domenica 3 ottobre 2010

Papismi vecchi e nuovi


Scrivendo di Tommaso Moro (The Fame of Blessed Thomas More), Gilbert Keith Chesterton afferma: “Vide chiaramente che Roma e la Ragione sono una cosa sola [e] che libertà e cultura hanno speranza di sopravvivere solo se sarà conservata l’unità romana dell’Europa e l’antica fedeltà cristiana”. Voglio partire da qui per una chiacchierata larga, solo divagante, intorno alla figura del santo che la Chiesa vuole esemplare politico cattolico.
Cominciamo col dire che la sua Utopia entrò subito nell’Index Librorum Prohibitorum dell’Inquisizione spagnola e che, anche se i martiri hanno una corsia preferenziale verso la canonizzazione, per essere proclamato santo ci vollero quattro secoli. Possiamo dire – vediamo se non è troppo azzardato – che il modello di politico offerto da Moro diventa esemplare solo con i totalitarismi del XX secolo, in ogni caso solo dopo la Chiesa ha inaugurato il suo magistero sociale (fatto santo da Pio XI, Moro è beato sotto il Leone XIII della Rerum novarum), e che prima di perdere il potere temporale, insomma, la Chiesa non ha mai avuto bisogno di un santo protettore dei politici e dei governanti.
La ragione è sempre in Chesterton: [Moro] seppe distinguere fin dall’inizio [nel 1535] ciò che tanti solo ora [nel 1928] incominciano a scorgere alla fine”, e cioè che, se Roma non rimane fonte di verità e vertice di autorità, il cristianesimo ha perso l’Europa e l’Europa ha perso il mondo. Il politico cattolico è tenuto a testimoniare il primato di Roma nella provincia in cui opera, possibilmente fino alla morte: il prezzo della fedeltà è il suo sangue e il fine ultimo è confermare la centralità morale e sociale di Roma. Il politico cattolico deve considerarsi agente del Papa – e infatti è con Tommaso Moro che si inaugura il termine papista – ma, fino a quando il Papa ha il potere temporale, rimanere fedele a Roma significa tradire Londra: l’agente di Roma non è più traditore di Londra agli occhi del secolo solo dopo che il Papa ha perso lo Stato Pontificio, e solo nel 1886 si pensa a farlo beato.
Cosa era, prima di essere beato? Una settantina di anni dopo il suo martirio, il cardinal Roberto Bellarmino scrive che morì per essere fedele al “primato della Sede Apostolica”, che definisce “unico e importantissimo articolo di fede”, “a maggior gloria della nazione inglese” (Lettera a George Blackwell, 29.9.1607): prima di essere beato, quando la Sede Apostolica era ancora (e insieme) concetto teologico e politico, Moro era solo il difensore del paradigma teologico-politico fissato da Gelasio I nella sua Lettera all’imperatore Anastasio: “Nessuno mai entro un qualsiasi piano puramente umano può elevarsi al privilegio e alla professione di fede di colui che la parola di Cristo ha preposto a tutti, e che la veneranda Chiesa sempre ha riconosciuto e devotamente ha come primate”. Nessuno sopra il Papa, in qualsivoglia campo umano, morale e sociale: Tommaso Moro pretendeva che Enrico VIII se ne convincesse e, dopo aver constatato che era impossibile convincerlo, chiese che valesse almeno per sé solo, ma qui si pose un conflitto di fedeltà.
La coscienza, maledetta bestia! O la lasci padrona di sé stessa, e allora chissà dove ti porta, anche alla rovina; o la affidi ad una autorità, ma lì devi decidere quale.

[continua]


1 commento:

  1. l'ultima frase è molto bella. la c. può essere autenticamente padrona di sé stessa essendo il prodotto delle circostanze? per essere libera si dovrebbe presupporre che lo sia anche dai condizionamenti ...

    enrico non poteva che decollarlo, cosa che farebbe volentieri anche B. con F. se solo le circostanze, e non la coscienza, lo permettessero. anche per F. la coscienza è tutt'altro che libera da interessi (e autorità a cui si affida)

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