venerdì 27 luglio 2012
Films
Non è possibile dimostrare che Loris D’Ambrosio sia morto d’infarto per «la campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto», come Giorgio Napolitano dà per assodato, e dunque non converrà insistere, sennò a qualche magistrato verrà voglia di disporne l’autopsia per escludere che non sia stato fatto fuori, ovviamente dai servizi deviati, per farlo tacere: se proponi il film romantico, trovi sempre chi in alternativa suggerisce il thriller.
mercoledì 25 luglio 2012
[...]
Stavano ancora digerendo gli argomenti di chi è contrario al matrimonio gay perché ritiene che il riconoscimento della coppia di fatto sia sufficiente come suo più idoneo surrogato (Bindi e Fioroni) che gli hanno portato in tavola gli argomenti di chi è contrario al riconoscimento della coppia di fatto perché come surrogato è tanto idoneo da somigliare troppo al matrimonio (Quagliariello e Buttiglione). Ma i gay sanno incazzarsi? E cosa aspettano?
«Un tizio di cui nulla so e di cui nulla voglio sapere»
«Un tizio di cui nulla so e di cui nulla voglio sapere decide di entrare a casa mia senza bussare e senza presentarsi, senza chiedere permesso e senza dichiarare le proprie intenzioni, al solo fine di insolentirmi». Raccontata in questo modo, la disavventura capitata a Luigi Manconi ci muove alla solidarietà. In realtà, è accaduto che un tale lo ha contattato via Facebook per muovere obiezioni a quanto egli aveva sostenuto in un articolo.
Non sappiamo quanto le obiezioni fossero argomentate, perché Manconi non riproduce integralmente il testo, limitandosi a citare i passi che lo hanno infastidito. Non li riporterò in questa sede, ma direi che non mi paiono contenere elementi penalmente rilevabili, d’altronde «il signore in questione» non si è celato nell’anonimato, dando modo a Manconi di potergli chiedere di risponderne nelle sedi deputate. Ma pare che Manconi non ne abbia intenzione, gli basta trarne spunto per l’esercizio che ultimamente sembra più in voga tra quanti vivono del rendere pubbliche le loro opinioni: lamentarsi del fatto che qualcuno non le condivida, e le contesti, semmai eccedendo nei toni.
È la geremiade di chi fino a ieri non aveva alcun feed back dai propri lettori e a cui oggi, via internet, arrivano anche commenti da «bancone di bar», per usare la formula che in analoga occasione è stata scelta da Michele Serra e che Manconi qui ripropone.
Non che i bar siano nati con internet. Rammento – ero un bimbetto di dieci o undici anni – i feroci commenti che mio padre e i suoi amici, comunisti anzichenò, dedicavano agli articoli di Indro Montanelli, seduti ai tavolini del Bar Internazionale, a Forio d’Ischia, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Non arrivavano a Montanelli, né a Montanelli passava per la testa di farsi un giro in mezzo a quei tavolini.
Condizione perfetta, direi. La consiglierei a Manconi e a quanti, come lui, vogliano evitare di esporsi alle insolenze. Il firewall ottimale è la discrezione. Perché avere una pagina su Facebook? Perché rendere pubblico il proprio indirizzo di posta elettronica? Per ricevere solo complimenti e attestati di simpatia? Via, non si può pretendere.
O meglio: ci si sente offesi? Se ne chieda ragione a un giudice, invece di piagnucolare o di offrire il tre quarti sdegnato e altero.
Oppure: si intuisce che, seppur molto colorita, l’obiezione a ciò che si è scritto non possa trovare un giudice che la stigmatizzi come offesa, calunnia, molestia? Ci si tappi le orecchie. Si rimanga sprangati nella turris eburnea. Quanto meno, si giri alla larga dai bar. Sennò, di fatto, «un tizio di cui nulla so e di cui nulla voglio sapere» riesce a distrarti dai tuoi massimi sistemi per più di quattromila battute. Chissà, infatti, che splendido articolo avrebbe potuto offrirci, Manconi, se avesse rinunciato a queste sue futili menate.
martedì 24 luglio 2012
«Con un mondo di omosessuali finirebbe l’umanità»
«Con un mondo di omosessuali finirebbe l’umanità», così l’onorevole Paola Goisis (Lega Nord) ai microfoni de La Zanzara (Radio 24, 23.7.2012). È versione grossolana di un argomento caro ai preti, ai quali è assai facile mostrarne la fragilità: «Anche con un mondo di preti finirebbe l’umanità».
