martedì 26 ottobre 2010

Update




“La principale ideologia di oggi”


Il Foglio dedica un paginone al repulisti che, nell’anno appena trascorso dal suo insediamento, monsignor Giampaolo Crepaldi ha fatto nella diocesi di Trieste, anzi, nel giornalino diocesano: ha cambiato il direttore e ha fatto levare la rubrica delle lettere che aveva ospitato opinioni non ortodosse. Sembra poco, quasi niente, ma adesso Claudio Magris non potrà più vedervi pubblicate le sue e-mail, e chissà quanto ne soffrirà, e ciò che fa soffrire Claudio Magris non può che far godere Il Foglio, e insomma il paginone era dovuto.
Al netto delle slinguazzate a Sua Eccellenza che arrivano all’involontaria ironia di un titolo che recita C’è dottrina a Trieste, l’articolone a firma di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (in due ci si controlla meglio, a vicenda) un pregio ce l’ha: riporta un brano della prima omelia di monsignor Crepaldi da vescovo di quella diocesi (4.10.2009), che è un potente attacco al riduzionismo (“la principale ideologia di oggi”).
“La persona viene ridotta ai suoi geni o ai suoi neuroni – lamenta Sua Eccellenza – l’amore è ridotto a chimica, la famiglia viene ridotta a un accordo, i diritti vengono ridotti a desideri, la democrazia viene ridotta a procedura, la religione viene ridotta a mito, la procreazione viene ridotta a produzione in laboratorio, il sapere viene ridotto a scienza e la scienza viene ridotta a esperimento, i valori morali vengono ridotti a scelte, le culture vengono ridotte a opinioni, la verità è ridotta a sensazione, l’autenticità viene ridotta a coerenza con la propria autoaffermazione”.
Qui il testo è interrotto da quei puntini sospensivi che sul giornale di Giuliano Ferrara sono un irresistibile invito al testo integrale, dove in questo caso si scopre che si è levato: “Sono tanti i riduzionisti del nostro tempo, che tolgono ossigeno alle nostre anime”. Duretto, senza dubbio, e però si è levato il meglio: i riduzionisti non si limitano all’errore, ma sono pericolosi. Non è dato sapere come possano asfissiare le anime dei non riduzionisti, Sua Eccellenza non lo dice, ma questo sarà un dettaglio, e perciò Il Foglio sorvola anche sul cenno. Rimane la curiosità: se riduzionisticamente concepisco la mia famiglia come una rete di accordi amorosi e non solo, e se i membri della mia famiglia accordano sugli accordi, chi asfissiamo?

lunedì 25 ottobre 2010

[...]




In modo più delicato


Ho lasciato il commento al Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente nel punto in cui L’Osservatore Romano tagliava dall’intervento del sunnita Muhammad al-Sammak, consigliere politico del Gran Mufti del Libano, un passaggio nel quale ai cristiani in Terra Santa era dato il merito di essere “in prima linea [col popolo palestinese, naturalmente] nell’affrontare e nel resistere all’occupazione [ebraica, naturalmente], a Gerusalemme in particolare e nella Palestina occupata in generale”. Più o meno ho scritto che con questa piccola attenzione di forbici il Vian si dimostrava assai premuroso nell’evitare al suo editore altri scazzi diplomatici con lo Stato di Israele.
In fondo si trattava solo di una frasetta, una superflua perifrasi che fa luogo comune nel lessico musulmano (moderato e no): non si sarà sentito nemmeno molto disonesto nel levarla, gli sarà sembrato di fare un po’ come quando all’ospite scappa una scoreggia, dove al padrone di casa corre l’obbligo di far finta di non averla sentita. Non ho voluto insistere, anzi, in cuor mio ho sentito grande tenerezza per quell’ipocrita. Poi sono stato preso da altro e ho accantonato il Sinodo per una settimana.
È dalla Lettura delle prime pagine (rubrica a cura di Lorenzo Rendi, su Radio Radicale) che nella notte tra venerdì e sabato apprendo di essermi perso molto: nella settimana i vescovi mediorientali avevano scacazzato un incredibile fuoco di batteria contro Israele, al punto che quel sabato Il Foglio sarebbe stato in edicola strillando: “Sinodo antisionista”, col direttore ad avere un appassionato fremito di ciccia: “Sinodo equivoco”.
Addirittura Il Foglio era in serio imbarazzo? Quando trovo tempo di leggere l’editoriale di Giuliano Ferrara, trovo lo stesso genere di premura usato da Vian, ma qui come se, dopo la scoreggia dell’ospite, al padrone di casa fosse occorso il cagarsi addosso. Chiedo scusa per l’eccesso di immagine, ma è che l’Elefantino – leggo – pensa bene di consolarsi con l’ampia citazione di un vescovo diverso da tutti quelli in kefia: un vescovo che sembra un Huntington inzuppato nella lectio di Ratisbona. Una fresca sferzata di islamofobia dovrebbe compensare l’antisionismo: la Chiesa mi diventa ricca di opinioni diverse, anche opposte, ma poi tutto è rimesso nelle mani del Papa.
Premura appesa a un filo di preoccupazione: sarà mica antisionista ed equivoco anche il Papa? “Evangelicamente e biblicamente Israele è un segno di contraddizione che contiene storicamente quel che l’ebraismo, «radice della fede cristiana» secondo Ratzinger, contiene in termini di teologia della storia: il genio religioso di Roma dovrebbe saperlo intercettare e riconoscere per tale, questo segno. La speranza è che le conclusioni del Sinodo, proceduralmente complesse, siano più prudenti e coraggiose del suo svolgimento”.

