giovedì 7 ottobre 2010

Questi semplici cittadini


“«Il condannato viene avvolto da capo a piedi in un sudario bianco ed interrato, la donna fino alle ascelle, l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre viene portato sul luogo e funzionari incaricati o semplici cittadini autorizzati effettuano la lapidazione…» [Il Fatto Quotidiano]. Ecco, questi «semplici cittadini» che fanno queste cose sarebbero da conoscere... Proprio i vicini di casa ideali...”

Massimo Bordin, Stampa & Regime (Radio Radicale, 5.10.2010)


Tiziano era etero



Non sapeva di essere gay, cioè, in fondo lo sapeva, e forse non solo in fondo, ma taceva a se stesso, figuriamoci se poteva parlarne con altri, e non sapeva se, né come, tanto meno perché. Poi, ritrova – in sequenza – coscienza, coraggio, serenità, pride. Mi pare lincontrario di Luca era gay.

Vergognarsi per


mercoledì 6 ottobre 2010

Ragioni grosse, medie e piccoline


Fra le ragioni che dovrebbero convincerci del fatto che il Premio Nobel a Robert Edwards sia un affronto a Dio e alla ragione possiamo distinguerne di grosse, di medie e di piccoline.
Le prime sono tutte in una: la fecondazione in vitro offende il disegno divino, e dunque è moralmente inaccettabile, sicché un alto riconoscimento pubblico a chi l’ha introdotta nella pratica clinica è doppia offesa contra Deum.
Le ragioni di medio peso, invece, sono relative all’offesa della tecnica contra personam: si sacrificano esseri umani, ancorché in embrione; si nega al nato il diritto di venire al mondo come Dio comanda (e solo se lo comanda); si producono aberranti sovvertimenti della fisiologia umana e del diritto naturale; e poi, a fronte degli impegnativi trattamenti clinici, la percentuale di successo della tecnica è bassa, con l’eventualità non trascurabile di strascichi fisici e psicologici, anche in caso di successo, e non solo per la donna. Celebrare l’uomo che ha reso possibile tutto questo è due volte offesa all’uomo.

Roba di un certo peso, fin qui. Più leggera è la materia delle ragioni piccoline, e due di esse meritano attenzione.
La prima è relativa al fatto che Edwards si sarebbe limitato ad applicare all’uomo una tecnica già in uso nell’allevamento animale. È un merito da Premio Nobel? E poi: non si mortifica la dignità umana trattando gli uomini come vacche o pecore? Ragione piccolina, e molto gracile: viene da quanti non hanno alcuna difficoltà a considerarsi gregge per affidare mente e corpo ad un pastore.
Quella più graziosa è la seconda: la fecondazione in vitro non guarisce dalla sterilità, ma la aggira, quindi è una falsa soluzione, probabilmente una truffa. In realtà, le lenti da vista non rimuovono le cause anatomiche che generano la miopia, ma si limitano a correggere il difetto del visus: l’oculista truffa il miope quando gliele prescrive? E in ogni caso: se non ho possibilità di correggere le cause anatomiche che generano la miopia, sono idiota a usare le lenti da vista?

Ottima giornata


Ieri è stata un bruttissima giornata per la Chiesa cattolica: il secolo ha accolto con genuino entusiasmo la notizia del premio Nobel a Robert Edwards, padre della fecondazione umana in vitro, una “pratica moralmente inaccettabile” (Catechismo, 2377) che ha consentito a milioni di donne sterili di avere il figlio che desideravano. Entusiasmo che la Chiesa cattolica ha sentito assai offensivo mostrando grande irritazione. E al secolo questa irritazione è parsa assai ingiusta, e anche un po’ odiosa. Ti mettono davanti a quattro milioni di bambini, tutti desideratissimi, che altrimenti non sarebbero mai nati: almeno in questa occasione, ficcati il magistero in culo e taci, no? Sì, figuriamoci se la Chiesa cattolica tace. Non può, è più forte di lei. Ottima giornata per i nemici della Chiesa cattolica, dunque: quando fa così, si fotte da sola.
Quando fa così, è bellissimo stare a guardarla. Io non riesco a far altro, nemmeno scriverne. 


