entrambe, e manda tutto in vacca:
(1) «Come sapete,
Renzi tiene distinta la riforma costituzionale dalla riforma
elettorale. Io invece ritengo che questo sia un errore, perché gli
italiani devono capire che siamo di fronte a una scelta che si fonda
sulla combinazione tra il nuovo sistema di voto, l’Italicum,
e i cambiamenti costituzionali. Insieme queste due riforme disegnano
un modello di democrazia rappresentativa diverso da quello che ha
caratterizzato il nostro sistema politico a partire dal 1948»;
(2)
«Il cosiddetto Italicum è una riforma in fondo molto semplice, al
di là di certe tecnicalità. Il suo punto di forza è che noi
elettori saremo messi in condizione di scegliere “direttamente”
il governo del paese. Lo dico senza mezzi termini perché non mi
spaventa l’accusa
di tanti costituzionalisti che con l’Italicum
si cambia la forma di governo».
Più linguacciuto di Calderoli,
capace di assai più stretta sintesi (d’altronde
si sa come son fatti, i professoroni), però altrettanto onesto, anzi di più, perché, per dire chiaro e tondo che aveva scritto «una porcata», Calderoli impiegò anni, e invece D’Alimonte lo dice ora, prima che le sue porcate vengano approvate, bravo D’Alimonte.
Avrebbe meritato di avere più voce in questa campagna referendaria per sei quinti centrata sul taglio dei costi della politica, anzi addirittura sul «taglio dei politici», sarebbe stato bello sentirlo dire che «questa questione è abbastanza irrilevante», «non è la parte più importante della riforma», però merita di essere gonfiata perché «serve a mobilitare consenso».
Questo ci sarebbe piaciuto sentire, e invece per mesi ci è toccato patire i pippotti mandati a memoria dagli uommene scic e dalle femmene pittate coi quali Renzi ci ha intasato tutti i canali di comunicazione: la riforma costituzionale non ha niente a che vedere con l’Italicum, non cambia la forma di governo, serve a risparmiare denaro pubblico, è l’ultima chance per evitare il default... Meglio, molto meglio, D’Alimonte: «La riforma poteva essere fatta meglio». Nel senso che, dovendo far fuori la democrazia parlamentare, il presidenzialismo poteva essere meno implicito, ma, si sa, anche chi è onesto non può sempre essere esplicito come vorrebbe.
[Tutti
i virgolettati sono tratti dalla lezione tenuta dal professor Roberto
D’Alimonte al Convegno del Bancoper’s tenutosi lo scorso 29
ottobre e pubblicata su Il Foglio di martedì 22 novembre.]
[...]
Gli
mancavano solo kneych in testa, barba e payot a incorniciargli il
viso e taled sulle spalle, e poi l’avresti
scambiato per rabbi
Jehida Löw ben Bezalel chiamato a rispondere del suo ultimo golem davanti
al Consiglio degli Anziani: «Al referendum non giudichiamo Renzi»;
e poi: «Non condivido le sue motivazioni: l’obiettivo
non è tagliare le poltrone».
Povero Napolitano, con Monti e Letta nessun problema, ma stavolta la
creaturona gli è scappata di mano: personalizza, fa il populista, insomma, smerda la Qabbalah.
lunedì 21 novembre 2016
A due settimane dal referendum del 4 dicembre
A due settimane dal
referendum del 4 dicembre mi accorgo che sulla tessera elettorale non
ho più spazi liberi per la certificazione del voto, ma la grave
forma di allergia che da sempre mi si scatena a meno di tre metri da
un qualsiasi sportello della pubblica amministrazione mi pone seri
ostacoli al suo rinnovo, al punto da considerare l’ipotesi
di soprassedere, unendomi così ai tanti che di sicuro anche
stavolta, per le più svariate ragioni, si asterranno.
Sì, ma poi
come giustificarlo? Mettiamo caso, per esempio, che fra qualche anno
un nocillo o un limoncello accenda a fine cena la discussione sul
referendum del 2016, e qualcuno mi chieda cosa votai in quella
occasione, che figura rimedierei a rispondere che preferii astenermi
perché la tessera elettorale aveva esaurito gli spazi per il bollo e
mi scocciava rinnovarla?
Nell’ipotesi
che vinca il Sì, e di conseguenza l’Italia
sia già proiettata nel luminoso futuro che così le si aprirebbe fin
dal 5 dicembre, ci farei la figura di chi non vi ha contribuito in
alcun modo, nemmeno con un No del quale dirmi pentito, offrendo così
al Partito della Nazione il mio pentimento a edificazione del più
alto sentimento patrio.
Nell’ipotesi
che vinca il No, invece, rimedierei comunque il meritato biasimo per
non aver fatto nulla per tirar fuori il paese dalla palude nella
quale senza alcun dubbio ci ritroveremmo, senza poter offrire neppure
uno «sbagliai» in onore di chi a
ragione paventava tanta sciagura.
No, è chiaro che in entrambi i
casi rimedierei una figura di merda. Se voglio scansare la rottura di
cazzo del rinnovo della tessera elettorale, devo costruirmi una
solida argomentazione in favore dell’astensione, tanto più perché in giro non se ne vede, ma devo sbrigarmi, perché al 4 dicembre manca poco.