Bene, il Sinodo arriva a conclusione, ma per tirare le somme di tutto quello che s’è detto bisognerà aspettare. Il Sinodo, in realtà, non conta un beneamato cazzo: produce un documento che il Papa legge e può disattendere anche in toto, alla faccia della collegialità dell’apostolato episcopale, che è tutta nella forma dell’assise, sostanzialmente priva di ogni potere deliberativo (*). A deliberare sarà il Papa, che intanto chiude formalmente il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente con una bella messa in San Pietro. All’omelia, come la Barbara D’Urso fa prima del blocco pubblicitario annunciando il servizio che seguirà, Sua Santità annuncia: “La prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, nel 2012, sarà dedicata al tema «La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». In ogni tempo e in ogni luogo – anche oggi nel Medio Oriente – la Chiesa è presente e opera per accogliere ogni uomo e offrirgli in Cristo la pienezza della vita”.
Cari fratelli maggiori, in ogni tempo e in ogni luogo – anche lì da voi – essere ebrei non vi conviene, non vi dà pieno diritto di vivere: approfittate di questa nuova evangelizzazione, convertitevi, o almeno dateci il controllo di una porzione di Terra Santa, sennò ce lo facciamo dare dai palestinesi dopo che vi avranno rimandati in giro per il mondo, a fine occupazione. Ma detto in modo più delicato.


(*) A questo modello si ispirato anche il Pdl: “Il Presidente [Silvio Berlusconi], ove sussistano ragioni particolari di opportunità, a suo insindacabile giudizio e senza l’obbligo di motivare la decisione, non dare seguito alle indicazioni delle assemblee”.

Ettore Gotti Tedeschi e Rino Cammilleri - Denaro e Paradiso - (II ed.) Lindau 2010


Toni Negri vede nel comunismo un “progetto di amore” che ha il suo prototipo mitologico nella “leggenda di san Francesco d’Assisi” che “per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società” (Impero, Rizzoli 2002). Ammesso e non concesso che sia vero, e non è vero, bisognerebbe dedurre che i francescani abbiano da subito tradito il fondatore del loro ordine, almeno per come la vede Oreste Bazzichi (Alle radici del capitalismo, Effatà 2003; Dall’usura al giusto profitto, Effatà 2008): per lui è alla scuola teologica francescana che si deve la nascita del capitalismo, a cominciare da quel Tractatus de emptione et venditione, de contractibus usurariis et restitutionibus di fra’ Pierre de Jean-Olieu (Pietro Di Giovanni Olivi) che facendo un distinguo tra usura (sempre peccato) e giusto interesse (guadagno moralmente legittimo come ricompensa per il rischio d’impresa) avrebbe posto le basi per una giustificazione etica dell’accumulo del capitale.
È inutile andare più indietro del XIII secolo (fra’ Pierre muore nel 1298), troveremmo solo la condanna di ogni ricchezza in Mt 19, 23 (“difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli”), la tesi che Cristo non possedesse neanche la propria tunica e l’accumulo di beni mobili e immobili da parte della Chiesa, dalla primigenia usucapione del colle Vaticano fino alla falsa Donazione di Costantino.

Tema difficile, quello del rapporto tra cattolicesimo e capitalismo. Pensavamo di averlo risolto trovando lo spirito del capitalismo ne l’etica protestante (Max Weber, 1904), ma non è così.
Tutto è cristiano, no? Se il cristianesimo è positivamente (storicamente) guidato dallo Spirito Santo che mai lascerà Roma, come potrebbe non essere cattolico il “sano” capitalismo senza il quale la multinazionale vaticana non avrebbe scheletro? A posteriori, il capitale può e deve essere precipuamente cristiano, perciò cattolico, sicché solo il magistero della Chiesa può dire quando è veramente “sano” un capitalismo: due in una, abbiamo giustificazione dei caritatevoli riciclaggi dello Ior e la pretesa di dettare le regole nel buco del culo del secolarismo, dove lo sfruttamento della forza lavoro e la rendita da interesse producono lo sterco del diavolo da filtrare e purificare.
Tutto ciò che viene dall’uomo, che è creato a immagine e somiglianza di Dio, dev’essere degno del creatore e non fa eccezione il plusvalore: il prezzo del pane deve tutelare la creatura nel panettiere e nel suo cliente, perché entrambi sono debitori di una decima alla Chiesa. Fate dettare le regole del capitalismo alla Chiesa, perché essa sa l’esatto valore della dignità umana e l’esatto prezzo della manifattura e della materia prima: fate compilare i listini ai frati, fate ridistribuire ai preti, la Chiesa sia primo e ultimo calmiere sociale.
Chi è che teneva cassa fra gli apostoli? Giuda, il traditore di Cristo. Fate che si compia la Passione: il Mistero vive solo se rivive ogni volta rinnovato.

E allora fate dire a Ettore Gotti Tedeschi che l’economia mondiale deve pigliare consiglio dal Papa. Be’, certo, non in termini così brutali: in questa riedizione molto rimeditata di Denaro e Paradiso (Lindau 2010) – c’era di mezzo la Caritas in veritate – il presidente dello Ior (insieme a Rino Cammilleri) ripiglia la tesi di Bazzichi (originariamente non sarebbe neanche del Bazzichi, ma è dal suo Alle radici del capitalismo che pesca a larghe mani) e – a suo modo – pensa di poter dimostrare che il capitalismo è tanto più virtuoso quanto più è cattolico.

A parte: non scandalizzi che san Francesco sia tradito dai teologi francescani come Cristo da Giuda, aveva pure lui le mani bucate.