martedì 5 ottobre 2010

TC


Umberto Veronesi interviene su un tema che ho trattato in diverse occasioni, “quello dei rischi e dei vantaggi del parto naturale rispetto al cesareo”, e scopro con piacere, perché ne ho grande stima, che le mie posizioni sono coincidenti alle sue.
Troppi tagli cesarei in Italia rispetto all’Europa e agli Stati Uniti? E allora cominciamo col dire che “la mortalità prenatale che si registra in Italia è la più bassa d’Europa ed è la metà di quella degli Stati Uniti”. Sarà solo casuale? Può darsi, fatto sta che “fino all’epoca in cui le ragazze partorivano il primo figlio intorno ai 20-25 anni, il cesareo era riservato ai casi più difficili ed era, in un certo senso, una extrema ratio. Oggi, invece, le donne hanno il primo figlio fra i 30 e i 40 anni e le difficoltà legate all’invecchiamento aumentano i rischi del primo parto, per la mamma e per il bambino”: il cesareo si offre come “soluzione semplice, rapida e sicura” e Veronesi crede sia sbagliato “demonizzarla come invasione nel corpo delle donne”. È quello che ho sempre sostenuto anch’io e una volta ho dovuto farlo in polemica con una testa di cazzo che si spingeva addirittura a equiparare il cesareo a una “mutilazione genitale femminile”.
Anche sul punto che per Veronesi attiene solo all’analgesia, e che per me è più in generale una questione di libera scelta da lasciare la donna, trovo forti analogie: per lui, “il cesareo va nella direzione dell’abolizione del principio che la donna debba «partorire con dolore»”, sicché si può preferirlo quando non si possa far ricorso “alle metodiche per il parto indolore come l’anestesia epidurale”; per me, il dolore fisico non è tutto e, se una donna vuole un cesareo al posto di un parto indolore con l’epidurale, fosse solo per non vedersi sforbiciare la vagina con una episiotomia, non vedo perché si debba dirle no. In realtà, non riesco a capire come si possa.


lunedì 4 ottobre 2010

Imbrogliare vien da sé



Giuliano Ferrara non dà alcuna spiegazione del «perché la destra [sia] repellente e la sinistra [sia] tanto carina», si limita a lamentarlo. Cominciamo subito col dire, dunque, che questo editoriale nasce storto fin dal titolo, che manca di un onesto punto interrogativo.
Sarà vero, poi, che la destra sia fra «le cose insopportabili al gusto del mondo» e la sinistra goda di «simpatia universale»? Un tempo, forse. Se così fu in passato, non è la sinistra, oggi, a sentirsi «antipatica» (Luca Ricolfi, Longanesi 2005) e a interrogarsi sulle ragioni? Ed è corretto dire, poi, che «la destra in ogni campo soffre di una forma di disprezzo pubblico»? Riesce a creare aree di fidelizzazione sempre più consistenti intorno ai suoi leader e ai suoi valori, uscendo spesso vittoriosa dalle urne e dettando l’agenda politica e culturale di mezza Europa, riuscendo sempre più spesso a riscrivere la storia come le fa comodo e a trasformare molta democrazia in democratura. Come si spiegherebbero tutti questi successi?

Non è bello contraddire Ferrara, perché gli salgono gli zuccheri. Dice che la sinistra fa ancora «mainstream»? Annuite in silenzio. Dice che l’«omologazione liberaldemocratica del mondo» incoraggia ogni sorta di «bastonatura» ai «cultori severi dell’ermeneutica della continuità»? Tacete: anche se è proprio la liberaldemocrazia a sembrarvi sempre più spesso bastonata dalla destra economica, da quella religiosa, da quella culturale e da quella politica, nessuno lo contraddica. Eventualmente chiedetegli perché. 
Sarà mica dovuto ai «danni storici che le destre del Novecento hanno arrecato all’umanità e alla pace»? Macché, «il XXI è un tempo che viene dopo, post per definizione», e solo chi è rimasto intrappolato nel secolo passato potrebbe pensare a fascismo e a nazismo quando sente parlare di destra. Non deve essere quello, il motivo.