Più difficile, invece, far capire ad uno della Lega Nord che «un mondo di omosessuali» è altrettanto impossibile che «un mondo di eterosessuali»: sono due costrutti tanto paranoici che al confronto quello della Padania sembra un banale tic nervoso.
lunedì 23 luglio 2012
giovedì 19 luglio 2012
Antirelativismi
Sembra un brano tratto da una lectio magistralis di Joseph Ratzinger, vero? E invece è una pagina del Kursus der Philosophie als streng wissenschaftliche Weltanschauugun und Lebensgestaltung di Karl Eugen Dühring (1875). Friedrich Engels gli obietta: «Se mai l’umanità arrivasse al punto di non operare che su verità eterne, su risultati del pensiero che posseggano il valore sovrano e l’incondizionata pretesa di verità, essa sarebbe pervenuta a quel punto in cui l’infinità del mondo intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell’innumere numerato» (Anti-Dühring, 1878).
Con ciò si vorrà mica negare ogni certezza di ultima istanza? Tutt’altro, ma Engels scrive: «Che due più due faccia quattro […] è dichiarata verità eterna solo da chi mira ad arguire che anche nel campo della storia umana ci siano verità eterne, una morale eterna, una giustizia eterna e così via, che esigano una validità e una portata analoga a quella delle conoscenze e delle applicazioni della matematica». La pretesa di una verità eterna, dalla quale discendono una morale eterna e una giustizia eterna, non potrebbe porsi dunque che su basi materialistiche. Ce ne sarebbe a sufficienza per negarne la natura trascendente.
martedì 17 luglio 2012
Beppe Grillo ha insultato Rosy Bindi?
Il più duro è stato Pierluigi Bersani: «Le parole di Beppe Grillo nei confronti di Rosy Bindi sono indecenti: sono il segno di un maschilismo e di una volgarità di cui pensavamo avesse dato miglior prova Berlusconi, ma evidentemente al peggio non c’è limite». Anche senza arrivare a tanto, però, il giudizio sembra unanime: Beppe Grillo avrebbe insultato Rosy Bindi. Ma è vero? Beppe Grillo ha insultato Rosy Bindi?
Di Beppe Grillo penso tutto il male possibile, ma francamente mi pare che il suo non si possa definire insulto: ha detto che Rosy Bindi «di problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti» e onestamente non saprei proprio dove stiano l’indecenza, la volgarità e il maschilismo. Non ha escluso che Rosy Bindi abbia conosciuto il vero amore: si è limitato a dire che, se l’ha conosciuto, non ha mai avuto problemi di convivenza con chi ha amato. Non solo: ci ha messo un «probabilmente».
Ora, per toccare con mano la correttezza di queste affermazioni, basta riandare all’intervista che Rosy Bindi ha concesso nel marzo dello scorso anno a Mariella Venditti per il settimanale A: un fidanzatino a 16 anni, altre due o tre storielle alla quale ella stessa sembra dare poca importanza, nessuna convivenza, nessun matrimonio. Dove sta l’insulto nel dire che «di problemi di convivenza con il vero amore non ne ha mai avuti»? Io direi si possa togliere pure il «probabilmente».
Ovviamente non c’è nulla di male nel vivere da single, soprattutto quando – ed è questo il caso – si tratta di una scelta. In quell’intervista, infatti, Rosy Bindi affermava: «Sono molto serena riguardo alle mie scelte... Tornassi indietro, rifarei ciò che ho fatto, perché non ho rinunciato a niente di essenziale». Direi ci sia abbastanza per prosciogliere Beppe Grillo da ogni accusa. Direi ci sia abbastanza anche per cogliere il fondo dell’insensibilità di Rosy Bindi al vero amore che può far sentire essenziale a due gay l’unirsi in matrimonio.
