mercoledì 22 dicembre 2010

Un'altra performance linguistica del professor Bellieni


Tre anni fa il professor Carlo Bellieni ci proponeva: “La parola «feto» dovrebbe essere bandita”. “Lo chiamiamo «feto» un minuto prima della nascita e «bambino» un minuto dopo – argomentava – ma che cosa cambia? Sul piano fisico assolutamente nulla”. Detto da un neonatologo, che non dovrebbe essere all’oscuro delle variazioni dei parametri cardiocircolatori, respiratori, ematologici, metabolici, neurologici ed endocrini che si hanno al momento della nascita, la cosa ci stupì non poco. Poi sapemmo che era membro della Pontificia Accademia Pro Vita e chiudemmo un occhio: per far carriera c’è gente disposta pure a far pompini, mentre il professore si era limitato a una timida performance linguistica. Poco convinta, bisogna aggiungere, perché da allora Bellieni non ha mai smesso di usare la parola «feto», alla faccia del buon esempio. Per dire: nell’ultimo suo articolo (L’Osservatore Romano, 22.12.2010) la usa cinque volte.
Passò meno di un anno e il professore attirò ancora la nostra attenzione: “I bimbi nati dopo fecondazione in vitro hanno un rischio di certe malformazioni maggiore degli altri”, disse che l’aveva letto su Lancet (VII/2007); ma il giorno dopo chiese scusa, aveva letto male (c’era scritto: “avranno uno sviluppo pari agli altri”). Anche qui chiudemmo un occhio: può capitare a tutti.
L’avevamo perso di vista, ma poi l’anno scorso se ne venne con un’altra delle sue: “Certamente l’introduzione nelle case dei Paesi occidentali di acqua corrente e servizi sanitari ha determinato una netta diminuzione di malattie infettive. Bisogna tuttavia riflettere su dei fatti che sembrano essere il rovescio della medaglia del nuovo fenomeno: l’eccesso di abluzioni porta ad un enorme consumo di acqua, in gran parte potabile, ad un’immissione nelle acque reflue di sostanze tensioattive, talora non biodegradabili, e alla perdita di quei germi «buoni» che talora sono la premessa per la protezione contro quelli patogeni”. Tremammo, pensammo che il magistero della Chiesa volesse porre un veto al bidet: timore eccessivo, la cosa abortì lì.
Passa un altro anno e riecco il professore…
“La diagnosi prenatale genetica, anche quando venga fatta sul sangue materno e senza rischio per il feto, non è eticamente neutra. Se servisse per curare sarebbe altra cosa, ma le possibilità di terapia dei malati di sindrome Down sono praticamente zero. La ricerca della sindrome Down del feto non deve essere uno screening, perché non è interesse dello Stato andare a individuare i bambini affetti prima della nascita”.
Lo Stato? E che c’entra lo Stato? Lo Stato non può imporre (ma nemmeno vietare) un’amniocentesi. Eticamente neutra o no, c’è una legge – una legge dello Stato – che consente la diagnosi prenatale delle patologie fetali che sono diagnosticabili e che consente l’interruzione della gravidanza se una di queste patologie fetali può mettere a rischio la salute fisica o psichica della gravida: è questa legge che non è eticamente neutra, perché il professor Bellieni non si fa promotore di un referendum per abrogarla invece di starnazzare obliquamente?
“Far diventare screening la diagnosi genetica prenatale surclassa la scelta individuale della donna”, aggiunge, ma chi ha mai imposto un’amniocentesi ad una cattolica che l’abbia ritenuta superflua perché comunque intenzionata a portare avanti la sua gravidanza, che il feto fosse o no affetto da sindrome di Down? Anche qui, comunque, si evidenzia un’inclinazione del professor Bellieni all’uso ambiguo della lingua. “Surclassamento” sta per “schiacciante superiorità”: se nessun screening è imposto, chi si schiaccia?


martedì 21 dicembre 2010

Il dono del Re


Antonio Socci strizza il succo di una vecchia questione: “C’è un Re così grande, ricco e potente che possiede tutto. E dunque ti regala non solo pietre preziose e perle, ma il mondo intero con tutte le sue meraviglie. Però non gli basta, perché noi siamo insoddisfatti e infelici, e allora vuole donarti di più. Potrebbe regalarti la felicità (per cos’altro tutti ci agitiamo se non per la felicità?) oppure potrebbe regalarti la bellezza, o la pace del cuore o l’amore o il calore dell’amicizia e potrebbe perfino regalarti tutto questo per l’eternità, senza più la tristezza della fine e della morte. Ma ha deciso di farti un dono ancora più grande dove tutto questo è contenuto: se stesso, il suo unico e meraviglioso Figlio che letteralmente «è» tutto questo. Infatti Gesù è la vera felicità, la pace, l’amore, la gioia, la vita e lo è per sempre. E allora come si fa – davanti a un tale Re che ti dona se stesso e tutto il suo regno, senza che tu lo meriti neanche lontanamente – come si fa a non essere strafelici e a non essere mossi spontaneamente, anche noi, a donare?” (Libero, 21.12.2010).