E allora «perché la destra è repellente e la sinistra è tanto carina»? Ferrara non lo dice, ma si capisce che può trattarsi solo di un ottuso pregiudizio, roba di pancia, volgare conformismo. E infatti «tutti sanno [leggasi: dovrebbero sapere] che le migliori idee dopo il New Deal sono venute dalla destra liberista e libertaria, che si tratti di tasse, libero commercio, promozione dei consumi, analisi sociale, filosofia dell’autonomia individuale, della responsabilità e della libertà del cittadino».
Tutto è chiaro, adesso: parliamo della cosiddetta destra liberale americana, degli anarco-capitalisti, dei libertarians. E dunque non è la destra che è di casa sulle pagine de Il Foglio, che è destra clericofascista, niente affatto libertaria e sempre meno liberista, una destra da cattodandies ai quali piace alzare il gomito e, quello che è peggio, la voce; non è nemmeno la destra alla qualche Silvio Berlusconi ha tolto il tappo, che è xenofoba e razzista, omofoba e sessista, e in fondo, ma neanche troppo in fondo, reazionaria, classista e statalista; è tutta un’altra roba, in senso stretto non è nemmeno destra.

È stato un brutto week end per Ferrara: Berlusconi ne ha sparata una più repellente dell’altra, difenderlo era praticamente impossibile e il vittimismo gli sarà sembrato un buon diversivo. Imbrogliare vien da sé.


[...]


“Renato Mannheimer fece un mostruoso lavoro e selezionò sessanta ragazzi con un rigoroso lavoro statistico: venti avevano votato a destra, venti a sinistra, venti si erano astenuti” *


domenica 3 ottobre 2010

Ci tocca perdonanza



Pare non abbia altro Dio che sé stesso, desidera la roba d’altri e se la piglia, lavora pure la domenica, fornica anzichenò, quando non può permettersi una falsa testimonianza la compra e adesso nomina pure il nome di Dio invano, insomma, l’ometto è peccatore. Certo, bisogna contestualizzare i suoi peccati, come raccomanda il Fisichella: prende l’eucaristia da divorziato, sì, ma dopo che s’è separato dalla seconda moglie; bestemmia, ma solo quando racconta barzellette; si pulisce il culo col Catechismo, ma sgancia soldi al Vaticano; non è un santo, certo, ma lo ammette; ha un debole per zoccole, indubbiamente, ma ha sistemato pure un sacco di ciellini. Contestualizzare, prima di impancarsi a giudici e pretendere di insegnare la morale alla Chiesa.
Se Fisichella è l’occhio chiuso, c’è l’occhio aperto che vede e richiama a “un più alto dovere di sobrietà e di rispetto” (Avvenire, 2.10.2010), che s’intuisce imponga pubblica perdonanza, previo pentimento e riparazione: cerca di tenere al guinzaglio la lingua e la nerchia, figliolo, comunque ego te absolvo, e facciamo dieci Pater, dieci Ave, un po’ di soldi alle nostre scuole, due o tre leggine su altrettanti valori non negoziabili e un bacio all’anello.
E dunque i suoi peccati ricadranno su di noi, lo schema è noto. M’inculi Boffo? Ego te absolvo, facciamo dieci Pater, dieci Ave, crocifisso obbligatorio a scuola e ostruzionismo del Ministero della Salute all’impiego della Ru486. Saremo costretti a essere intubati e a vegetare anche se non vogliamo, perché lui è andato a puttane. Ha bestemmiato pubblicamente ma adesso è intenzionato a dimostrare che è pentito, quindi i gay saranno legalmente equiparati a malati, e i conviventi a lussioriosi in regime di concubinaggio. Pagheremo per i suoi peccati.
D’altra parte, fare un po’ di leggi gradite al Vaticano potrebbe sciogliere ghiaccio con Casini e spaccare i finiani perché mica tutti sono laicisti come il capo. Perdonanza, ci tocca perdonanza. Ci farà bene all’anima e farà bene anche alla politica. Ma che cazzo volete di più?