Nichi Vendola non mi piace



Nichi Vendola riassume in sé il peggio di molti tipi umani che detesto anche quando danno il meglio di sé (cosa che accade molto raramente). Del cristiano ha il culto di un protocristianesimo tutto letterario, malamente scopiazzato dalla cattiva lettura che Pier Paolo Pasolini fece di Alfred Loisy, ma anche la visione salvifica del momento fusionale (comunità come eucaristia, società come corpo mistico), di una prossimità vissuta non come relazione ma come evento. Del cattolico ha il rispetto per quanto di irrazionale v’è nella pietà popolare e nei rituali della superstizione tribale del mitologico Sud cattolico, con qualche alibi scientifico costruito sulle tesi di Ernesto De Martino e molto umore rustico rubato a Rocco Scotellaro. Poverino, non afferra che il cattolicesimo tirreno e ionico è tutto sanfedista. Del politico ha il peggio di ciò che sta in un populista e qui, per non dilungarmi troppo, piglierei dalla sua scheda autobiografica: “Ho un anello al pollice, regalatomi da un pescatore di Mola di Bari, era la fede di sua madre: rappresenta per me una specie di matrimonio con il popolo” (nichivendola.it). A confronto con l’orsacchiotto plastica che una bambina donò come portafortuna a Sergio Cofferati quando era candidato a sindaco di Bologna, e che Sergio Cofferati dice di portare sempre in tasca (Linus, 442/2004 – pag. 5), l’anello al pollice è vomitevole. Ma il peggio del peggio Nichi Vendola lo dà da comunista e, ancor più, da comunista italiano, perennemente in assetto tattico, sempre a traino di una retorica da difficile ma indispensabile compromesso, sempre dolente in ogni sorriso, sempre un po’ falso in ogni invettiva. Dell’oratore nato, che è un tipo umano fra quelli che più detesto, ha l’inclinazione al lessico affabulatore con l’uso del climax a triplette. Fateci caso: Nichi Vendola usa sempre tre perifrasi per ogni immagine, sempre tre sinonimi per ogni sostantivo, per ogni aggettivo, per ogni verbo, per ogni avverbio, e parla come se pigliasse da un intimo universo di sensazioni che somiglia a un dizionario dei sinonimi. Sarebbe stato un ottimo sommelier, di quelli che paiono trovare il termine prezioso o ardito nel naso, nel palato o perfino in trasparenza. Del narcisista ha il vittimismo trionfante. Del gay ha quell’ostentata smania di mostrarsi sobrio che è assai più irritante dell’ostentata smania di mostrarsi trasgressivo. Insomma, Nichi Vendola non mi piace, non mi piace proprio. E questa era la premessa.

Ora, un lettore mi chiede di commentare alcune sue dichiarazioni al margine del congresso fondativo di Sinistra, ecologia e libertà: “Afferma che occorre dialogare con il mondo cattolico, rifuggendo l’anticlericalismo… «La cosa peggiore – dice – è chiudere la discussione prima che cominci. Io voglio parlare delle questioni eticamente sensibili, ne voglio parlare anche con la Chiesa»” (corriere.it, 24.10.2010). Direi: signor governatore, le chiamano “questioni non negoziabili”, che vuole negoziare? Nel caso che alle prossime elezioni politiche – Dio non voglia! – lei fosse il leader dello schieramento avverso a quello guidato da Silvio Berlusconi (al quale peraltro somiglia moltissimo, ma su questo parleremo un’altra volta), la Chiesa con la quale lei intende parlare, discutere e trattare non avrebbe da far altro che accennare obliquamente al fatto che lei è cattolico e vive nel peccato, è comunista e perciò lontano dal magistero sociale, per levarsi il fastidio (odia discutere, le piace dare precetti): sarebbe trombato prima ancora di offrire un negoziato. Fatta eccezione per qualche prete che conta meno del due di briscola, fatta eccezione per qualche cattolico che si sente adulto, per la Chiesa è meglio un puttaniere che un ricchione, ma naturalmente dietro l’apodittico qui c’è una questione antropologica che va ben oltre il suo culo. Per quanto mi riguarda, io non la voterò mai. Dunque non è lei che rifugge l’anticlericalismo. Sono gli anticlericali come me che fuggono lei.


Foto: Patrizia Pieri

domenica 24 ottobre 2010

“E chi se ne importa”


Non era degna di rilievo la notizia che L’Osservatore Romano sparasse: “Homer e Bart [Simpson] sono cattolici”, e infatti non ci ho sprecato un rigo. È già da tempo che la Chiesa fruga nel pop cercando tracce di cattolicesimo o almeno di cristianesimo, anche se distorto, anche se solo nominale, per gonfiarlo in forma di presenza: sempre la stessa tecnica di mistificazione, che dopo un po’ annoia. Punta di lancia di questa goffa operazione è proprio il giornale diretto da Vian, ormai illeggibile per ciò che attiene a questo genere di riletture.
Voglio confessare che, quando L’Osservatore Romano riabilitò i Beatles, mi buttai a capofitto in un pippone che presumevo mi avrebbe estenuato per 30.000 battute, ma poi lessi che alla notizia Ringo Starr aveva commentato: “E chi se ne importa”. Una lezione. Smisi subito, mi passò la voglia, non m’è mai più tornata e, quando ho letto: “Homer J. Simpson è cattolico”, ho storto il muso e basta. Poi ho letto che il produttore esecutivo de The Simpson smentiva, e ho storto il muso, ma neanche m’è sembrato valesse la pena di commentare.
E allora perché tornarci sopra oggi? Oggi capita che a smentire L’Osservatore Romano sia lo stesso padre Francesco Occhetta che nell’articolo veniva citato come autorevole fonte (La Civiltà Cattolica): mai detto che Homer e Bart siano cattolici. E questo è degno di notizia.

venerdì 22 ottobre 2010

Ma gliel’ha chiesto?