Obiezione: mai visto il Re e comunque sono contrario alla monarchia, posso rifiutare il dono ed essere lasciato in pace?


Nichi Vendola non mi piace e non mi convince



“Il capitalismo ormai non è solo incompatibile
con la democrazia: è incompatibile con la vita”

Ho già detto che Nichi Vendola non mi piace e ho usato questa espressione perché mi sono limitato a usare categorie estetiche, parlando dell’irritazione che mi procurano il suo cristianesimo alla Jovanotti, il suo cattolicesimo da festa del santo protettore, il suo lessico psichedelico, il suo comunismo tutto letterario, il suo populismo sentimentale, la sua omosessualità ostentatamente sobria (e non è un ossimoro). Dopo due mesi il post continua ad essere commentato, per lo più da lettori ai quali invece Nichi Vendola piace, piace molto, piace al punto da rimproverarmi che non piaccia pure a me quanto piace a loro. Penso, dunque, che sia il caso di passare a un giudizio propriamente politico e approfitto dell’editoriale di Ernesto Galli della Loggia che oggi apre il Corriere della Sera (L’orecchino populista), perché mi torna utile a semplificare.
Dico subito che l’editoriale sembra assai benevolo, in alcuni punti addirittura lusinghiero. In pratica, Ernesto Galli della Loggia scrive che Nichi Vendola è il meglio che potesse capitare a una sinistra che, “con la fine dell’impianto ideologico che arriva all’Italia della Prima Repubblica dal cuore della modernità otto-novecentesca” e “con il declino dell’industrializzazione e dei suoi attori, con l’impallidimento dei grandi luoghi aggregativi della socializzazione come la famiglia, la Chiesa, i partiti, i sindacati”, era tenuta ad abbandonare “la «storia» come termine essenziale di riferimento” per “sostitu[irla] con la «vita»”: nessuno meglio di Nichi Vendola, che sostituisce l’ideologia con “immagini ed emozioni”, e che “non parla” ma “intesse delle «narrazioni»”, nelle quali “la politica è quasi esclusivamente evocazione di sentimenti”.
Sembrerebbe un giudizio positivo, se non fosse che per Ernesto Galli della Loggia, levato il portato ideologico, alla sinistra resta il suo moralismo (“dovuto al suo credersi portatrice privilegiata di istanze etiche”) e la sua epica “etno-populistica”, che dal mito dell’eroe proletario – operaio, contadino, studente – è decaduto all’icona di “un modello divistico di tipo rockettaro-televisivo”: Nichi Vendola è quanto di meglio può incarnare questa evoluzione, ma si tratta di una dimensione politica che, “lungi dall’essere argomentazione razionale di problemi concreti e di soluzioni possibili, è soprattutto retorica e oratoria fusionale, identificazione emotiva tra chi «narra» e chi ascolta”. Affabulazione etico-estetica, dunque, e tutta autoreferenziale: al posto della politica c’è il “pathos della «vita»”, e Nichi Vendola ne è il miglior medium possibile.
Sembrava un giudizio positivo, ma è una sentenza di condanna senza appello: per la sinistra – e per Nichi Vendola. Condanna che io trovo condivisibile. Da liberale, non posso ritenere questa narrazione migliore di quella che Silvio Berlusconi è riuscita a incarnare per catalizzare il blocco sociale di questo centrodestra: tra queste consolatorie spiegazioni di quella chimera antropologica che sarebbe il carattere nazionale italiano – in oppositis speculis – c’è la giustificazione di una differenza che ci precluderebbe l’uso della testa, dandoci il primato del cuore e dello stomaco. Questo non mi piace, ma qui l’espressione esorbita dalle categorie estetiche: non mi convince che il destino patrio debba giocarsi in una eterna guerra civile tra furbi e fessi.

lunedì 20 dicembre 2010

Di Pietro è assai invecchiato in questi ultimi 17 anni...