Papismi vecchi e nuovi


Scrivendo di Tommaso Moro (The Fame of Blessed Thomas More), Gilbert Keith Chesterton afferma: “Vide chiaramente che Roma e la Ragione sono una cosa sola [e] che libertà e cultura hanno speranza di sopravvivere solo se sarà conservata l’unità romana dell’Europa e l’antica fedeltà cristiana”. Voglio partire da qui per una chiacchierata larga, solo divagante, intorno alla figura del santo che la Chiesa vuole esemplare politico cattolico.
Cominciamo col dire che la sua Utopia entrò subito nell’Index Librorum Prohibitorum dell’Inquisizione spagnola e che, anche se i martiri hanno una corsia preferenziale verso la canonizzazione, per essere proclamato santo ci vollero quattro secoli. Possiamo dire – vediamo se non è troppo azzardato – che il modello di politico offerto da Moro diventa esemplare solo con i totalitarismi del XX secolo, in ogni caso solo dopo la Chiesa ha inaugurato il suo magistero sociale (fatto santo da Pio XI, Moro è beato sotto il Leone XIII della Rerum novarum), e che prima di perdere il potere temporale, insomma, la Chiesa non ha mai avuto bisogno di un santo protettore dei politici e dei governanti.
La ragione è sempre in Chesterton: [Moro] seppe distinguere fin dall’inizio [nel 1535] ciò che tanti solo ora [nel 1928] incominciano a scorgere alla fine”, e cioè che, se Roma non rimane fonte di verità e vertice di autorità, il cristianesimo ha perso l’Europa e l’Europa ha perso il mondo. Il politico cattolico è tenuto a testimoniare il primato di Roma nella provincia in cui opera, possibilmente fino alla morte: il prezzo della fedeltà è il suo sangue e il fine ultimo è confermare la centralità morale e sociale di Roma. Il politico cattolico deve considerarsi agente del Papa – e infatti è con Tommaso Moro che si inaugura il termine papista – ma, fino a quando il Papa ha il potere temporale, rimanere fedele a Roma significa tradire Londra: l’agente di Roma non è più traditore di Londra agli occhi del secolo solo dopo che il Papa ha perso lo Stato Pontificio, e solo nel 1886 si pensa a farlo beato.
Cosa era, prima di essere beato? Una settantina di anni dopo il suo martirio, il cardinal Roberto Bellarmino scrive che morì per essere fedele al “primato della Sede Apostolica”, che definisce “unico e importantissimo articolo di fede”, “a maggior gloria della nazione inglese” (Lettera a George Blackwell, 29.9.1607): prima di essere beato, quando la Sede Apostolica era ancora (e insieme) concetto teologico e politico, Moro era solo il difensore del paradigma teologico-politico fissato da Gelasio I nella sua Lettera all’imperatore Anastasio: “Nessuno mai entro un qualsiasi piano puramente umano può elevarsi al privilegio e alla professione di fede di colui che la parola di Cristo ha preposto a tutti, e che la veneranda Chiesa sempre ha riconosciuto e devotamente ha come primate”. Nessuno sopra il Papa, in qualsivoglia campo umano, morale e sociale: Tommaso Moro pretendeva che Enrico VIII se ne convincesse e, dopo aver constatato che era impossibile convincerlo, chiese che valesse almeno per sé solo, ma qui si pose un conflitto di fedeltà.
La coscienza, maledetta bestia! O la lasci padrona di sé stessa, e allora chissà dove ti porta, anche alla rovina; o la affidi ad una autorità, ma lì devi decidere quale.

[continua]


sabato 2 ottobre 2010

Piani



Sfugge anche all’ottimo Enrico Maria Porro il refuso nella didascalia a pag. 9 de la Repubblica di oggi, nella quale il 4° piano del civico 19 di via Monte di Pietà è indicato come 5°, e il 3° piano come 4° (le frecce bianche numerate che vi ho aggiunto stanno a correzione). Errata anche la posizione dell’omino che spara (l’uomo della scorta di Belpietro), che dovrebbe essere al piano superiore, e sulla rampa superiore delle scale tra 5° e 4°, almeno secondo la descrizione degli eventi data ufficialmente (in basso a sinistra). Se la didascalia voleva chiarire, finisce solo per confondere.