La
fretta, tuttavia, non deve venire a detrimento della solidità della mia
posizione. Piglierò il meglio del tiepidume che è girato in questi
ultimi mesi, e con un pezzetto da chi «non ho deciso ancora, deciderò
all’ultimo
minuto», uno da chi «ho deciso, ma non dico cosa voterò», uno da
chi «la riforma fa schifo, ma è meglio che niente», uno da chi «il
Sì, non so, però, col No, vince l’instabilità», vedrete, saprò rabberciare un vestitino di onestà intellettuale da far morir
di invidia anche i più scaltri criptorenziani che non fanno il tifo per il Sì perché temono vinca il No e anche i più scafati pseudoantirenziani che «la Costituzione va salvata, sì, però che schifo ’st’accozzaglia».
domenica 20 novembre 2016
[...]
A
me pare che il «da ucciderla»
di cui tanto si è parlato in questi ultimi giorni fosse un’iperbole,
figura retorica cui peraltro Vincenzo De Luca ricorre di continuo.
Certo, per sua stessa natura, l’iperbole
può risultare irritante come ogni altra forma di eccesso, ma questo
non consente in alcun modo di prendere alla lettera l’immagine
che le dà effetto. Ritengo esagerate, dunque, le reazioni che hanno
fatto seguito all’intervista
mandata in onda qualche sera fa da Matrix,
nella quale peraltro l’affermazione
cadeva in un inciso, e trovo francamente strumentale il leggerla come
una condanna a morte in stile mafioso.
Direi che quel «da
ucciderla» sia da considerare
in questi termini: se alla politica non fossero di regola preclusi
quei mezzi che altrimenti le darebbero continuazione in guerra
secondo il noto adagio di Carl von Clausewitz, l’eliminazione
fisica di un avversario sarebbe pienamente legittima, e con
l’iperbole
lo diventa, perché l’eccesso
col quale essa si incarica di rappresentare una data situazione mira
a rivelarne la natura alterandone il grado. Messa in questo modo,
penso che la questione perda il peso che le si è inteso dare, per
offrirsi eventualmente solo come spunto a una eventuale discussione
sull’uso
delle figure retoriche nel dibattito politico, se non fosse che
sarebbe un doppione di quella già tenutasi sulla «rottamazione».
Credo che invece l’attenzione
possa più proficuamente applicarsi a considerare il casus
belli: «Ci abbiamo
perso un 1,5-2% di voti», dice Vincenzo De Luca, con ciò
chiarendo in cosa abbia avvertito la ferita che, almeno nelle
intenzioni da lui attribuite a Rosy Bindi, ritiene intendesse esser
mortale, dando con ciò legittimità a una risposta che in guerra è
sempre ben commisurata all’offesa,
perché uccidere chi vuole ucciderti è il senso primo e ultimo di
ogni impresa bellica. Va tuttavia fatto presente che tale
perdita non ha impedito a Vincenzo De Luca di vincere su Stefano
Caldoro, suo più diretto concorrente, con quasi il 3% in più di
voti, e dunque la questione va posta in questi termini:
«da ucciderla»,
sia, ma quando? Lì per lì, quando la ferita sembrava potesse essere
mortale, o anche dopo che l’esito
non si è rivelato tale? Chiudiamo
un occhio sull’iperbole,
ma chiariamo se in guerra si debba o meno fare prigionieri. Così,
giusto per sapere come comportarci il giorno che Vincenzo De Luca
dovesse capitarci sotto mano finalmente disarmato.
venerdì 18 novembre 2016
Credere, tradire, vivere
Ero una lucertola, e beato prendevo il sole sul lucernario di un museo di paleontologia, e di sotto c’era lo scheletro di un dinosauro, che a palpebre socchiuse, attraverso il vetro, miravo e rimiravo. Un gran bel dinosauro, devo dire. E più lo guardavo, più mi piaceva. Al punto che a un tratto l’orgoglio di classe animale mi ha fatto sbottare: «Che cosa straordinaria, ’sta nostra rettilitudine!».
Neanche il tempo di pensarlo, ed ecco che davanti mi si para un ragazzino, e fa per acciuffarmi. Per una frazione d’attimo resto di stucco: «E che ci fa quassù, un ragazzino?». Riparo subito sotto una tegola, ma la sorpresa mi fa indugiare il tanto da costringermi a lasciargli la coda in mano. «Fa niente – provo a consolarmi, pensando a quello che ho evitato, col cuore ancora in gola e il moncone sanguinante – tanto poi mi ricresce». E qui, di soprassalto, mi sveglio.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Per evitare l’imbarazzo, sorvolo sul significato e vado ai dettagli, a partire da quel bisillabo comune a lucertola e a lucernario. Non è una buona idea, perché l’attenzione mi scivola subito su quella rettilitudine, cui m’avvedo basta togliere una sillaba perché diventi rettitudine, ed ecco che di sponda l’imbarazzo mi schianta: sempre inconsciamente – e chi lo avrebbe mai detto – a Ernesto Galli della Loggia riconosco pure onestà intellettuale. E non basta, perché è evidente io senta che un’affinità ci unisce.