... La Russa è più o meno lo stesso.

19:45 - CRONACA - 20 DIC 2010


Fresca di mezz’ora, una notizia che ne implica un’altra: se c’è riciclaggio, c’è un riciclatore. Se non è Gotti Tedeschi, chi può essere?

“Corrispondente responsabilità”


È tradizione ormai consolidata che il discorso tenuto dal Papa alla Curia in occasione dell’udienza per la presentazione degli auguri natalizi sia occasione per tirare le somme dell’anno che sta per chiudersi. Discorso che con Giovanni Paolo II raramente ha superato le 10.000 battute, ma che con Benedetto XVI non è mai stato inferiore alle 20.000, come a compensare con la prolissità l’inarrivabile dinamismo del suo predecessore. Quest’anno il discorso supera le 23.000 battute, delle quali un quarto è dedicato ai numerosi casi di abusi sessuali su minori commessi da preti che sono venuti a galla nel 2010, scoperchiando una fogna dalle dimensioni immense, e Sua Santità strappa un sorriso di tenerezza nel modo in cui approccia la questione: “Con grande gioia avevamo iniziato l’Anno sacerdotale e, grazie a Dio, abbiamo potuto concluderlo anche con grande gratitudine, nonostante si sia svolto così diversamente da come ce l’eravamo aspettati” (trad.: “Tutta questa merda doveva venire a galla proprio quest’anno? Eccheccazzo!”).
Poco altro da segnalare, però è fatta un’importante ammissione: “Siamo consapevoli della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità”. Ecco, con l’ammissione di una “corrispondente responsabilità”, che ci auguriamo non sfuggirà a chi cura gli interessi delle vittime, possiamo dire che questo discorso di fine anno non sia stato del tutto inutile.


Not necessarily




[...]



Per non ripetermi, rimando a quanto ho già detto lanno scorso. Così, se non rispondo ai «Buon Natale» che verranno, non sembrerà scostumatezza.
 
 

Passa al cabaret

Luigi Ferrarella (1) e Michele Ainis (2) firmano due articoli che smerdano Maurizio Gasparri come merita. Massimo D’Alema (3) ci prova, ma si affida interamente a quel suo fare sprezzante che dà per superflua ogni argomentazione. Così, tutto sommato finisce per smerdarsi un poco pure lui, perché l’uomo politico, inteso come professionista della politica, è uno che deve produrre argomenti convincenti e qui D’Alema non ne produce: Gasparri sbaglia perché è Gasparri. D’Alema viene meno a un suo preciso dovere, quello di produrre argomenti convincenti perché la proposta di un avversario politico risulti insensata anche a chi non condivida il pregiudizio negativo sulla sua persona, e lo evade nell’intrattenimento dei fidelizzati.
Ritengo assai grave questa mancanza. Nello specifico penso che un professionista della politica avrebbe dovuto essere capace di sintetizzare gli argomenti di Ferrarella e di Ainis, spiegandoli in modo semplice e chiaro in non più di 45 secondi. Difficile? E allora rinuncia alla politica e passa al cabaret.