Sembra un ossario



Il salone multifunzionale al terzo piano del civico 76 di Via di Torre Argentina è stato appena riverniciato e il presidente del Comitato nazionale di Radicali italiani prega vivamente di non fumare e – mirabile auditu!“vale anche per te, Marco”.
È l’unico momento degno di interesse in questa prima giornata dell’ennesimo Comitato nazionale di Radicali italiani, e cade nei primi minuti; poi, per le restante cinque ore, è una gran noia (anche Nicolino Tosoni e Giuseppe Di Leo, che di solito mi fanno pisciare dal ridere, sono in cattiva giornata, opachi e fiacchi). Sembra un ossario.
Il trend è univoco da oltre un anno: le riunioni degli organi dirigenti radicali sono sempre più pallose e vuote, e giuro che metto più attenzione adesso che quando vi partecipavo. Non si dice niente, ma mettendovi gran cura, soprattutto nel dirlo con la giusta disinvoltura. Sarà stato così anche prima e – semplicemente – non me ne accorgevo? Può darsi, però mi pareva si confrontassero idee. Ma sarà stato per mancanza di attenzione.

venerdì 1 ottobre 2010

Ma come ce l'ha duro, madama-la-signora!



Il Foglio andrà per il 15, per il 38 o addirittura per il 53% alla Marina. Questo vuol dire che il faldone in cui collezioniamo gli svenevoli e/o ampollosi panegirici che Giuliano Ferrara dedica al potente di turno (al Cav., a Bush, a BXVI, ecc.), sempre maschio, si arricchirà probabilmente di un nuovo genere di lode, e il Ruffiano di Anticamera virerà i toni cazzuti della celebrazione epica in quelli più morbidi ma ardenti del cicibeismo infiocchettato.


L'Antipatico



Qualche stronzo va dicendo in giro che, giusto per farlo contento, meritasse almeno di cagarsi un poco addosso.


6.874.842.034


Due minuti fa eravamo 6.874.831.153 e adesso siamo 6.874.831.603, ma non faccio in tempo a scriverlo che siamo già 6.874.831.655 e, insomma, non si può dire che il “moltiplicatevi” (Gen 1, 28) sia disatteso, e almeno in questo possiamo vantare d’essere obbedienti a Dio. Certo, qui ci si moltiplica di meno e lì di più, ma siamo tutti suoi figli: è la somma che fa il totale e ai suoi occhi non dovrebbe far la stessa differenza che ieri impensieriva Oswald Spengler e oggi il direttore generale dell’Inps. E tuttavia dal Consiglio delle Conferenze episcopa­li europee, che in questi giorni è riunito a Zagabria, si leva un preoccupato monito sull’Untergang dell’Abendland. La crisi demografica europea rivela nei vescovi d’Europa un’ansia da responsabili di enti previdenziali. Alto il morale, graziosissime eccellenze, ché mentre buttavo giù queste due righe, italiani o no, europei o no, siamo arrivati a 6.874.842.034.

La rete (1973)



Art. 8


Su cosa debba intendersi per libertà religiosa non c’è unanimità di pareri, ma si conviene che “tutte le confessioni religiose sono essere ugualmente libere davanti alla legge”. Anche la nostra Costituzione si esprime in tal senso (il virgolettato, infatti, è al 1° capoverso dell’art. 8), ma lo fa subito dopo aver dichiarato che quella cattolica è più libera delle altre, in virtù dei Patti Lateranensi (2° capoverso dell’art. 7), e subito prima di tentare un correttivo contemplando la possibilità di intese con le rappresentanze delle confessioni religiose diverse dalla cattolica (3° capoverso dell’art. 8).
Questo correttivo implica, allo stesso tempo, la negazione del principio dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose e il suo superamento o, come dice Giuseppe Della Torre (Avvenire, 30.9.2010), “mette insieme ciò che parrebbe impossibile conciliare: l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose, con la possibilità per ognuna, attraverso singoli accordi con lo Stato, di ottenere un regime giuridico rispettoso della propria identità”.

Nessuna contraddizione per l’editorialista del giornale dei vescovi: “Trattare allo stesso modo situazioni diverse è altrettanto lesivo della eguaglianza, del trattare in maniera diversa situazioni eguali”. Sembrerebbe un richiamo al 2° capoverso dell’art. 3 della Costituzione, che affida allo Stato il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini, ma qui è invocato per legittimare un sistema di intese particolari che sono diverse da caso a caso.
Non è tutto, perché per il Della Torre una confessione religiosa può essere libera anche senza arrivare ad una intesa, e ugualmente libera. È il caso dell’islam: “È necessaria la firma di una intesa? E se no, è almeno da considerare opportuna? Diciamo subito che quello delle intese è il regime che la Costituzione contempla come ordinario per regolare i rapporti dello Stato con le confessioni religiose: ma non è l’unico possibile. Una confessione può preferire il non ricorso all’accordo con lo Stato; questo, d’altra parte, può non ritenere possibile – almeno per un certo tempo – aprire negoziati con i rappresentanti di una determinata confessione, ad esempio per conoscerne meglio la realtà interna”.