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più d’un geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però dev’esserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più d’un geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però dev’esserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».
martedì 8 novembre 2016
L’impercettibile crepa
Ieri
sera, a Porta a
porta,
si è parlato di Tiziana Cantone, la donna che, esasperata dalla
gogna mediatica di cui era stata fatta oggetto in seguito alla
diffusione di alcuni video che la riprendevano nel corso di incontri
sessuali da lei avuti qualche tempo addietro, qualche settimana fa si
è tolta la vita, e Bruno Vespa chi mi invita a madrina della
sventurata? Selvaggia Lucarelli, fresca di condanna per diffamazione
e a breve ancora alla sbarra per rispondere di concorso
in intercettazione abusiva e violazione della privacy.
Mi figuro
proprio a questo modo l’impercettibile crepa che dal bordo della tazza di un cesso prima o poi si allargherà in
un immenso buco nero che ingoierà tutta la nostra galassia.
lunedì 7 novembre 2016
Cinque anni e mezzo fa
Fu Roberto De Mattei, cinque anni e mezzo fa, a darci la spiegazione teologica di un terremoto,
quello che alcuni giorni prima si era avuto in Giappone, e anche quella volta fu dai microfoni di Radio Maria. Disse che «le catastrofi
sono talora esigenza della giustizia divina, della quale sono giusti
castighi», aggiungendo che «le
nostre colpe possono essere
personali o collettive, possono essere le colpe di un singolo o
quelle di un popolo, ma, mentre Dio premia e castiga i singoli
nell’eternità,
è sulla terra che premia o castiga le nazioni, perché le nazioni
non hanno vita eterna».
Niente
di diverso da ciò che padre Giovanni Cavalcoli ha detto dai
microfoni di Radio Maria a commento degli eventi sismici che
nelle ultime settimane hanno devastato ampie aree di Marche e Umbria, con la sola differenza che per il Giappone, cinque
anni e mezzo fa, non veniva avanzava alcuna ipotesi sulla causa del
castigo, mentre qui il peccato è stato individuato nell’approvazione
da parte del Parlamento italiano di una legge che riconosce le unioni
civili tra persone dello stesso sesso. Differenza che tuttavia
possiamo ritenere irrilevante, perché, fra i castighi che Roberto De
Mattei portò a esempio dei casi in cui «talora Dio si serve delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto
della sua giustizia», non mancò «il
fuoco che cadde su Sodoma».
Cinque
anni e mezzo fa, in Italia, nessuno protestò, di conseguenza la Cei e la Santa Sede non ritennero opportuno contestare le affermazioni di Roberto De Mattei, né i responsabili di Radio Maria pensarono fosse necessario dissociarsene. Perché nessuno protestò? Ci è lecito supporre che agli italiani non dia alcun fastidio l’idea
che Dio possa servirsi di una catastrofe naturale per castigare
un’intera nazione, ma solo a patto che a esserne colpita non sia la loro.
giovedì 3 novembre 2016
[...]
La
riservatezza mi obbliga a non poter rivelare luogo, data e
circostanza dell’incontro che ho
avuto con Matteo Renzi, ma non posso trattenermi dal confessare la
piacevolissima impressione che ne ho tratto, mutando radicalmente
l’opinione che avevo sul suo
conto. In due ore abbiamo spaziato in lungo e in largo, dai cieli
della teoria al basso cazzeggio, e al selfie col quale abbiamo chiuso
la nostra chiacchierata, con la reciproca promessa di rivederci,
tutto quello che avevo sempre pensato di lui era già interamente
rottamato, senza riserva.
Matteo Renzi è un simpaticone, con tratti del carattere che ho dovuto sorprendermi a trovare
straordinariamente amabili, e poi è incredibilmente colto, e, per
quanto possa sembrare poco rilevante, è assai più carino di come
appare in tv. Contrariamente a quanto appare – in parte, per la
superficialità con la quale lo si osserva e, in parte, per la posa
che fa scudo alla sua timidezza – Matteo Renzi ha modi fini e
delicati, e poi è dotato di grandissima sensibilità, di un garbo
che ha l’inconfondibile cifra
del vero signore, di una nobiltà d’animo
che non ha nulla di costruito. Insomma, è tutto il contrario di come mi era
apparso fino a un minuto prima di poterci parlare.
Dopo tutto quello
che ho scritto su di lui dal 2010 ad oggi, capirete che ho il dovere
di fare ammenda e di rimangiarmi pubblicamente i severi giudizi che
ho espresso sull’uomo e sul
politico. Solo ora mi avvedo di quanto fossero ingiusti, talvolta
perfino odiosi: Matteo Renzi è persona seria e onesta, e, credetemi, ha un
altissimo profilo morale, un notevole retroterra culturale, gusti
insospettabilmente raffinati, e
aggiungerei che ha pure un notevole sex appeal (e sia chiaro che lo
dico da eterosessuale incallito).
Con ciò penso di aver fatto
adeguatamente sgombro il campo da ogni sospetto che il mio giudizio
sulla riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a esprimere
un parere il 4 dicembre possa essere segnato da un malevolo
pregiudizio su chi l’ha voluta
così com’è, perché purtroppo continuo a pensare che sia una riforma
di merda, e per le ragioni che ho già ampiamente espresso. Di qui, lo sconcerto: non so darmi spiegazione del come
un tale schifo possa esser stato partorito da chi ho scoperto unire a
una genuina fede democratica, a uno sconfinato amore per l’Italia,
a vaste e profonde conoscenze in ogni campo del sapere, a una
formidabile capacità argomentativa, il profilo del vero galantuomo.