Ma mi sono distratto io o davvero la signora Bignardi ha dimenticato di chiedere a Ignazietto com’è che Geronimo La Russa si trova nel Consiglio direttivo dell’Aci? Non può essere che si sia distratta lei, devo essermi distratto io: si dà tante arie di avere le palle sotto il tubino, non può averlo dimenticato.
Deve averglielo chiesto di sicuro, sarà stato mentre ero a far pipì. Ci ho messo poco: dev’essere stata una domanda secca, e secca dev’essere stata la risposta, che deve aver soddisfatto la signora, che non avrà avuto necessità di altri chiarimenti… Il tempo di sgrullarlo e la questione è chiusa: questo è il giornalismo serio e asciutto che ci manca, brava la Bignardi, che mi fa diafano il potente.
Se gliel’ha chiesto.

Ipse dixit




“Entro dieci giorni dalla discarica di Terzigno non proverranno odori o miasmi”

 

 

Silvio Berlusconi,

22.10.2010



“Preti che fanno il doppio gioco”


Ku prawdzie i wolnosci (Cracovia, 2010) è una raccolta di documenti della Sluzba Bezpieczenstwa, la polizia politica della Polonia comunista, tutti relativi a Karol Wojtyla, scrupolosamente attenzionato per oltre trent’anni, dal 1946 fino alla vigilia della sua elezione al Soglio Pontificio nel 1978, dai tanti informatori sui quali il regime ha sempre potuto contare nel clero polacco: il libro è di qualche mese fa, chissà se arriverà mai in Italia, ma l’ultimo numero de La nuova Europa pubblica la traduzione di altri stralci e Luigi Geninazzi stende un commento che descrive il contesto con faticosi eufemismi (Avvenire, 22.10.2010).

In pratica, il futuro Giovanni Paolo II fu spiato a lungo e a fondo da decine di preti e laici cattolici, a lui talvolta anche assai intimi, che il regime teneva a paga o teneva per le palle a causa dei loro vizietti, per lo più sessuali. Wojtyla sapeva di essere controllato molto da vicino e riuscì sempre a mantenere un profilo basso e perfino ambiguo, mentre invece andava creando attorno a sé una rete sociale sempre più estesa e forte, che avrebbe fatto da incubatrice a Solidarnosc.
Tutto molto affascinante, senza dubbio, guardando a un Wojtyla o a un Popieluszko; guardando la chiesa polacca, un po’ meno. Fu la pubblicazione di documenti degli archivi dei servizi segreti del regime comunista che provavano la sua attività di informatore a costringere alle dimissioni Stanislaw Wielgus, arcivescovo di Varsavia solo per poche ore. Il suo caso era solo la punta dell’iceberg, che emerse nel gennaio 2007, portandoci a conoscenza dell’agente Seneka, dell’agente Zagielowski, dell’agente Ares, dell’agente Erski: tutti preti e non dell’ultima parrocchia di periferia.

Bene, pare che il Geninazzi soffra nel ricordare a stesso che un Wojtyla o un Popieluszko erano l’eccezione, e che fra i membri del clero era assai alto il numero di quanti avevano trovato un concordato privato col regime comunista. E scrive che, “a leggerle oggi”, le attività dei “preti che fanno il doppio gioco” sembrano “buffe e ridicole”, ma “dicono fino a che punto [gli uomini del regime] erano decisi a spingersi nel controllo totale delle persone”. Come a dire: il comunismo era feroce e determinato, ma si serviva di traditori fessi.
Salvare capra e cavoli: Wojtyla e la chiesa polacca. E come si dimostra che la vera chiesa polacca non era anche quella che prendeva paga dal regime? “Alla fine gli spioni non sono serviti a nulla, Wojtyla diventerà papa e per il comunismo sarà l’inizio della fine”. Vince chi vince, e si piglia la ragione. Sennò per sopravvivere si adegua, e vince lo stesso. La pelle del leone rivoltata fa un buon caldo.

Piovene


L’industria dei premi letterari e giornalistici è una delle poche rimaste floride in Italia e non c’è pro loco che manchi di un vate al quale intitolare il suo: Vicenza ha Guido Piovene, giornalista e scrittore antisemita che non scrisse mai un rigo contro il fascismo e che non si è mai saputo come abbia salvato il culo dopo la guerra.
Prima di leggere che quest’anno è andato anche ad Annalena Benini, neanche sapevo che esistesse un Premio Piovene, ma ora lo so, e so che quest’anno premia Annalena Benini per “originalità, acutezza ed internazionalismo” e che a consegnarle il premio è Bruno Vespa, segretario generale della giuria, nella quale spicca il nome di Carlo Rossella.
La Benini è originale, acuta e soprattutto internazionale, così concorda la giuria. E pensare che per capire in quale mare di merda siamo immersi c’è chi ha bisogno di ponderosi studi sociologici e complicatissime tabelle.

La “retroattività del lodo Alfano”


Sono necessarie alcune considerazioni su quella “retroattività del lodo Alfano” – in questi giorni è espressione comune sul cartaceo, in tv e on line – che intenderebbe denunciare come un assurdo la proposta di legge costituzionale che il governo intende portare in Parlamento. Si tratta di sospendere il processo penale quando è nei confronti delle alte cariche dello Stato e per “retroattività” qui si intenderebbe l’estendere della sospensione anche a quei processi per reati commessi in epoca antecedente all’assunzione dell’alta carica (*). Bene, non si discute che la legge faccia schifo – fa schifo – ma “retroattività” è termine qui usato in modo improprio e strumentale. Astrattamente, infatti, la retroattività di una legge non è un assurdo, né è espressione in sé di un principio ingiusto (**).
Ma è propriamente “retroattività” quella del “lodo Alfano”? No, perché qui non è in questione la depenalizzazione di un reato, ma la sospensione dei processi per quel reato. Anzi, è in questione la sospensione dei processi per tutti i reati (fatta eccezione per quelli particolarmente gravi e abietti) dei quali possa essere accusato chi ricopra un’alta carica dello Stato. E dunque l’effetto non è attivo sul tempo ma sulla persona.
In più è dichiarato come precipuo fine della norma, che stavolta non chiede legittimità alla Costituzione, ma intende riformarla, introducendo un criterio di privilegio particolare. Ne godrebbe la persona che ricopra un’alta carica dello Stato in quanto alta carica dello Stato, e in pratica può tradursi in impunità per la sua reiterabilità, ma questa non è “retroattività”: usando impropriamente il termine si cerca il pleonasmo (***), come se il privilegio non facesse già schifo di suo.