lunedì 16 luglio 2012
Parafrasi del «fare il frocio col culo degli altri»
Ivan Scalfarotto è gay, ma è pure vicepresidente del Pd. Tra le due cose, a chiacchiere, non dovrebbe esservi conflitto; di fatto, basta leggere ciò che il nostro scrive a commento dell’ultima assemblea nazionale del partito per capire che conflitto v’è, ed è bello grosso. Dal modo in cui lo risolve direi che Scalfarotto sia più vicepresidente del Pd che gay. A cominciare dal fatto che definisce «caciara», «casino», «gazzarra» – poi devono essergli finiti i sinonimi – le sacrosante proteste di quanti hanno contestato un documento politico che egli stesso non esita a riconoscere sordo e muto riguardo a quei «diritti che sono scontati in tutto il mondo civile».
Il Pd se ne fotte di ciò che i gay reclamano? Fa niente, tanto «le ragioni dell’uguaglianza delle persone omosessuali hanno una loro forza intrinseca e hanno dalla loro parte l’irresistibilità della storia». Intendiamoci. «Sono sufficienti le unioni civili? No. Si deve giungere a un compromesso e smettere di combattere? Men che mai. Rassegnarsi e tacere? Nemmeno per idea». Ma «umiliare il segretario per ciò che non ha detto invece di riconoscergli ciò che ha detto» non è bello. Già, ma che ha detto Bersani? Ha detto che al momento del matrimonio gay non se ne parla. Come Bindi. Come Fioroni. Però «ha detto la parola “omosessuali” molte più volte della parola “lavoratori”: un miracolo per una persona della sua cultura».
Niente da fare, la platea non ha apprezzato il miracolo e si sono sollevate le proteste. Che non sono piaciute a Scalfarotto, perché «l’esasperazione è un lusso che possono permettersi i singoli cittadini, non chi ha la responsabilità di rappresentarli». Quando i singoli cittadini sono esasperati, chi li rappresenta non deve rappresentarne l’esasperazione, tanto per i matrimoni gay, «che al Pd, alla politica, alla Chiesa piaccia o no, è solo questione di tempo». Nel frattempo? Pazientare, per evitare che nel Pd si faccia «più aspro il muro contro muro tra favorevoli e contrari».
Chi rappresenta, Scalfarotto? Il partito, senza dubbio. Ne è vicepresidente, è naturale. Ma perché è stato scelto come vicepresidente? Perché è gay, senza dubbio: tra quelli che nel Pd hanno la sua età non spicca per altro «merito»: meno furbo di un Adinolfi, meno colto di un Civati... Qui, la radice del conflitto. E Scalfarotto lo risolve con la parafrasi del «fare il frocio col culo degli altri»: fa il vicepresidente del Pd con le ragioni degli eterosessuali ipocriti.
Solo un eterosessuale, e parecchio ipocrita, può affermare infatti che il Pd è «un partito di gente diversa, sul modello dei grandi partiti europei e delle grandi democrazie occidentali». Chi è gay dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che è un aborto cattocomunista. Sui diritti civili, d’altronde, e in particolar modo su quelli relativi al genere, Dc e Pci sono sempre stati solidali nella rimozione. Non è cambiato molto, però il partito che ne ha raccolto i rimasugli ha un vicepresidente gay. Una foglia di fico, nemmeno grossa il necessario.
sabato 14 luglio 2012
Ma Avvenire ci prova
Con la sentenza n. 151 del 1° aprile 2009 la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la legge n. 40 del 19 febbraio 2004 ai punti in cui essa imponeva il limite alla produzione di embrioni in numero non superiore a tre e il loro impianto in soluzione unica e da realizzare immediatamente, così attenuando, anche se di poco, gli effetti della legge più crudele e più cretina scritta da questo Parlamento. Di poco, ma non pochissimo, perché i bambini nati grazie alla fecondazione medicalmente assistita dopo la sentenza della Corte Costituzionale sono stati 294 in più.