Sconcerto che mi auguro possa corroborare la mia già tanto celebrata qualità di analisi, da qualche tempo in crisi, dando una svecchiata al mio stile.
E fino al 5 dicembre, davvero, non ne parliamo più.
venerdì 28 ottobre 2016
La Pala Radolovich / 2
Fate
finta di dover riprodurre un quadro di Caravaggio, un quadro che
Caravaggio potrebbe aver dipinto, ma di cui si è persa ogni traccia,
o che non ha mai dipinto, ma di cui abbiate dalla specifica di una
commessa qualche indicazione riguardo ai soggetti che in esso avrebbero dovuto figurare e alla disposizione che il gruppo avrebbe dovuto assumere nel dipinto: come procedereste?
Se avete appena un minimo di serietà,
probabilmente comincereste col campionare i volti dei personaggi
raffigurati nei quadri che sono con certezza attribuiti al
Caravaggio. Con un programmino in grado di ridarveli in 3D,
probabilmente provvedereste a sceglierne le pose e le espressioni che
possano esservi utili a riprodurli nella scena che dovete costruire.
Se volete ottenere un risultato brillante, probabilmente toglierete o
aggiungerete qualche barba, in modo da ricreare personaggi
apparentemente nuovi, o addirittura costruire degli ibridi (per
esempio, fronte e occhi dal Bacchino
malato,
naso e bocca dal Ragazzo
con cesta di frutta,
ecc.). Costruiti o, per meglio dire, ricostruiti a questo modo i
volti dei personaggi che poi riporterete sul dipinto, probabilmente
procedereste a fare altrettanto coi vestiti, facendo in modo che i
panneggi siano congrui alle posture, che quasi certamente saranno a
forte impronta drammatica, con vividi effetti di torsione o
sospensione. Probabilmente, poi, passereste a rifinire l’assieme,
ovviamente dando massima attenzione alla luce: ruotereste di qualche
grado quella testa, inclinereste un po’
a destra quel busto...
Ora immaginate che all’uzzolo
di mettervi a caraveggiare sia disponibile pure un certo budget. Niente di
spropositato, sia chiaro, diciamo un 10-20.000 euro, giusto il
necessario per la supervisione da parte di uno storico dell’arte
e di un grafico. Bene, procedendo a questo modo, pensate di poter
sperare in un risultato decente? Mi spiego meglio. Non dico che il
vostro Caravaggio debba far piangere di commozione Vittorio Sgarbi, e
nemmeno che non debba sollevare perplessità in chi abbia una pur
superficiale conoscenza dell’opera
del Caravaggio, ma, ancorché vogliate proporlo come mero
divertissement intellettuale, per poi annunciare che il tal giorno,
in tal luogo, «grazie
alle moderne tecnologie»
presenterete
al pubblico un inedito del Caravaggio «o
almeno come avrebbe dovuto essere il dipinto»,
quanto si è fin qui detto non sarebbe il minimo? E dunque cosa c’era
da aspettarsi dall’annuncio
dato dal Museo del Banco di Napoli di cui vi ho parlato pochi giorni
fa? E in realtà che cosa è stato presentato al pubblico?
È presto
detto: un giovinotto dallo scilinguagnolo giulivo a far da cicerone nelle stanze dell’archivio
del museo; due scale appoggiate a una scaffalata; tre tizie
biancovestite con un paio d’ali a tracolla lì sopra appollaiate in
posa instabile; una qualcerta addobbata presuntivamente a Madonna a
qualche piolo più in basso; e, sotto, quattro sacripanti coperti di
pezze che un anticipo di simpatia sollecitava a credere secentesche. Una patetica pantomima da far rivalutare il presepe
vivente di Roccaravindola come performance
teatrale di altissimo livello. Questa sarebbe la Pala
Radolovich,
a detta di chi ha organizzato – sonora pernacchia – l’evento.
Non c’ero, ho preso orrore della cosa da un video di Mattino
Tv. E ogni altro commento è superfluo.
giovedì 27 ottobre 2016
[...]
Voglio spezzare una lancia in favore di Matteo Renzi, ma
in subordine all’eventualità
che persona a lui vicina sia attualmente sottoposta a intercettazione
telefonica e un domani dovesse essere diffuso un colloquio svoltosi
tra i due in queste ore: non si biasimi la
sua euforia per un terremoto che cade a fagiuolo per strappare
a Bruxelles qualche miliarduccio a copertura di mance, bonus e
cotillons pre-elettorali, si sia indulgenti se nei toni o nelle espressioni potrà dare l’impressione
di uno che si rallegri come per una provvidenziale botta di culo.
Cercate di mettervi nei panni dell’ometto,
chessò, se proprio non riuscirete ad assolverlo, provate a trovargli un’attenuante
nel fatto che è Capricorno.