(*) In realtà, non avrebbe senso chiamarlo “lodo” perché, come è stato fatto notare da più d’uno, non c’è stato compromesso né transazione tra maggioranza e opposizione, né a esprimerlo è stata una autorità arbitrale previo accordo tra le parti. Non ha senso neppure chiamarlo “lodo Alfano”: il Guardasigilli in carica si limita a riproporre per altra via una legge varata nel 2003 su proposta di Maccanico e dichiarata incostituzionale nel 2004, poi varata ancora nel 2008 su proposta dello stesso Alfano, con modifiche apportate da Schifani al “lodo Maccanico”, e ancora dichiarata incostituzionale nel 2009. Appena più corretto “lodo Alfano-bis”, ma non di molto.
(**) Quando depenalizza un reato, per esempio, la legge ha sempre effetto retroattivo, nel senso che solitamente fa cadere le ragioni perché continui ad avere effetto la pena comminata per quel reato, anche se commesso prima dell’entrata in vigore della legge: e non sarebbe ingiusto il contrario? “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”: è da diciotto secoli che si ritiene ingiusto che una legge dichiari reato ciò che prima non lo era e congiuntamente stabilisca di comminare una pena a quanti l’abbiamo commesso prima che fosse tale; ma anche il contrario: non sarebbe ingiusto – e assurdo – che la pena comminata per un reato si protraesse oltre la sua depenalizzazione?
(***) Si cerca il pleonasmo quando ci si sente inadeguati a esprimere un sentimento (in questo caso, è indignazione). Si tratta di una ingenuità lessicale che rivela inadeguatezza. 

martedì 19 ottobre 2010

Non rovinare la magia


Come tutte le nevrosi ossessive, anche quella a sfondo religioso si esprime attraverso rituali: qui, la struttura compulsiva è riccamente strutturata e vien detta liturgia. Solo la massima fedeltà a un certo tipo di procedure rituali assicura una congrua difesa al nevrotico ossessivo, e solo un attentissimo rispetto della tradizione liturgica assicura al cattolico un po’ di sollievo. Qui siamo a ciò che il cattolico racchiude nella formula “lex orandi est lex credendi”: anche qui, come in tutte le altre nevrosi ossessive, la conversione ha una funzione altamente simbolizzatrice e il corpo (postura, gesto, abito, ecc.) ne incarna i significanti. L’importanza di un certo colore di arredo e di paramento secondo l’occasione, di un certo tipo di formule e di musica, questa logistica e questa dinamica sacramentale invece che quelle – l’importanza dell’altezza da terra dell’orlo del piviale – sono tanto più cazzate quanto meno si è cattolici. Più la nevrosi ossessiva è grave, più il rituale è rigido. Più è rigido, più è magico. La perfetta fedeltà liturgica è il perfetto credo in una certa intercessione: lo scrupoloso rispetto delle procedure rituali realizza la magia.
Al contrario, se maltratti la liturgia, rovini la magia e allora non trovi pace neanche dopo morto, quasi vengono a pisciarti sulla tomba.


Pot-pourri


Quasi dimenticato, pochissimo citato, Arrigo Cajumi è uno dei cervelli che più amo. Se riuscite a procurarvi il suo Pensieri di un libertino – io ne ho un’edizione della Einaudi del 1950, non so se abbia mai avuto ristampe, non mi meraviglierei se no – leggetelo, e poi mi fate sapere. Ancor più che in quello, però, Arrigo Cajumi è delizioso nei suoi articoli su Il Mondo, massimamente nella sua rubrica Pot-pourri, che somigliava alla homepage di un blog: una mezza dozzina di post assortiti su temi vari (filosofia, politica, costume, lettere), metà diario e metà pensatoio. Inciso: quando penso al fatto che Malaparte era una star e Cajumi era un quasi nessuno destinato a rimanerlo, mi spiego perché questo Paese dovesse finire com’è finito. Ecco, ieri sera leggevo i suoi Pot-pourri e m’è sembrata che l’Italia non meritasse altro che Malaparte. 

Sta’ tranquilla, mamma



[Prima di tutto vorrei tranquillizzare mia madre: sta’ tranquilla, mamma, non ho ripreso a scrivere letterine a Il Foglio, questa chissà come mi è scappata di mano e comunque – giuro – non ricasco nel vizio.]

È che Giuliano Ferrara m’era sembrato sbarellare più del solito nel suo editoriale di lunedì 18 ottobre e in un post (“Vendere allegramente” – Malvino, 18.10.2010 [04:54]) ho spiegato perché. Ho scritto che per colmare un debito pubblico di 1.800 miliardi allo Stato non basterebbe alienare “qualche caserma dismessa”, ciò che per Giuliano Ferrara parrebbe fare un “patrimonio immobiliare pubblico pari al 130 per cento di debito” (2.400 miliardi) e ho scritto che anche chi proponeva di “vendere, vendere, vendere”, però con qualche competenza in più di Giuliano Ferrara (Fondazione Magna Carta e Istituto Bruno Leoni), non nascondeva la necessità di vendere anche il Colosseo per colmare un tal debito (semmai, però, non iniziando proprio da quello).
Poche ore dopo aver scritto questo post, il topos letterario della messa in vendita del Colosseo tornava nel commento che Massimo Bordin faceva all’editoriale su Il Foglio in edicola (Stampa & Regime – Radio Radicale, 18.10.2010 [08:12:00-08:12:48]), per riportare la questione nei termini che Giuliano Ferrara aveva eluso, e m’è sembrato di far opera di bene nel richiamarglieli.
La sua risposta (qui sopra) è delle solite di quando non ha argomenti: ammette di essere incompetente in materia ma di essere assai convinto di ciò che dice, anche perché, ad uopo interpellati, esperti di fiducia lo avallerebbero (Idee e numeri per “vendere, vendere, vendere” un po’ di Stato – Il Foglio, 19.10.2010 [pag. 3]).