Si tratta di 294 bambini che da grandi potranno recuperare il numero di Avvenire di venerdì 13 luglio 2012 per leggere : «Nei 357 centri che praticano la fecondazione artificiale il numero degli embrioni prodotti e poi congelati è esploso passando in due anni da 763 a 16.280, gli embrioni tolti dal ghiaccio per ottenere una gravidanza sono cresciuti con quasi altrettanta rapidità (da 1.255 a 8.779), ma questi incrementi vertiginosi non si riscontrano poi nel numero di “bimbi in braccio”, certamente aumentati (da 10.212 a 12.506), ma di certo non con la progressione spaventosa dell’andirivieni di vite umane dentro e fuori dai freezer».
Non avranno da sforzarsi troppo per capire che non dovrebbero essere al mondo: in ossequio alla logica che lamenta la sorte degli embrioni non impiantati, non dovevano nascere. Infatti, «per ottenere un bambino [grazie alle tecniche di fecondazione assistita] occorre creare [sic!] una media di dieci embrioni, un costo biologico ed umano intollerabile».
Meglio rinunciare al bambino, dunque? Sì, non vale nove embrioni. Difficile farlo capire al bambino, soprattutto quando sarà diventato adulto. Ma Avvenire ci prova.
Meglio rinunciare al bambino, dunque? Sì, non vale nove embrioni. Difficile farlo capire al bambino, soprattutto quando sarà diventato adulto. Ma Avvenire ci prova.
giovedì 12 luglio 2012
[...]
Una volta tanto si può sottoscrivere ciò che si legge su Avvenire: «Se il senso della detenzione e della pena è di tendere alla rieducazione del condannato, allora l’ergastolo è una contraddizione in termini». Molto bene, ma quel «fine pena mai» non è a ricalco dell’eterno espiare all’inferno?
La voce del padrone
Nell’estate del 1976 scoppiarono violente rivolte in molte carceri italiane per le drammatiche condizioni di invivibilità cui versavano i detenuti. La risposta dei radicali fu immediata: sciopero della fame ad oltranza. Chiedevano un’amnistia, penserete. No, chiedevano un aumento dell’organico degli agenti di custodia. Lo sciopero della fame durò 73 giorni e s’interruppe solo alla promessa del Presidente del Consiglio, che a quei tempi era Giulio Andreotti, di interessarsi della questione nel giro di pochi mesi.
Non accadde e il problema rimase senza soluzione, per riaggravarsi ancora di lì a poco, sicché nel 1978 si decise un’amnistia in favore di alcuni reati: soluzione emergenziale, in linea con la filosofia del far tutto male, in fretta e solo quando costretti.
Ai radicali sembrò una soluzione insufficiente: «Questo disegno di legge è un atto borbonico di clemenza. Non un provvedimento di ordine pubblico per l’efficienza della giustizia. Non libera i giudici della valanga di processi minori, per consentire loro di celebrare subito, senz’alibi, quelle migliaia di processi gravi e importanti. Serve a liberare, ma neppure subito solo le Preture» (Notizie Radicali, 28.7.1978).
Quando poi, nel 1981, si votò in Parlamento una legge delega per l’amnistia e l’indulto (favorevoli DC, Psi, Psdi e Pri, astenuti Pci, Msi e Indipendenti di Sinistra), i radicali votarono contro (insieme al Pli). Il deputato radicale Gianfranco Spadaccia ne spiegò le ragioni a Radio Radicale in questo modo: «Abbiamo votato contro per due motivi. Primo, perché quest’amnistia nasce da uno stato di necessità e noi non ci sentiamo corresponsabili di questo stato di necessità che si è determinato, perché siamo stati gli unici ad indicare una linea di politica alternativa nel campo della giustizia e del diritto. In secondo luogo, riteniamo l’amnistia insufficiente anche a risolvere questo stato di necessità. In fondo, questa volta l’amnistia è stata presentata senza ipocrisie: si è detto che le carceri erano troppo affollate e l’arretrato giudiziario si è enormemente accumulato, per cui era necessario sfollare le carceri ed eliminare un notevole numero di procedimenti giudiziari. Noi consideriamo restrittiva questa impostazione, perché nel 1978 noi abbiamo avuto un’altra amnistia e abbiamo avuto liberati 6-7.000 detenuti ed abbiamo avuto un decongestionamento che non è durato più di un anno: un anno dopo l’affollamento era tornato ai livelli precedenti alla concessione dell’amnistia. Ma il vero motivo per cui siamo contrari è perché l’amnistia non corregge le cause che determinano l’affollamento delle carceri… Noi chiediamo la depenalizzazione di alcuni reati, l’abolizione della carcerazione in attesa di giudizio, la riforma degli agenti di custodia, l’attuazione piena della riforma carceraria, la riforma del codice di procedura penale, investimenti per il potenziamento delle strutture carcerarie e via di seguito…» (Radio Radicale, 14.11.1981).