Tutto
il mio schifo preventivo, invece, per chi domani, dalla prima pagina di questo o quel quotidiano filogovernativo, dirà: «Visto? Ora Bruxelles provasse a dirgli no, poi sarà chiaro di chi è stata la colpa della deriva populista».
martedì 25 ottobre 2016
La Pala Radolovich
Una
trentina d’anni
fa, nell’Archivio
Storico del Banco di Napoli, fu trovata una commissione di pagamento
per 200 ducati, datata 6 ottobre 1606, che Nicolò Radolovich
disponeva in favore di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, come
acconto per una «pittura
che l’ha
da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza
palmi 13 e mezzo et larghezza di palmi 8 e mezzo con le figure cioè
di sopra, l’Imagine
della Madonna col Bambino in braccio cinta di cori d’Angeli
et di sotto S. Domenico et S. Francesco nel mezzo abbracciati insieme
dalla man dritta S. Nicolò et dalla man manca S. Vito».
In fuga da Roma, il Caravaggio era stato preceduto a Napoli dalla sua
fama, e quella del Radolovich era solo una delle commesse che
l’avrebbero
tenuto impegnato nei mesi successivi al suo arrivo in città. Incassò
e depositò l’anticipo,
prelevandone la gran parte una ventina di giorni dopo, ma della Pala
Radolovich
non si è mai più saputo nulla. Fino all’altrieri,
almeno.
L’altrieri,
infatti, i responsabili del Cartastorie, il Museo dell’Archivio
Storico del Banco di Napoli, hanno annunciato che giovedì 27 ottobre
il mistero sarà svelato. Caricando di suspense l’evento,
ildenaro.it
resta sul vago: «Una
conclusione del tutto inaspettata».
Qualcosa in più si apprende da
ilmattino.it:
«Grazie
alle moderne tecnologie verrà mostrata al pubblico la pala o almeno
come avrebbe dovuto essere il dipinto».
Sembra si possa escludere il ritrovamento dell’opera
o la sua identificazione in un dipinto fin qui attribuito ad altro
autore: probabilmente sarà presentato al pubblico un collage,
ritagli di altre opere del Caravaggio assemblati a comporre il gruppo
descritto dalla specifica di commessa, e non c’è da dubitare che
il risultato potrà pure avere un qualche fascino, giacché a
costruirlo si saranno certamente chiamate delle eccellenze, sia in
quanto a conoscenza della pittura del Seicento, sia in quanto a
impiego di Photoshop.
Operazione che merita comunque un plauso, e prim’ancora di aver
avuto modo di vederne il risultato, perché in fondo è meglio buttar
via denaro a questo modo piuttosto che al modo di Banca Etruria e del
Monte dei Paschi di Siena.
Ciò detto, credo che per la fin qui introvabile
Pala
Radolovich
possa
tornar utile il rasoio di Occam, rammentando che di un’altra opera
del Caravaggio, anch’essa
composta a Napoli tra la fine del 1606 e l’inizio
del 1607, e che oggi è esposta a Vienna (Kunsthistorisches Museum,
Gemäldegalerie)
non si è mai saputo chi fosse il committente o a quale altare fosse
destinata, né si è mai trovata notizia di pagamento per la sua
realizzazione: parlo della Madonna
del Rosario.
L’ipotesi
che qui mi appresto ad argomentare è che molto probabilmente la Pala
Radolovich altro
non sia che la Madonna
del Rosario.
Rammentando che nel Seicento, a Napoli, il palmo equivaleva a 26,45
cm, comincerei col dire che le sue dimensioni (cm 364,5 x 249,5)
corrispondono più o meno a quelle pattuite col Radolovich, e che in
essa è effettivamente presente «l’Imagine
della Madonna col Bambino in braccio»
richiesta
dal committente. Da qui in poi, le possibili obiezioni, che concedo
non siano poche: nella Madonna
del Rosario
non vi sono i «cori
d’Angeli»
che voleva il committente; i santi, che dovevano essere quattro, sono
solo due; al posto dei due santi mancanti, sono presenti,
inginocchiati, tre lazzari, una donna con suo figlio, un gentiluomo
con gorgiera e, in piedi, alle spalle del santo a destra, due
personaggi non bene identificabili. Come spiegare queste vistose
incongruenze rispetto a quanto era stato concordato col Radolovich?
Il Caravaggio arriva a Napoli in condizioni
economiche assai precarie e la commessa del Radolovich arriva nei
primi giorni in cui il pittore mette piede in città, quando ancora
non gli era stato consegnato l’anticipo
per metter mano alle Sette
opere di misericordia
e ben prima che lo strepitoso successo ottenuto da quest’opera
gli procurasse altre richieste e corposi incassi: quel denaro gli
era indispensabile, non poteva rifiutare l’offerta.
Al momento di accettarla era già intenzionato a prendersi delle
libertà rispetto alle indicazioni del committente? Non lo sappiamo,
di certo non si sarebbe trattato della prima volta che un committente
poi rimanesse contrariato, si pensi a cosa era successo a Roma con la
prima versione di Matteo
e l’angelo
e
con la Morte
della Vergine.
Di fatto, il Caravaggio non aveva mai dipinto
«cori
d’Angeli»,
sebbene proprio per la Morte
della Vergine
gli fossero stati espressamente richiesti, né ne avrebbe mai dipinti
successivamente. C’è
da dire, poi, che una composizione come quella richiesta dal
Radolovich non consentiva al Caravaggio di dare all’opera
la forte tensione scenica alla quale non avrebbe mai rinunciato: il
quadro avrebbe avuto una dimensione troppo statica, mentre invece il
brulicar di vita che aveva trovato nei vicoli di Napoli aveva
ulteriormente acuito la sua predilezione per figure in movimento,
colte in istantanee di gesti di umanissima quotidianità. Tutto gli
sarebbe stato possibile, tranne il santino devozionale col quale il
Radolovich pensava di poter ornare la sua cappella a Polignano a
Mare, dove però, guarda caso, ancora oggi è viva la devozione alla
Madonna del Rosario, cui da secoli è dedicata una festa che si tiene
ai primi di ottobre, e la commessa del Radolovich arriva proprio in
quei giorni.