(1) “Prima il Guardasigilli mobilita gli ispettori quando non gli piacciono le sentenze, poi il titolare del Viminale immagina per i cortei un divieto come il Daspo agli ultrà, e ora il presidente dei senatori pdl rimpiange gli arresti preventivi Anni 70. Tra i danni collaterali delle gravi violenze del 14 dicembre nel centro di Roma, che non possono trovare giustificazioni e che meriteranno i rigori di legge a coloro che ne saranno accertati responsabili, il fine settimana appena trascorso segnala che una cortina fumogena di slogan sta annebbiando la percezione del principio di separazione tra poteri dello Stato. Un giorno il ministro della Giustizia Alfano, annunciando ispezioni ai giudici sgraditi, manifesta la propensione a voler decidere lui se una scarcerazione che non gli garba sia giusta o no. Un altro giorno il ministro dell’Interno Maroni accarezza l’idea di estendere i divieti Daspo dagli stadi di calcio alle piazze, e così di essere di fatto lui, tramite i Questori, a decidere chi non debba più partecipare a manifestazioni pubbliche. E ieri Gasparri chiude il trittico con il suo «qui ci vuole un 7 aprile, e mi riferisco al giorno del 1978 in cui furono arrestati tanti capi dell’estrema sinistra collusi con il terrorismo». Quest’ultimo vagheggiamento è arduo persino da prendere in considerazione, visto quanto lo vizia il concentrato di errori (era il 1979 e non 1978), confusioni di contesto (l’Autonomia Operaia negli anni delle Br), e scarsa memoria degli striminziti esiti giudiziari per molti dei 140 indagati. Per parte sua, il Guardasigilli sorvola sul fatto che, quand’anche siano erronei i presupposti della decisione dei giudici di confermare l’arresto dei 22 fermati dalla polizia ma di non trattenerli in carcere in vista del processo di giovedì, il rimedio previsto dalla legge non è l’ispezione ministeriale minacciata al Tribunale, ma l’appello della Procura contro le scarcerazioni innanzi al Tribunale del Riesame. Analogo stridore promette l’applicazione ai cortei dell’odierno «Divieto di Accedere a manifestazioni Sportive» (Daspo) da uno a 5 anni per chi in passato abbia preso parte o inneggiato a episodi di violenza. A imporlo, infatti, non è un giudice ma il Questore, cioè una emanazione del potere esecutivo; e come presupposto non c’è bisogno di una sentenza ma basta anche solo una semplice denuncia di polizia. Il destinatario può solo sottoporne i profili amministrativi al Tar, mentre il giudice penale interviene solo qualora il Questore imponga anche l’obbligo di firma (ammesso dalla Consulta nel 2002 proprio perché sottoposto a controllo giurisdizionale). Sembra poi sfuggire, se trapiantata nelle piazze, la delicatezza delle conseguenze per chi, colpito da un divieto amministrativo del Questore sulla base solo di una denuncia, non facesse altro che partecipare lo stesso a una manifestazione: arresto in flagranza, processo per direttissima, condanna da 1 a 3 anni e multa da 10 mila a 40 mila euro. Per capire che sarebbe un pericoloso corto circuito, prima ancora di doversi aggrappare agli articoli 16 e 21 della Costituzione su libertà di circolazione e di espressione, forse può bastare il buon senso. Irrobustito da una gestione dell’ordine pubblico più accorta nell’isolare nei cortei i violenti. E presidiato da sentenze che dalla magistratura bisogna pretendere non «esemplari» , ma pignole e sollecite: come per gli scontri tra estrema destra e centri sociali di sinistra antagonista che l’11 marzo 2006 devastarono il centro di Milano, e che già nel 2008 videro diventare definitive in Cassazione sentenze capaci di distinguere 15 pesanti condanne (a 4 anni nonostante lo sconto di un terzo per il rito abbreviato) da 11 assoluzioni” (Poteri dello Stato. Il cortocircuitoCorriere della Sera, 20.12.2010).

(2) “Calma e gesso, per favore. Anche perché di scalmanati in abito gessato ce n’è fin troppi in giro. A cominciare dall’onorevole Gasparri, che invoca arresti preventivi, retate di massa, e in conclusione un nuovo 7 aprile. Insomma la ricetta del 1979, benché Gasparri abbia citato il 1978. E allora proviamo a dare i numeri, di questi tempi non saremo i primi a farlo. Proviamo a misurare sui numeri della Costituzione non tanto la sparata di Gasparri (qui è più facile: zero), quanto piuttosto l’idea di Mantovano e di Maroni, quella d’esportare ai manifestanti il Daspo che s’applica ai tifosi. Ossia il divieto comminato dal questore - e dunque senza una pronuncia giudiziaria - a carico di persone che si ritengono pericolose, impedendo loro d’entrare in uno stadio, o per l’appunto in una piazza gremita da cortei. Sulle prime, parrebbe una misura di buon senso. Se il Daspo ha funzionato per i disordini sportivi, perché non dovrebbe rivelarsi altrettanto efficace per i disordini politici? Peccato tuttavia che non abbia senso equiparare il diritto di tifare per la Lazio al diritto di manifestare contro la Gelmini. Peccato che ai costituenti interessasse la regolarità delle elezioni, non la regolarità dei campionati. Peccato infine che il libero esercizio del diritto di voto è possibile soltanto a condizione che il voto venga espresso in un clima democratico, con un’informazione pluralista, con un dissenso garantito in Parlamento e nelle piazze. Insomma i diritti non sono tutti uguali: taluni hanno dignità costituzionale, altri s’esercitano sotto l’ombrello della legge. E a loro volta i diritti costituzionali non pesano sempre in modo eguale: come diceva Bobbio, i diritti politici sono strumentali a tutti gli altri, e dunque li precedono, e dunque vantano uno statuto superiore. Significa che subiscono soltanto restrizioni circoscritte, tassative, temporalmente limitate. Altrimenti, se la sicurezza fosse un passe-partout per scardinarli, tanto varrebbe vietare le manifestazioni. Faremmo prima, e con un risultato garantito. Tuttavia non è possibile, vi s’oppongono per l’appunto i numeri della Costituzione. Articolo 16: chiunque può circolare in ogni contrada del nostro territorio, salvo i limiti che la legge disponga in nome della sicurezza. Ma guarda caso tali limiti non possono mai venire ispirati da ragioni politiche. Articolo 17: la libertà di riunirsi può essere negata per motivi («comprovati») di sicurezza pubblica, ma non ai singoli, bensì all’intero gruppo che chiede di manifestare. Articolo 27: la responsabilità penale è personale, e c’è inoltre una presunzione d’innocenza fino alla sentenza definitiva di condanna. Vuol dire che non è reato partecipare a un corteo dove altri commettono reati, e vuol dire inoltre che i reati sono tali solo quando lo dichiara un giudice, e nessun altro giudice possa rovesciare il suo verdetto. Al limite, se proprio vogliamo un Daspo politico dopo quello sportivo, se ne potrà forse discutere per chi ha subito una condanna, quantomeno in primo grado. E c’è in ultimo un risvolto politico di queste chiacchiere imprudenti, ben più saliente del profilo giuridico. Perché nessuno ha mai evocato misure preventive di polizia dopo i fatti di Genova, dopo altri disordini che pure hanno scandito gli anni Zero? Che c’entra Roma del 2010 con Padova del 1979, dove i professori insegnavano con un coltello alla gola? Risposta: niente, non c’è niente in comune. C’è solo una politica, una classe dirigente, una generazione di governo che ha bisticciato con la nuova generazione, e allora mostra i muscoli, non avendo altro da mostrare” (Ma i diritti non sono uguali per tuttiLa Stampa, 20.12.2010)