Analoga posizione in occasione dell’amnistia per reati punibili fino a un massimo di 4 anni che ci fu nel 1990. In Commissione Giustizia era passato un emendamento che estendeva il provvedimento di clemenza in favore dei reati connessi alla detenzione e all’uso delle cosiddette droghe leggere. Il radicale Mauro Mellini, che pure aveva votato a favore, spiegava che «non è l’inclusione o l’esclusione di alcuni reati a risolvere la questione» (Radio Radicale, 10.1.1990): senza la depenalizzazione di quei reati, il problema era destinato a riproporsi…
Sfogliando queste pagine di storia radicale, ritrovo le mie posizioni, peraltro espresse in più occasioni su queste pagine, e fin dal giugno dello scorso anno: «Senza una riforma della giustizia che elimini la vergogna della detenzione preventiva e stabilisca pene alternative alla carcerazione per i reati meno gravi – ho scritto – e senza la depenalizzazione dei reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti, senza politiche che invertano la rotta sui problemi posti dall’immigrazione, un’amnistia servirebbe solo a rimandare la soluzione del problema, che probabilmente si riproporrebbe in dimensioni analoghe, e in breve tempo».
Continuo a pensarla così e penso che col concentrare tutte le energie sulla richiesta di amnistia, fino ad allucinarla come «soluzione strutturale» dei problemi della giustizia in Italia, Marco Pannella e i suoi seguaci stiano dando ulteriore prova, se ce n’era bisogno, che la logica radicale ha subìto una mutazione che la snatura in sterile cocciutaggine, consegnando i loro sbattimenti all’irrilevanza.
Non è accaduto d’improvviso, ma per avvitamento, nella convinzione che all’amnistia si possa arrivare solo mascherando la sua valenza emergenziale in questione di principio, centrale, a dispetto di quel sano pragmatismo che è il pilastro del metodo riformatore liberale.
L’amnistia non sarebbe affatto la soluzione definitiva dell’annoso problema carcerario italiano, ma ormai i radicali si sono giocati ogni possibilità di proporla come provvedimento d’urgenza e gli ultimi passaggi della loro azione politica segnano un’involuzione che non potrà avere altra lisi che nell’abbandono di questa iniziativa per un’altra ancora più disperata, in quell’ossessivo gioco al rilancio che è la sola arma di chi non ha niente da perdere perché ha già perso tutto. E il tragicomico arriva a quattro giorni di digiuno e di silenzio.
Ovviamente non può limitarsi a stare zitto solo lui, ci mancherebbe altro: dovrà tacere anche Radio Radicale, che quando si tratta di incassare denaro pubblico è «la radio del Parlamento e di tutti i partiti, dei congressi e dei dibattiti, il microfono nei tribunali e nelle vostre case», ma di fatto è il suo megafono personale: se lui tace, deve restare spento. Oh, naturalmente non si tratta di un diktat, la sospensione delle trasmissioni sarà proposta al direttore dell’emittente, il dottor Paolo Martini, al quale sarà dato modo di decidere in piena autonomia, ma sarà il caso che autonomamente decida di chiudere i microfoni, sennò – è notorio – lo aspettano cazzi amari. «L’unica radio senza filtri, senza mediazioni, senza veline», recita lo spot, ma mica è detto che non abbia un padrone: «in una voce – la sua – tutte le voci».
martedì 10 luglio 2012
[...]