Non ci
sarebbe da stupirsi se il Caravaggio si fosse preso, come al solito,
un po’ troppa libertà e
il committente avesse rifiutato l’opera,
che probabilmente ai raggi X potrebbe pure rivelare qualche
successivo aggiustamento allo scopo di destinarla ad altro
acquirente. In tal senso si giustificherebbe l’eventuale
aggiunta del personaggio con gorgiera inginocchiato ai piedi di San
Domenico e col viso rivolto verso chi guarda il quadro: potrebbe
trattarsi della persona che avrebbe dovuto acquistare l’opera
rifiutata dal Radolovich.
Come dicevo, si tratta solo di un’ipotesi,
ma penso che darebbe risposta a tutti gli interrogativi, attualmente
senza risposta, relativi alla Pala
Radolovich
(fu veramente dipinta? se sì, che fine ha fatto?) e alla Madonna
del Rosario
(chi la commissionò? perché non si ha traccia di commessa e di
pagamento?).
Nota Un lettore mi fa presente che la Madonna del Rosario è stata analizzata ai raggi X, ma che i risultati tenderebbero a escludere che l’opera abbia subito aggiustamenti tali da lasciar credere che l’impianto originario rispondesse a quello richiesto dal Radolovich per elementi successivamente modificati (la fonte, tuttavia, non entra nel dettaglio, dunque non è dato sapere su quali argomenti poggi un’affermazione tanto categorica). Mi pare che questo non faccia cadere comunque l’ipotesi da me avanzata: anche per altre opere del Caravaggio che furono rifiutate dal committente, l’esame radiografico non rivela modifiche che siano motivabili dal rendergli accettabile il dipinto o dall’accomodarlo al gusto di un altro acquirente.
Nota Un lettore mi fa presente che la Madonna del Rosario è stata analizzata ai raggi X, ma che i risultati tenderebbero a escludere che l’opera abbia subito aggiustamenti tali da lasciar credere che l’impianto originario rispondesse a quello richiesto dal Radolovich per elementi successivamente modificati (la fonte, tuttavia, non entra nel dettaglio, dunque non è dato sapere su quali argomenti poggi un’affermazione tanto categorica). Mi pare che questo non faccia cadere comunque l’ipotesi da me avanzata: anche per altre opere del Caravaggio che furono rifiutate dal committente, l’esame radiografico non rivela modifiche che siano motivabili dal rendergli accettabile il dipinto o dall’accomodarlo al gusto di un altro acquirente.
lunedì 24 ottobre 2016
Ansvald il Piccolo
La
mano è senza dubbio quella di Ansvald il Piccolo (Bruges, 971? -
Lione, 1028), basti il raffronto coi miniati di attribuzione certa,
in particolar modo col Libro di Giona (British Library). La
gascromatografia dei pigmenti, poi, conferma che la tavolozza è
indubbiamente sua, che i materiali sono quelli da lui solitamente
impiegati (cfr. H. Voeller, Ansvald, Losanna 1940). È il
supporto, tuttavia, a porre il problema, e problema non irrilevante,
perché la miniatura è dipinta sul margine di pag. 347 di una copia
de L’ape
latina, un manualetto Hoepli stampato nel 1911, lì dove
l’Indice di alcune cose notevoli rimanda al «sunt
lacrimae rerum...» di Virgilio (Eneide, I, 462): miniatura racchiusa in una striscia di poche lignes, che a occhio nudo
sembrerebbe uno sbavo d’inchiostro, ma che alla lente (≥ 50)
rivela la sublime arte del pennellino a un sol pelo, della quale «il
Piccolo Grande Ansvald», come era solito chiamarlo il
compianto Oreste Federzoni (Ansvald il Piccolo, Firenze 1952),
fu insuperabile maestro. Siamo dinanzi ad un’allegoria, è evidente: un povero
blogghero (proparossitono, equivalente medievale del moderno
blogger) annaspa nel lapislazzulo di uno sconfinato oceano di
ignoranza dal quale emerge qui e lì l’ematite
di alcune isole di malafede, e, a esprimerne lo stato
d’animo, ecco un cartiglio svoltolato
sul suo capo, a mo’ di fumetto, recante iscritta la seconda parte del verso di Virgilio («…
et mentem mortalia tangunt»).
mercoledì 19 ottobre 2016
lunedì 17 ottobre 2016
Non segue
L’art.
56 della Costituzione è fra quelli risparmiati dalla riforma che il
4 dicembre sarà sottoposta al vaglio referendario, e dunque, anche
nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, al suo terzo comma
continuerà a recitare: «Sono
eleggibili a deputati tutti gli elettori che nel giorno della
elezione hanno compiuto i venticinque anni di età».