Inimmaginabile nel caso dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica: qui l’intesa deve essere privilegiata in forma di Concordato e la conoscenza della realtà interna deve essere considerata superflua per non risultare offensiva. Non così con l’islam: “Nel suo patrimonio religioso e culturale vi sono elementi in contrasto con i valori ed i principi racchiusi nella Carta costituzionale, i quali costituiscono il fondamento e la ragione stessa del nostro vivere assieme”.
Principi che renderebbero ragione della necessità dei Patti Lateranensi, ma consentirebbero di definire non opportuna una intesa con la comunità musulmana, tanto meno necessaria: paradossalmente è la diseguaglianza di trattamento che produce eguaglianza di diritti, almeno per il Della Torre.

giovedì 30 settembre 2010

La prevalenza del prete nello storico


La guerra ispano-americana (1898) durò meno di quattro mesi, né di qua né di là causò molte perdite umane (meno di 12.000 in tutto), ma cambiò profondamente la storia di due nazioni: gli Usa guadagnarono il controllo di Cuba, Portorico e Filippine, abbandonando ogni isolazionismo, attirati nella storia mondiale come liberatori, cominciando dagli ultimi oppressi del residuo impero coloniale della vecchia Europa, individui intesi come sudditi di Stato e di Chiesa; per la Spagna fu la fine di un modello sociale che s’era costantemente fondato sull’alleanza tra Trono e Altare, da almeno cinque secoli. Solo marginalmente la sconfitta della Spagna fu sofferta dagli spagnoli come fine dell’impero e arretramento della missione evangelizzatrice, prevalse invece la messa in discussione del modello sociale, e l’alleanza tra latifondo e cattolicesimo risultò perdente. La sconfitta diede voce ai liberali e ai socialisti spagnoli che andarono a costituirsi in fronte avverso a Chiesa e a Monarchia: anticlericali e repubblicani cominciarono a chiedere riforme che per Chiesa e Monarchia avrebbero significato una consistente perdita di privilegi. Insomma, doveva scorrer sangue, doveva esserci guerra civile per fare un po’ di chiarezza.
Accadde che Chiesa e Monarchia decisero il pugno duro e diedero incarico al generale Miguel Primo de Rivera di fare pulizia di tutta quella teppa relativista, materialista, atea, ergo anticristiana, e al generale andò male, e re Alfonso XIII si esiliò, e alla Chiesa furono sottratti privilegi e beni, e vide luce la Repubblica di Spagna. Radicalmente laicista, anche parecchio massonica, infiltrata di bolscevichi. Preti e classi agiate armarono la plebe a loro fedele, chiesero un aiutino a Hitler a Mussolini, scelsero un caudillo e infine vinsero.
Francisco Franco tenne la Spagna sotto il tallone della sua dittatura per decenni, sempre benedetto da eminenti eminenze e sostenuto da cattolici a 24 carati.