(3) “Non commento mai le dichiarazioni dell’onorevole Maurizio Gasparri” (Che tempo che faRaitre, 19.12.2010)


«A due a due»



Perché Gesù li mandò «a due a due»? Vi risparmio la cazzata che riesce a partorire il signorino che Avvenire ha promosso a editorialista, mi limito a segnalare la sua autorevolezza come esegeta biblico: non è nel Vangelo di Luca che Gesù manda i Dodici «a due a due», ma in quello di Marco (Mc 6, 7).


Il lavoro di informare


Enrico Negrotti incorre in molte imprecisioni nell’informare i lettori di Avvenire (19.12.2010 – pag. 14) circa le “nuove indicazioni per l’assistenza alla gravidanza fisiologica […] predisposte da un ampio gruppo di esperti sotto la responsabilità di Alfonso Mele (Istituto superiore di sanità, Iss) e coordinati da Vittorio Basevi (Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria – Ceveas – della Ausl di Modena) e Cristina Morciano (Iss)”. Si tratta delle 208 pagine della Linea Guida 20 che il Sistema nazionale per le linee guida ha pubblicato a novembre, dalle quali il Negrotti pesca a cazzo, commentando a cazzo.
“Gli esperti designati dal ministero della Salute indicano la necessità di ridurre la diagnostica invasiva (amniocentesi e villocentesi), ma allargando il percorso di ricerca di feti con sindrome di Down (Sd) anche alle donne sotto i 35 anni di età”. In realtà, gli esperti affermano che “la cariotipizzazione mediante prelievo di villi coriali o amniocentesi è l’indagine che, con certezza, consente di diagnosticare un feto affetto da sindrome di Down. Gli accertamenti ecografici e/o sierologici forniscono invece una stima del rischio. La cariotipizzazione e pertanto considerata l’indagine gold standard” (pag. 121): come se ne dedurrebbe “la necessità di ridurre la diagnostica invasiva” intuita dal Negrotti? Mistero. Tanto più che poche pagine dopo si legge che “il percorso per la diagnosi prenatale della sindrome di Down deve essere offerto a tutte le donne entro 13+6 settimane” (pag. 125); e una dozzina di pagine prima che “l’individuazione in una fase precoce della gravidanza di anomalie fetali consente alla donna di prepararsi psicologicamente alla nascita del bambino, di organizzare il parto in una struttura con rapido accesso nel periodo neonatale a prestazioni specialistiche o a cure palliative, di eseguire eventuali terapie intrauterine o di riflettere sulla decisione di interrompere la gravidanza” (pag. 111).
Interrompere la gravidanza non è esclusa dalle finalità dello screening diagnostico ed è messa fra “le decisioni che devono essere prese dalla donna” (pag. 111), sicché si raccomanda di evitare di “ritardare la diagnosi di anomalie fetali e di conseguenza non concedere alla donna l’opportunità di valutare le diverse opzioni” (pag. 118), “in modo che possa compiere una scelta riproduttiva consapevole (proseguire o meno la gravidanza)” (pag. 120). Dettagli che non sfuggono al Negrotti che infatti dà voce a un genetista dell’Università Cattolica e a un ginecologo del Policlinico «Gemelli» che da copione stigmatizzano la libertà di scelta della gravida. Il fatto è che la Linea Guida 20 avverte in apertura che le linee guida sono solo “raccomandazioni di comportamento” e che “possono [non debbono] essere utilizzate come strumento per…” (avantesto, I), e dunque non dispongono, ma propongono: i medici cattolici, volendo, potranno sconsigliare ogni diagnostica, anche tutte. Il Negrotti, invece, tende a mostrarsi ansioso come avesse sotto gli occhi vere e proprie vessazioni.
Non è tutto. L’articolo del Negrotti ha per titolo un proditorio “In gravidanza meno esami…”, che non corrisponde alla sostanza della Linea Guida 20, “… e più lavoro alle ostetriche”, che vi corrisponde ancor meno. In realtà, si raccomanda di razionalizzare gli esami diagnostici per classe di rischio e ci si limita a suggerire, come “raccomandazione alla ricerca”, di effettuare “studi clinici controllati per valutare l’efficacia dell’assistenza alla gravidanza fisiologica fornita da figure professionali diverse”.
E il lavoro del Negrotti è quello di informare.