Nel caso in cui fossero i Sì a prevalere, però, al Senato
entrerebbero 95 amministratori locali (74 consiglieri regionali e 21
sindaci) eleggibili al compimento del 18° anno di età, sicché
potremmo avere dei senatori anche di sette anni più giovani dei
deputati, e questo in barba al fatto che in latino «senator»
significa «più
vecchio».
È col segnalare questa assurdità che intendevo aprire il seguito di
Una
merda di riforma costituzionale (Malvino,
3.10.2016), ammettendo che sostanzialmente fosse irrilevante e tuttavia
emblematica di quel patente analfabetismo istituzionale che ha dato
il peggio di sé in assurdità ben più rilevanti sul piano pratico. E ad analizzare queste mi disponevo quando un déjà vu m’ha
paralizzato: mi sono rivisto alla tastiera del pc ai tempi dei
referendum sulla legge 40, e ho ripensato a tutti i post scritti a
quei tempi. Sono andato a rileggerli, e vi ho trovato tutti gli
argomenti che sarebbero stati fatti propri dalle sentenze che in
questi ultimi dieci anni hanno fatto a pezzi la legge, ma che a quei
tempi su queste pagine potevano tutt’al
più aspirare a rinsaldare nella propria convinzione chi già fosse
convinto che quella legge fosse cretina e crudele.
Non è tutto,
perché poi è accaduto un fatto decisivo nel togliermi ogni residua
motivazione nel continuare la mia personale rassegna degli spropositi contenuti nella riforma: ho scoperto che non ero stato il primo a notare
l’assurdità
dei senatori più giovani dei deputati, l’aveva
già segnalato Emanuele
Rossi (Una
costituzione migliore?
– Pisa University Press, 2016). Ecco, mi son detto, non c’era certo bisogno che lo facessi notare io.
E qui ho tirato i fili: su alcune
questioni, e in certi contesti, la ragione è impotente, e i suoi
tentativi di farsi valere possono aver senso solo come contributo
testimoniale, e solo a futura memoria, dunque nell’atto
di fede, assurdo come tutti gli atti di fede, che la ragione abbia un
futuro. Atto di fede, questo, che oggi pare assai più assurdo che in
passato: già da tempo la discussione pubblica è impermeabile alla
logica della retta argomentazione, e la persuasione è sempre più
spesso affidata allo strumento delle più rozze fallacie, che oggi, molto
più di quanto sia stato in passato, risultano straordinariamente
efficaci in un foro animato da impulsi primordiali che spesso
rivelano la neutra cogenza che domina la materia inorganica.
È tempo
di decidere, mi son detto: mettersi in posa da martiri o ritirarsi in un discreto
silenzio su tutte le questioni che esigerebbero uno sforzo di
intelligenza, inesigibile da un’opinione
pubblica ormai abbrutita dalla paura e dall’ignoranza.
Io credo che a prevalere saranno i Sì,
credo che sia del tutto inutile discutere della riforma
costituzionale sulla quale si voterà il 4 dicembre, credo che nel
merito interessi a pochissimi, e che dunque il voto la toccherà
solo come pretesto. D’altronde,
via, siamo onesti, questo paese merita di essere governato da Matteo
Renzi, e chi siamo noi, sparuta minoranza di irriducibili cultori
della democrazia parlamentare e della divisione dei poteri, per poter pretendere di togliergli dal
grugno quelle smorfie da dittatorello in erba?
lunedì 10 ottobre 2016
lunedì 3 ottobre 2016
Una merda di riforma costituzionale / 1
«Correggere
una costituzione
non
è impresa minore
del
costruirla la prima volta»
Aristotele,
Politica IV, 1 (1289 a 5)
«La
costituzione di un paese
non è un atto del suo governo,
ma del
popolo che costituisce il governo»
Thomas Paine, I diritti
dell’uomo (1791)
I. Al
referendum che si terrà il 4 dicembre gli italiani saranno chiamati
a esprimersi su una riforma che modifica più di un terzo degli
articoli della Costituzione ai titoli I, II, III, V, VI della sua
Parte II.
Già qui mi pare si ponga un problema non irrilevante,
quello relativo alla libertà del voto, di fatto negata su ciascuno
dei tanti articoli toccati dalla riforma, per lasciare all’elettore
solo la possibilità di esprimere un parere complessivo su un
pacchetto quanto mai disomogeneo nei suoi contenuti, con ciò
disattendendo all’indicazione
più volte espressa dalla Consulta circa la necessità che ogni
progetto di legge debba rispettare i caratteri di omogeneità e
autonomia riguardo ai contenuti e quello di coerenza riguardo alla
loro sistematicità. Non c’è
da stupirsene, perché ad approvare questa riforma è stato un
Parlamento eletto con una legge elettorale poi riconosciuta
incostituzionale, e della quale avrà voluto dimostrarsi all’altezza.
Al dubbio sulla legittimità giuridica, se non morale, che un tale
Parlamento potesse metter mano a una riforma costituzionale si è
soliti opporre il fatto che la Consulta non ha dichiarato illegittimi
gli atti legislativi licenziati dalle Camere elette con una legge
elettorale che pure dichiarava incostituzionale, ma si dimentica che
il principio sul quale si reggeva quella che al buon senso suona come
una contraddizione era quello della prorogatio
che la Costituzione concede al Parlamento solo al fine di riempire il
vuoto che a seguito di nuove elezioni si crea in attesa che vengano
convocate le nuove Camere (art. 61) oppure, e perciò espressamente chiamate a
supplenza, per la conversione in legge di decreti prossimi a
scadenza (art. 77): una prorogatio, dunque, finalizzata esclusivamente al disbrigo di affari correnti, non per darsi tempi e compiti
da Assemblea Costituente.