[Capito perché mia madre si rattrista nel sapere che mi intrattengo in questi passatempi assurdi?]

E dunque: gli esperti avallerebbero l’ideona di Giuliano Gerrara. Il condizionale è d’obbligo, perché sul punto – vendere o no il Colosseo? – gli esperti non si sbilanciano: “Il patrimonio pubblico, secondo i calcoli di Ricolfi, è dello stesso ordine di grandezza del debito (1.800 miliardi)”, che dunque non è – com’era scritto su Il Foglio di ieri – “largamente inferiore al valore”. Ma facciamo finta che questa sia una bazzecola, e andiamo avanti: “Venderne una parte non basterebbe a portarci al 60 per cento del pil, come vorrebbe il nuovo Patto europeo di stabilità in fieri, ma «scendere sotto il 100 per cento sarebbe già un grande risultato»”. Venderne una parte – è chiaro – servirebbe a colmare solo un terzo del debito pubblico, ma nel suo editoriale Giuliano Ferrara contava di ricavarci pure un extra “per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita”. Non basterebbe Tremonti, ci vorrebbe Gesù in vena di miracoli.
Questo primo esperto, dunque, non avalla un tubo: implicitamente afferma che per arrivare a 1.800 miliardi bisognerebbe vendere tutto il patrimonio immobiliare pubblico, non demaniale e demaniale. Ergo – adhuc – etiam Coliseum.
“La proposta di Ricolfi, che parla di quote collocabili sul mercato, ricalca per diversi aspetti l’idea lanciata nel 2005 dall’ex ministro Giuseppe Guarino, che propose una superholding in cui far confluire beni statali e società pubbliche da quotare in Borsa, incassando almeno 450 miliardi”. Idem con patate. Come si arriva a 1.800? Cosa ci vendiamo? Se non il Colosseo, gli Uffizi?
Per Edoardo Reviglio, un altro esperto interpellato da Il Foglio, “vendere, vendere, vendere” comporta un sacco di problemi: “«A differenza di altri più ottimisti di me – dice Reviglio – dopo aver studiato e osservato il patrimonio nelle sue varie sfaccettature per una decina d’anni, sono arrivato alla conclusione che il riordino del patrimonio sia una grande opportunità per il territorio, e più in generale per lo sviluppo del paese. Tuttavia, considerata la natura complessa, dispersa e granulosa, e le rigidità giuridiche e amministrative, la sua dismissione non può rappresentare la soluzione alla riduzione del debito pubblico in tempi brevi». Secondo Reviglio, «può dare un contributo (pari allo 0,2-0,4 di pil all’anno per i prossimi due/tre decenni), può contribuire a finanziare investimenti secondo il ‘principio di sostituzione’, ovvero dismetto un asset che non serve e con i proventi ne costruisco uno che serve». Va ricordato, inoltre, che il patrimonio non è fatto solo di immobili ma anche di partecipazioni locali, di crediti, di concessioni e di reti e infrastrutture: «Alcune di queste possono e devono dare maggiori redditi (sul fronte dei flussi) altre possono invece essere privatizzate». [Conclude Reviglio:] «Nessun miracolo ma piuttosto un’azione graduale di riordino. L’avvio di un grande processo che durerà decenni»”. E questo sarebbe un avallo?
Non va meglio con altri due esperti interpellati, Emilio Barucci e Federico Pierobon, che addirittura “stimano il valore nominale degli attivi immobiliari [non demaniali] dello Stato in 194 miliardi di euro”, ma “«il dato – aggiungono – non comprende molti immobili per i quali non è disponibile un inventario completo (parte del demanio militare e quelli ubicati all’estero) o è difficile effettuare una valutazione (musei e monumenti)»”. E siamo ancora agli Uffizi e al Colosseo. E io su cosa chiedevo franchezza?
Finiti, gli esperti? No, ce n’è un altro, Gianfranco Polillo, che però è il più scettico di tutti: “«Ad oggi – dice – lo Stato – dice – non sa esattamente di che cosa è proprietario»”. E che ti vendi, se non lo sai?

[Ora, forse, mi spetterebbe una replica, ma mamma si preoccuperebbe. Stavolta mi faccio bastare questo post. “Non mi fido”? Siamo pari: neanche mamma.]