domenica 19 dicembre 2010

Socialisti pre-craxiani e post-


“Non trovavo un posto dove Eluana potesse andare in pace – racconta Beppino Englaro – poi il mio Friuli mi ha dato una mano: i vecchi socialisti, Gabriele Renzulli, il senatore Ferruccio Saro, si sono prodigati” (Micromega, 2/2009). Si saranno prodigati perché ritenevano giusto che fosse rispettata la volontà di Eluana Englaro? In questo caso potremmo dire che ci sono ancora in giro dei socialisti pre-craxiani – calma, calma, mi spiego subito – di quelli come Loris Fortuna, laici, libertari, anticoncordatari.
Sui socialisti non si dovrà mai smettere di dire che Pietro Nenni votò contro l’art. 7 della Costituzione (Palmiro Togliatti a favore) e che Bettino Craxi firmò un Concordato di poco diverso da quello che firmò Benito Mussolini: voglio dire che, prima di Gennaro Acquaviva, di Luigi Covatta e soprattutto di Gianni Baget Bozzo, il Psi non era viziato ancora da quel pragmatismo che poi lo rese così sensibile ai bisogni del Vaticano, in primo luogo a quelli di natura economica. In campo laico – per ciò che “laico” può significare in questo caso – non è Giuliano Amato il primo a rimettere in discussione la legge 194? Il testo base era stato scritto da un socialista, Vincenzo Balzamo. E dunque, tornando a noi, Saro e Renzulli sono gli ultimi socialisti di un socialismo – adesso mi auguro sia chiaro cosa intenda dire – pre-craxiano?
Sul senatore Ferruccio Saro prenderemo informazioni, ma intanto possiamo dire di Gabriele Renzulli, d’intanto diventato direttore del Centro «La Quiete», proprio quello che ospitò Eluana Englaro perché fosse fatta infine la sua volontà. Lo leggiamo in un articolo (Avvenire, 19.12.2010 – pag. 7) che riporta quanto auspicato dall’arcivescovo di Udine, monsignor Andrea Bruno Mazzocato, al termine della Messa di Natale celebrata nella casa di cura diretta dal Renzulli: “Mi auguro che certi momenti drammatici d’ora in poi vengano risparmiati a Udine”, subitissimamente tranquillizzato dal Renzulli: “Questo è un luogo di fede, di speranza, di vita, dal primo all’ultimo istante”.
Si pone una delicata questione: in virtù di quale principio il Renzulli si era prodigato nel caso Englaro? Quello del favore personale dovuto a un compagno. E noi che pensavamo fosse un pre-craxiano.