Ma così – si obietta – si sarebbe
andati alle elezioni con il proporzionale del cosiddetto Consultellum. Bene, anzi benissimo,
quale altro sistema avrebbe potuto rappresentare al meglio tutto il
Paese in Parlamento al fine di dare un segno di condivisione ad una
nuova legge elettorale e ad una revisione della Carta della quale i
partiti politici si facessero esplicitamente promotori col loro programma
elettorale? O è da ritenersi più corretto che, sul piano politico,
questa riforma sia nata per l’iniziativa
di un partito che non la
contemplava nel programma col quale chiedeva voti agli elettori e
che, sul piano istituzionale, sia stata promossa da un governo che non si è risparmiato in colpi di mano in Commissione e in Aula per farla approvare in via definitiva da soli 361 deputati su un totale di 630?
Si
risponde fosse una riforma non più prorogabile, e dunque non importa
troppo come si sia arrivati alla sua approvazione, l’importante è
che al più presto venga meno il bicameralismo perfetto, che
d’altronde non piaceva nemmeno a Piero Calamandrei, del quale
probabilmente si ignora quanto scrisse sulla necessità che un
governo si tenga fuori dal processo di revisione costituzionale:
«Quando
l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i
banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve
rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che
questo scaturisca interamente dalla libera determinazione
dell’assemblea sovrana»
(Come
nasce la nuova Costituzione,
1947).
Date queste premesse, la riforma sulla quale gli italiani sono chiamati a esprimersi il 4 dicembre non si sarebbe dovuta neppure scrivere. Per votare no, potrebbe bastare anche solo questo.
II. Laddove non si considerassero valide le ragioni fin qui esposte, basta rammentare i passi salienti che hanno segnato il suo iter parlamentare, a cominciare dall’impulso datole da Giorgio Napolitano come condicio sine qua non dell’accettare la sua rielezione al Quirinale, che non è esagerato definire una vera e propria mostruosità istituzionale, forse il punto più basso nella storia dell’istituto della Presidenza della Repubblica, peraltro già ampiamente stravolto nel settennato che si era appena chiuso: il Capo dello Stato prendeva un’iniziativa che andava ben al di là delle prerogative assegnategli dalla Carta, sulla quale poneva una vera e propria questione di fiducia al Parlamento, arrogandosi il diritto di poter chiedere al governo di cui avrebbe nominato il Presidente del Consiglio un impegno vincolante in tal senso, per poi spendersi giorno dopo giorno, quasi sempre in forma assai irrituale, come dominus dell’iter parlamentare.
È il pressing del Quirinale a fare degli esecutivi di Enrico Letta, prima, e di Matteo Renzi, poi, dei governi di scopo, e lo scopo è fissato da Giorgio Napolitano. Il cosiddetto cronoprogramma di Enrico Letta trova perplessità in seno al suo stesso governo con gli interventi critici di Emma Bonino e di Andrea Orlando, che tuttavia non trovano voce in capitolo: «Non ho intenzione di tirare a campare – dichiara Letta – e tra diciotto mesi tirerò una riga: se sulla riforma non c’è nulla, ce ne andiamo tutti a casa». Ma c’è chi scalpita per prenderne il posto, perché non corre abbastanza: «È un incapace», dice Matteo Renzi, intercettato a colloquio telefonico con Michele Adinolfi, generale della Guardia di Finanza, e dopo il noto #enricostaisereno va a chiederne la testa alla Direzione del Pd, che gliela concede.
Ora Napolitano può contare su uno che i cronoprogrammi se li mangia: pronta rimozione dei parlamentari del Pd che avevano espresso qualche riserva nella Commissione Affari Costituzionali del Senato; rimozione del relatore di minoranza, Roberto Calderoli, con una motivazione (il patto del Nazareno si è esaurito) che dovrebbe far rizzare i capelli in testa a chiunque sappia che le procedure di revisione costituzionale non possono essere alterate per congiunture di natura politica; su iniziativa del senatore Roberto Cociancich, una ventina d’anni prima capo-scout di Matteo Renzi, passa un emendamento che annulla il voto segreto su tutte le votazioni che il governo riteneva a rischio; pur di non rivedere il testo della riforma, che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, passa nella stesura definitiva della modifica dell’art. 57 la patente contraddizione tra il comma 2 (i membri del nuovo Senato saranno eletti dai Consigli Regionali) e il comma 5 (tale elezione dovrà avvenire in conformità alle scelte degli elettori).
Approvata in via definitiva a tempo di record, ma senza ottenere i voti dei due terzi delle Camere, la riforma si avvia giocoforza al vaglio referendario previsto dall’art. 138 della Costituzione, che Renzi si sente in diritto di spacciare come gentile concessione del suo governo con una motivazione che ha dell’incredibile («l’avremmo indetto comunque»), ma sulla quale è probabile ritiene offesa che si abbia qualche dubbio. In fondo, via, si tratta di un uomo di parola.
Ma sarà il caso di passare al merito della riforma.
[segue]
domenica 2 ottobre 2016
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