Il Festival di Spoleto ha smesso ormai da tempo di essere la splendida rassegna di musica, arte, cultura e spettacolo ideata da Gian Carlo Menotti nel 1958, ma quest’anno, giunto alla sua 55ª edizione, ha toccato il fondo con un programma che includeva un ciclo di prediche sui sette vizi capitali tenute da Rino Fisichella, Vincenzo Paglia, Enzo Bianchi, Gianfranco Ravasi… Probabilmente si voleva cogliere la cifra dei tempi nel cosiddetto «ritorno del sacro», ma per rappresentarla non si è trovato niente di meglio che una passerella di chierici da salotto coi loro scialbi fervorini.
sabato 7 luglio 2012
venerdì 6 luglio 2012
Corrispondenze
Caro ***, alcuni mesi fa, davanti a un piatto di strangozzi al cartoccio, Giovanni Fontana mi ha rivelato che Luca Sofri si sentiva trollato dai rilievi critici che di tanto in tanto gli andavo muovendo da queste pagine (9 post sugli oltre 12.000 degli 8 anni di Malvino). Sono rimasto a bocca aperta, con la forchetta a mezz’aria. Giovanni avrà pensato che la cosa mi avesse gravemente offeso, almeno questa è l’impressione che mi ha dato nel suo affannarsi a minimizzare. In realtà, era caduto il velo dietro il quale Luca Sofri mi era sempre sembrato uno spocchioso stronzetto: l’ho visto nudo, un poveraccio. Giacché la pena è sorella del disprezzo, credo di esser riuscito a balbettare solo qualcosa del tipo: «Digli di star tranquillo, non scriverò più un rigo che lo riguardi». Intendo mantenere la promessa ed è per questo che ti prego di scusarmi, ma non farò alcun commento all’articolo che mi hai segnalato. Ti abbraccio,
L.
giovedì 5 luglio 2012
Coda
Avvenire riprende l’intervista che
l’altrieri
il cardinale Angelo Amato ha rilasciato a L’Osservatore Romano e che ho commentato nel post qui sotto. Accanto, per dar forza alle affermazioni di Sua Eminenza («la mafia è intrinsecamente anticristiana», «don Pino Puglisi è stato ucciso in quanto sacerdote»), la notizia del «primo caso in cui la Chiesa vieta la celebrazione dei funerali per un boss di mafia».
Si trattava di Giuseppe Lo Mascolo, deceduto in carcere pochi giorni dopo l’arresto che gli inquirenti avevano disposto ritenendolo un esponente di spiccolo della cosca di Siculiana (Ag). Mafioso solo nell’imputazione, dunque, e in attesa del processo: tanto è bastato, tuttavia, a negargli i funerali religiosi concessi, non più di due settimane fa, a Gennaro Sortino, potente boss mafioso agrigentino dalla fedina penale più lunga di un romanzo. È che il Sortino era morto prima della beatificazione di don Puglisi, il Lo Mascolo dopo, a conferma che la scoperta della natura «intrinsecamente anticristiana» della mafia è assai recente, direi contestuale alla beatificazione di don Puglisi.
Se però la mafia è «intrinsecamente anticristiana», che senso dare alla decisione di monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, di «non tenere la celebrazione eucaristica ma la semplice Liturgia della Parola»? In altri termini: che senso ha pregare cristianamente sul cadavere di un tizio intrinsecamente anticristiano?
Si trattava di Giuseppe Lo Mascolo, deceduto in carcere pochi giorni dopo l’arresto che gli inquirenti avevano disposto ritenendolo un esponente di spiccolo della cosca di Siculiana (Ag). Mafioso solo nell’imputazione, dunque, e in attesa del processo: tanto è bastato, tuttavia, a negargli i funerali religiosi concessi, non più di due settimane fa, a Gennaro Sortino, potente boss mafioso agrigentino dalla fedina penale più lunga di un romanzo. È che il Sortino era morto prima della beatificazione di don Puglisi, il Lo Mascolo dopo, a conferma che la scoperta della natura «intrinsecamente anticristiana» della mafia è assai recente, direi contestuale alla beatificazione di don Puglisi.
Se però la mafia è «intrinsecamente anticristiana», che senso dare alla decisione di monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, di «non tenere la celebrazione eucaristica ma la semplice Liturgia della Parola»? In altri termini: che senso ha pregare cristianamente sul cadavere di un tizio intrinsecamente anticristiano?