lunedì 18 ottobre 2010

L’uovo di Uolter


D’Alema non è mi particolarmente simpatico, ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni: avrà tutti i difetti possibili, Baffino, ma il fatto che per anni, decenni, ormai quasi mezzo secolo, si sia impegnato a combattere Uolter, i uolteriani e il uolterismo, prima nel Pci-Pds-Ds e adesso nel Pd, ai miei occhi mette in ombra tutti i suoi difetti d’uomo e di politico, muovendo in me – per alcune frazioni d’attimo e non troppo spesso per fortuna – un che di dalemiano dal fondo dell’umana cazzimma. Peggio di Veltroni, nel Pd, chi?
L’ultima? A Busto Arsizio, il 9 ottobre, a un’assemblea del Pd. Qui Veltroni ha fatto una proposta in tema di immigrazione, porgendo al suo partito l’idea di “una politica migratoria selettiva: l’ammissibilità legata a una valutazione delle caratteristiche degli immigrati”. Cioè? “Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese si combinano in un punteggio o valutazione della ammissibilità dei candidati all’immigrazione”: insomma, discriminare alla frontiera. Tempo fa la Cei ne pensò una uguale: favorire l’immigrazione dai paesi di cultura cattolica o almeno cristiana. I buoni – e Uolter è buono per definizione – hanno talvolta di queste strane declinazioni della bontà che somigliano a vere e proprie schifezze, ma tant’è...
E dunque. L’immigrato troppo anziano, maschio, analfabeta e pastore di tre capre? Lo rimandiamo a casa: pochi punti. La giovane poliglotta nigeriana nubile e con un culo da sballo? Il punteggio la premia: ammissibile (eventualmente facciamo emigrare la Madia). Abbiamo bisogno di mani delicate che sappiano innaffiare a dovere i gerani sulle terrazze romane? Ammessi i filippini, che fanno punteggio alto perché coi gerani quasi ci parlano. Abbiamo bisogno di manovali nerboruti e ci troviamo in surplus di idraulici? Facciamo entrare i marocchini e rimandiamo a casa i polacchi. È l’uovo di Colombo, l’uovo di Uolter: si tratta di applicare ai candidati l’inverso dell’art. 3 della Costituzione: “Non tutti gli immigrati hanno pari dignità sociale, né sono eguali davanti alla legge: fanno punteggio l’età, il sesso, ecc.”.
Sento un retrogusto di Santanchè in questa proposta o mi inganno? È di sinistra? È kennediana? Come definire questa proposta? Veltroni la dice “pragmatica”. E qui il post chiude, sennò devo chiudere il blog.


Giornalettismo.com








“Vendere allegramente”




L’idea di privatizzare il patrimonio immobiliare pubblico non è nuova, ogni volta che si parla di debito pubblico (ormai quasi a 1.800 miliardi di euro) c’è qualcuno che la ripropone: oggi tocca a Giuliano Ferrara (Vendere, vendere, vendere: un’idea di Tremonti per TremontiIl Foglio, 18.10.2010), vogliamo darci un’occhiatina?
Cominciamo col dire che per la sua parte non demaniale (circa il 20% è di proprietà delle amministrazioni centrali, mentre poco più dell’80% lo è degli enti locali) questo patrimonio ammonta a non più di 400-450 miliardi di euro: ne consegue che bisognerebbe metter mano anche a quella demaniale, riqualificandola come cedibile, ma andando coi piedi di piombo perché “forse sarebbe azzardato cominciare vendendo il Colosseo”, e a consigliare cautela sono i liberisti della Fondazione Magna Carta e dell’Istituto Bruno Leoni in seminario congiunto (Roma, 18.6.2008). Adelante, sì, ma con juicio: andrebbero alienati prima gli uffici pubblici, poi le università, poi i musei, il Colosseo per ultimo.
Per Ferrara è tutto più semplice: “Qualche caserma dismessa in meno”. Neanche tutte: ce ne vendiamo alcune, semmai quelle più scassate, e ricaviamo 1.800 miliardi di euro. “Che il patrimonio immobiliare sia pari al 130 per cento del debito è un numero”, scrive, e non ha torto, ma solo se in quel numero ci sta pure il Colosseo o, se non quello, gli Uffizi o il Ponte dei Sospiri o il Maschio Angioino o i Sassi di Matera: li privatizziamo? Ma sì, Tremonti dovrebbe farlo – dice Ferrara – “per finanziare cultura, sapere, ricerca, crescita”. Ma i soldi non servivano per colmare il debito? Colmano il debito e insieme finanziano tutto questo ben di Dio? E poi, colmato il debito col patrimonio immobiliare pubblico, quante volte sarà possibile rivenderlo? Venduti gli uffici pubblici ai privati, non bisognerà prenderli in affitto? La spesa non farà altro debito? Appaltiamo ai privati il minimo indispensabile di burocrazia statale? 
L’editoriale dev’essere stato scritto con una glicemia fuori controllo, conviene lasciar perdere Ferrara, che ultimamente non è neanche più divertente, e tornare all’Operazione Colosseo di Mingardi & Rebecchini: “È chiaro che si tratta di un’operazione delicata […] ma è una sfida che, nelle condizioni in cui siamo, non è possibile non tentare”. Non c’è altra soluzione, qui. Con gli zuccheri a mille, invece: “Vendere, vendere, vendere, ma vendere allegramente, orgogliosamente”.


domenica 17 ottobre 2010

La bufala della santa che fu “pioniera della lotta ai preti pedofili”