Tutti a casa



 

Consigli per gli acquisti



“Dateci più di quanto ci dà Berlusconi e ve lo togliamo dai coglioni”

Ieri, Avvenire apriva con un editoriale a firma di Francesco D’Agostino (La riscoperta dell’etica) che sembrava una risposta all’editoriale a firma di Paolo Flores d’Arcais che aveva aperto Il Fatto Quotidiano di due giorni prima (Se Bagnasco fa politica). Quanto scrive D’Agostino merita una attenta lettura perché, con l’appoggio che Cei e Segreteria di Stato Vaticano hanno di recente dato al governo, fa valva della stessa cozza; e al primo colpo d’occhio va rilevato che la valva politica è toccata a un cardinale, quella dottrinaria tocca a un laico.
È Angelo Bagnasco, infatti, ad aver sottolineato l’esigenza di continuità e stabilità nella difficile crisi di sistema che fa dell’Italia un malato terminale, e l’ha fatto con un pressing neanche troppo nascosto su Casini perché l’Udc dia a Berlusconi i numeri necessari per durare, con ciò assestando un micidiale colpo a quei cattolici che dal centrosinistra implorano da sempre un intervento delle gerarchie ecclesiastiche contro il “corruttore morale della società e della politica” (Rosy Bindi – Ballarò, 14.12.2010); tocca a D’Agostino, invece, spiegare a Flores d’Arcais perché “il più lurido mercato delle vacche cui sia stato dato assistere nel Parlamento italiano [sia stato] così santificato dal presidente della Conferenza episcopale”, e facendo ricorso alla dottrina.
Sembra strano? Non lo è. Da tempo le gerarchie ecclesiastiche sono attori politici e hanno delegato ai loro laici di fiducia la parte più seccante e fastidiosa della politica, che è quella di trovare argomenti alti a comportamenti bassi. Tocca a Fisichella coprire Berlusconi quando bestemmia e s’accosta all’eucaristia da divorziato, a Bertone premere su Casini, a Bagnasco mandare a cagare i cattolici del Pd, mentre il Papa ricorda che i laicisti sono pericolosi come i fondamentalisti islamici e che levare i crocifissi dai luoghi pubblici è come sgozzare cristiani a Mossul; tocca a D’Agostino, invece, spremere bignamini di Catechismo e Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa per dimostrarci che l’etica pubblica è cosa diversa dal moralismo che pretenderebbe di farsi ragione cristiana contro il peccatore pubblico.

Flores d’Arcais aveva scritto: “In uno dei passi più noti del Vangelo (Lc 16,13), Gesù di Galilea condanna l’avidità di ricchezze con il definitivo «voi non potete servire Dio e Mammona», e in Italia non c’è nessuno che – con decenni di tetragona coerenza nei comportamenti pubblici e privati – abbia dimostrato di rappresentare e incarnare i (dis)valori di Mammona meglio del signor Berlusconi da Arcore. Ma al capo dei vescovi italiani, la smisurata ed esibita corruzione del potere e del danaro, imposta dal malgoverno di regime come supremo criterio di valutazione morale, sembra invece rappresentare un giulebbe di onestà e buona volontà”.
Proprio perché “crede profondamente nell’esistenza e soprattutto nella necessità dell’etica pubblica” D’Agostino sente “il dovere di dissociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’adeguata consapevolezza teoretica”, e indubbiamente Flores d’Arcais ha degradato la faccenda a mera questione di prassi. Non sia mai: “L’etica pubblica, infatti, è esigente. […] Chi crede nell’etica pubblica non può non credere alla sua assolutezza: non è possibile, infatti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tempo cedere a tentazioni relativistiche. Se l’etica è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte etiche siano plurime e insindacabili, non si vede perché non debbano essere parimenti plurime e insindacabili le scelte etiche pubbliche. Per criticare come immorali le scelte pubbliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo etico corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono ammetterlo) la vita individuale”.

Un vescovo di quelli ipertiroidei sarebbe stato assai più “politico” e avrebbe evitato ghirigori. Ma D’Agostino è più chierico di un chierico e non si abbassa al “disse la vacca al mulo”: chiede coerenza in forma di contropartita, sicché la sola presa di posizione contro il “corruttore morale della società e della politica” parrebbe compatibile solo in una dimensione da Stato etico. Non che a D’Agostino dispiacerebbe, figurarsi, ma piacerebbe a Flores d’Arcais?
Si tratterebbe di rivedere il confine tra morale e diritto, tra pubblico e privato, anzi, “si tratt[erebbe] di riconfigurare la stessa percezione di ciò che chiamiamo «pubblico». La modernità ha appreso da Machiavelli che la scienza politica non ha per suo oggetto il bene comune, ma «il potere», per come lo si può conquistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando questo paradigma, in tutte le sue innumerevoli varianti, resterà quello dominante, ogni perorazione per l’etica pubblica suonerà inevitabilmente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come autoreferenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è «pubblico» a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non semplicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espressione «etica pubblica» resterà vuota di senso”.
Un prete – un vero prete – non avrebbe potuto dirlo meglio, anzi, probabilmente sarebbe caduto in qualche grossolana volgarità del tipo: “Avete voluto Machiavelli? E adesso pedalate: dateci più di quanto ci dà Berlusconi – fateci essere arbitri del pubblico e del privato – e ve lo togliamo dai coglioni”.