Per secoli, da secoli
Ne ho già parlato alcuni giorni fa, ma sarà il caso di tornare sulla beatificazione di don Pino Puglisi, che un decreto della Congregazione delle Cause dei Santi ha di recente dichiarato martire «in odium fidei». Ho scritto che si tratta di una mistificazione: «Non è stato ucciso perché era un prete, ma nonostante il fatto che lo fosse». Il cardinale Angelo Amato, invece, afferma: «È stato ucciso in quanto sacerdote, non perché immerso in attività socio-politiche particolari. Ucciso in quanto predicava la dottrina cristiana ed educava i giovani a vivere con coerenza il loro battesimo. Non per altro. Non andava contro nessuno» (L’Osservatore Romano, 3.7.2012).
Ripeto: non regge. I preti uccisi dalla mafia si conterebbero a dozzine o dobbiamo ritenere che quelli che la mafia non uccide siano preti che vengono meno al dovere di predicare la dottrina cristiana? Ribadisco: proclamare don Puglisi beato perché martire
«in odium fidei» è un ignobile mezzuccio per ascrivere al suo ministero quelle virtù civili che abbiamo visto esaltate nell’esempio di tanti laici – politici, sindacalisti, magistrati, giornalisti, ecc. – che si sono spesi nella lotta alla mafia a prezzo della loro vita.
E non regge neanche la definizione che Sua Eminenza dà dei mafiosi, che «apparentemente – afferma – sembrano molto devoti», mentre invece fanno parte di «un’organizzazione che, più che “religiosa”, è essenzialmente “idolatrica”». Così fosse, perché non si ha traccia di un solo decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede che condanni l’errore? Se «la mafia è intrinsecamente anticristiana», come afferma Sua Eminenza, perché sono rarissime, e tutte assai recenti, le condanne della Chiesa? Perché, al contrario, tante contiguità tra basso ed alto clero con ogni segmento del fenomeno mafioso, per secoli, da secoli?
martedì 3 luglio 2012
Ingroia si va preparando a una discesa in campo?
Viene il sospetto che la trattativa Stato-Mafia sia destinata a rimanere ipotesi. Pare che Antonio Ingroia non riesca proprio a trovare argomenti che possano reggere in dibattimento. Si direbbe che manchi della scorza di Henry John Woodcock, il quale è proprio in dibattimento che ama saggiare la solidità delle sue ipotesi, tanto poi che gliene fotte se si rivelano fragili. Ingroia, no. Ingroia vorrebbe avere prove toste, non ne trova e si lamenta.
Questa è la sensazione che si ricava da un suo lungo intervento ospitato dal blog di Beppe Grillo, nel quale il più estroverso pm della Procura di Palermo denuncia i silenzi che gli impedirebbero di dare corpo al suo teorema. Fa nomi? No, si limita ad allusioni, peraltro assai generiche. In un passaggio, per esempio, denuncia «reticenze, a volte anche istituzionali», ma non aggiunge altro, come trattenuto da una reticenza.
Non si capisce bene cosa voglia, Ingroia, non si capisce bene con chi ce l’abbia. Non fosse il magistrato scrupoloso che tutti ammirano, si direbbe che parli a vanvera come un politico, anzi, come un magistrato che stia meditando di lasciare la magistratura per darsi alla politica. D’altronde non sarebbe il primo.
Raccogliere prove per muovere un’accusa
che in tribunale risulti fondata e degna di condanna, si sa, è compito gravoso che impone enormi sacrifici, in paziente studio e tacito raccoglimento. Da politico, invece, ci si può lasciare andare a insinuazioni oblique, a denunce ardite, a truci invettive, senza avere pressoché alcun onere di dimostrare quello che si afferma, potendolo fare quasi sempre impunemente, anche quando si arriva alla calunnia, che in bocca a un politico suona sempre come libertà di opinione. Una pacchia, insomma.
Ingroia si va preparando a una discesa in campo? Troppo serio per farlo, dicevamo, ma i numeri ci sarebbero tutti.
«L’Italia è un paese di irresponsabili», dice, e chi non lo pensa? Ogni italiano ritiene di essere persona responsabile in mezzo a tanti irresponsabili. Insomma, la base elettorale potrebbe essere assai ampia.
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