Suor Mary MacKillop, oggi santa, fu “pioniera della lotta agli abusi sui bambini” (Corriere della Sera) o “pioniera della lotta ai preti pedofili” (la Repubblica)? No, questo è quanto si vorrebbe far credere e non è difficile immaginare chi e perché. “Fu scomunicata per aver denunciato un prete pedofilo” (La Stampa)? Nemmeno, fu scomunicata per non aver obbedito al suo vescovo su tutt’altra questione (la gestione economica degli istituti scolastici gestiti dall’ordine al quale apparteneva). “Denunciò un prete pedofilo” (il Giornale)? Questo può darsi, ma in ogni caso la denuncia fu fatta solo presso le autorità ecclesiastiche, secondo l’uso che era in vigore fino all’altrieri, prima che alla fogna saltassero i tombini negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania, ecc.
Il prete che avrebbe commesso abuso sui bambini, in questo caso, si chiamava Patrick Keating e fino al settembre di quest’anno non si aveva notizia che suor Mac Killop l’avesse denunciato ai suoi superiori perché pedofilo, anzi, neppure si sapeva della denuncia: è cosa messa in giro da una tv australiana, non più di tre settimane fa. C’è da dire, inoltre, che la scomunica della suora avvenne ben quattro anni dopo che padre Keating fu rimosso dalla sua parrocchia, per essere mandato in Irlanda, dove peraltro continuò ad occuparsi di bambini, non ci è noto se compiendo altri abusi.
Ancora a luglio di quest’anno, intervistata da Zenit, la postulatrice della causa di canonizzazione, suor Mary Casey, non faceva alcun cenno alla faccenda: “I motivi della scomunica sono complessi. Il padre fondatore, Julian Tenison Woods, aveva lavorato come direttore per l’Istruzione Cattolica ad Adelaide e non era molto popolare tra i suoi fedeli. Istituendo nuove scuole, aumentarono i debiti. Alcune sorelle non erano poi educate come avrebbero dovuto essere, ma Mary insisteva sul fatto che non potevano esserci divisioni. Il problema finale fu che uno dei consiglieri del Vescovo disse a Mary che il presule voleva che tornasse immediatamente nella zona rurale. Mary rispose che aveva bisogno di vederlo prima di tornare lì. La sua risposta fu comunicata al Vescovo come un rifiuto alla sua richiesta. I suoi consiglieri gli raccomandarono di scomunicarla, e così fece”.
E allora come nasce questa bufala della santa “pioniera della lotta ai preti pedofili”? Con un documentario andato in onda su ABC Compass il 25 settembre scorso, dopo che era stato dato l’annuncio della prossima canonizzazione, e ritrasmesso il 10 ottobre: padre Paul Gardiner azzardava solo ipotesi al riguardo, ma il tutto tornava a fagiolo per bilanciare lo scandalo che si era sollevato negli ultimi mesi per la scoperta di innumerevoli abusi sessuali commessi da preti cattolici in diverse parrocchie australiane. E infatti le sue affermazioni venivano opportunamente cucinate da The Sydney Morning Herald, con una mezza pezza d’appoggio dell’arcivescovo di Adelaide, monsignor Philip Wilson, e di lì rilanciate a chiunque le volesse utilizzare per dare alla santa un lustro in più.

Ci sarà un solo vaticanista italiano che si premurerà di andare a controllare e precisarci la faccenda?  

[più estesamente, domani, su Giornalettismo.com]

Update
Per questione personale, in breve: ClaudioLXXXI prende atto del fatto che sono riuscito a risalire alla primigenia fonte della bufala di una Mary MacKillop “pioniera della lotta ai preti pedofili” (dimentica di darmi il merito di essere stato il primo, ma fa niente), ma mi accusa – scrive – di aver “invertito i ruoli, facendo sembrare come se la bugia l’avessero montata quei soliti cattivoni di cattolici”. Come l’avrei ingannato il mio lettore? Nel commentare che la bufala tornasse credibile a chiunque volesse “dare alla santa un lustro in più”: ci legge un’insinuazione polemica nei confronti dei cattolici e della Chiesa. In realtà, come ho peraltro scritto nell’articolo su Giornalettismo.com (al quale qui sopra rimandavo): “Non è credibile, non è plausibile che in mezzo a tanti preti pedofili ci sia una suorina coraggiosa che ne denuncia uno, e allora la scomunicano, ma poi, tornando utile, la canonizzano? Per i cattolici è il segno di una superiore provvidenza che fa la Chiesa santa nonostante tutto, per i non cattolici è il segno della superiore ipocrisia del clero cattolico che riesce a confezionare perfetti marchingegni retorici: la bufala entra nelle coscienze di tutti con grande facilità, cattolici e non cattolici. È così facile crederci, tutti ci credono, perché il povero lettore dovrebbe rendersi la vita difficile col dubbio?”. Come è evidente, ne facevo una questione un po’ più complessa della bassa polemica anticattolica: dalla fonte primigenia della bufala tentavo di risalire alla fronte primigenia della sua credibilità. Ma – gliel’ho detto pure – ClaudioLXXXI non mi legge con attenzione.


“Anche su questo ho cambiato idea”


Il 2 novembre i californiani saranno chiamati a votare sulla Proposition 19 che legalizzerebbe l’uso della marijuana a scopo ricreativo, il suo possesso fino a 28 grammi, la sua coltivazione fino ai 2,5 metri quadrati di terrario, e che pare avere buone possibilità di passare. Viene da pensare ai due ragazzi che quest’anno si sono suicidati in carcere dove erano finiti per la Fini-Giovanardi, io me li sono immaginati penzolare con California Dreamin’ di sottofondo. Viene da pensare a Fini e a Giovanardi.

Cominciamo col Giovanardi, ci mettiamo poco. Il Giovanardi continua la sua crociata contro la Droga. Dopo aver marcato stretto Belen per impedirle di andare a Sanremo, ora propone il test antidroga obbligatorio pure ai conduttori di ogni altra trasmissione del servizio pubblico televisivo (tg, approfondimenti, talk show, ecc.). Non è la sintesi giornalistica, tanto meno il commento satirico, a far dire che qui si mira all’obbligo per Santoro di fare la pipì in apposita provetta a fine trasmissione: è lo stesso Giovanardi a esprimersi in questi termini, probabilmente con un sorriso alla Fernandel.
Paese che vai, antropologia che trovi: se passa la Proposition 19, passa pure la proposta di Giovanardi. Come gli è venuta? “Lunedì scorso il Santo Padre ha definito la droga «una bestia vorace che mette le mani sulla terra e la distrugge»…”.

Con Fini la questione è più delicata. Una destra liberaldemocratica può equiparare marijuana ed eroina? Può equiparare consumo e spaccio? Anche se liberaldemocratica, rimane affezionata allo Stato etico? Rimane ideologica e si chiude alle politiche della riduzione del danno? Sono domande che possono spaccare la cosa finiana arrivando al suo cuore: quanto è liberale? A quando una dichiarazione pubblica di Fini del tipo “anche su questo ho cambiato idea”?