Sarà la terza o quarta volta che don Vicente Cárcel Ortí, uno che fa lo storico per conto della Chiesa, torna sulla Guerra civile di Spagna con un suo articolo su L’Osservatore Romano e, certo, non sbraita come la signora nel video qui sopra, e però irrita lo stesso:
“Con la repubblica si ruppe questa armonia [armonia] plurisecolare e iniziò un gioco sottile, e persino violento, di seduzione e di rivalità fra il potere ecclesiastico e il regime repubblicano. Mentre l’antica monarchia aveva avuto bisogno di una certa sacralità per legittimare e giustificare le proprie ambizioni, e l’aveva trovata nella Chiesa, quest’ultima in numerose occasioni si lasciò tentare dall’idea [fu un peccatuccio] di porre la religione cattolica al centro della società e non esitò a concludere alleanze con il potere politico. In altre parole, l’Altare e il Trono, la Croce e la Spada si aiutarono reciprocamente per essere ognuno al centro della nazione. Tutto ciò provocò aspre lotte e conflitti, che si risolsero però senza grandi traumi [il regno dei cieli non è di questo mondo, dove un poco di ingiustia non guasta], malgrado alcune tensioni nel corso del XIX secolo che furono particolarmente violente e persino cruente [ecco, appunto]. Da un lato lo Stato cercò di sottomettere la Chiesa e dall’altro la Chiesa pretese di controllare il potere politico o di influenzarlo. La storia contemporanea della Spagna è piena di episodi significativi che rivelano la rivalità reciproca fra Chiesa e Stato, in cui le ambizioni degli ecclesiastici a volte suscitarono gesti di intolleranza e reazioni a catena e senza scrupoli [la Chiesa fu attratta dalla spirale della violenza, diciamo]. Questi conflitti spiegano la nascita e lo sviluppo dell’anticlericalismo, che affonda le proprie radici negli ultimi decenni del XVIII secolo e ha assunto caratteristiche più radicali alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, quando l’intransigenza della Chiesa è divenuta più accentuata e l’integralismo di molti sacerdoti e vescovi ha raggiunto il suo culmine. Il trionfo repubblicano del 1931 e lo scoppio rivoluzionario del 1936 furono i momenti culminanti dell’anticlericalismo spagnolo, nato, alimentato e preparato lentamente cento anni prima. La Spagna repubblicana serbò un ricordo tormentato di queste rivalità, il che spiega in molti casi le violenze dell’anticlericalismo [era un anticlericalismo che più lucidamente avrebbe potuto chiedere un clericalismo migliore]. [...] La repubblica non accettò una libertà religiosa generosa e rispettosa [si rifiutò di concedere il soldo e l’inchino]. E la libertà civile e politica che promosse e difese non ebbe fondamenta solide in quanto non riconobbe né riuscì a radicare la libertà religiosa dei suoi cittadini. Questo fu il gravissimo errore della repubblica, soprattutto durante la guerra civile nell’area ad essa fedele, poiché non solo vi fu una persecuzione cruenta contro la Chiesa, ma mancò anche quella libertà religiosa che è il fondamento di tutte le altre libertà […] e coincise con il decennio di maggiore apogeo del paganesimo nazista e del dogmatismo marxista”.
L’affibbiare errori non mi pare igienico da parte di uno storico, ma è che anche qui, come su tutto, in don Vicente prevale il prete.

Mavalà, mavalà


La massoneria non ha mai goduto di buona fama in Italia: condannata dal Papato 586 volte tra il 1738 e il 1983, accusata di cospirare ai danni degli interessi nazionali durante il ventennio fascista, disprezzata dalla cultura che per mezzo secolo è stata egemone in Italia per la critica marxista ai movimenti elitari borghesi, ha finito per ricevere il definitivo colpo di grazia presso l’opinione pubblica nostrana con la vicenda della P2, il comitato d’affari che Licio Gelli strutturò come clone di una loggia del Grande Oriente d’Italia, ma che di fatto la Commissione Anselmi giudicò roba assai poco massonica. Così diffamata, la massoneria non ha mai avuto vita facile da noi, né ha saputo rendersela meno difficile, perché ha finito per andarsi a nascondere nelle vuote ridondanze del simbolico e del rituale, progressivamente banalizzando i suoi principi ispiratori, che sono pur sempre pre-illuministici e pre-liberaldemocratici. Peccato, ma ben le sta.
E però smettiamola di dire cazzate: il mausoleo di Arcore sarà stato commissionato da un piduista, ma non è affatto vero che è pieno di simboli esoterici che rimandano alla tradizione massonica, perché si tratta di una pessima prova di quella architettura cosiddetta “metafisica” che infelicemente si ispirò alle composizioni di Giorgio De Chirico, che non era massone. Trovare analogie tra il tempio di Salomone, costruito dal primo Fratello Muratore, e la pianta del giardino del villone di Silvio Berlusconi – come Caterina Pericone fa su Il Fatto Quotidiano di martedì 28 settembre – è ridicolo.

mercoledì 29 settembre 2010