Postilla Luca Massaro mi segnala un articolo a firma di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 19.12.2010) del quale è utile riportare qui un passaggio: “Il primato della tattica del ventennio ruiniano della Cei ha ridotto l’educazione al confronto che aveva formato vescovi e laici perfino durante la guerra e ha trasferito sui movimenti il compito di rappresentare differenze di posizione e di appetiti: in compenso ha creato un reticolo di interessi fra esecutivo e istituzioni ecclesiastiche che ha alterato la linea scritta nel Concordato del 1984. […] Questo reticolo e la leggendaria abilità di Berlusconi nel creare bisogni nelle controparti l’ha fatto preferire agli altri e lo rende preferibile a «la chiesa» oggi che il governo potrebbe pretendere di attivare la legge elettorale per costruire la protesi parlamentare di cui ha bisogno. Dopo aver tenuta ferma la rotta sulla stella del Quirinale per molti mesi, «la chiesa» si ritrova così parte di una maggioranza che ricresce e dovendo pagare da subito un conto salato su quei terreni — le coscienze, l’annuncio, le anime, le esistenze, la verità — che sono la sua ragion d’essere. Qualche avvisaglia la si ha per ora nelle chiacchiere. Una figura di spicco dell’economia, poche settimane fa, diceva a un prelato italiano con inaspettata veemenza: «Io sono un laico e come tale sto sempre vicino alla Chiesa. Ma voi non vi vergognate dell’appoggio che date a Berlusconi?». E una feroce battuta di Francesco Cossiga (che pochi mesi prima di morire a un amico parlamentare dilaniato dai dubbi posti dal magistero sull’embrione diceva «e tu proponi di portare l’ 8 per mille a 8 e mezzo, e tutto s’aggiusta» ) dice quale sia il rischio che corre la Chiesa in questa situazione di stabile confusione. Rischi significativi di un disequilibrio al quale nessuno sembra poter o voler metter mano”.

sabato 18 dicembre 2010

Pagina bianca


[Come sempre, quando è di tanto che ci sarebbe da scrivere, si sta davanti alla pagina bianca senza sapere da cosa cominciare e non si scrive. È il cortocircuito della grafomania e al grafomane dà una sensazione assai sgradevole che in breve diventa intollerabile e spinge a soluzioni disperate come il tentare di mettere tutto assieme in poche righe. Naturalmente in quelle poche righe non c’è traccia leggibile dei temi che si voleva trattare, ma solo l’umore che muove la scrittura in mezzo ad essi. E di solito non è buonumore, tutt’al è più grasso sarcasmo, che non di rado cede al grottesco, perfino al macabro. Bisogna addirittura mettere nel conto l’eventualità di rinunciare anche a quelle poche righe e impacchettare il malumore in una citazione letteraria o musicale, che quasi sempre sembra eloquente solo a chi la sceglie. Dal troppo dover dire, e dal sentire di doverlo dire bene, si arriva al non dir niente o quasi: uno sberleffo, un’imprecazione, un lamento, anche mal riusciti, e l’unica costante è una lucida coscienza di impotenza. Non già a ordinare il mondo per mezzo della scrittura – immenso problema – ma anche solo a esprimerne compiutamente quel disordine che spinge a provarci, che arriva a prendere possesso degli individui e dei fatti dopo averli piegati fino a renderli intrattabili a ogni logica, dunque intrattabili agli strumenti dell’espressione. Si è sorpresi dall’inutilità del provarci: è un colpo che paralizza toccando il glomo più sensibile.
Oggi, per esempio, ci sarebbe da scrivere – e tanto – sugli spazi che la politica italiana – tutta, senza eccezioni – sta lasciando alla Santa Sede e alla Cei. È un indicatore – ritengo sia il più emblematico – dello sfacelo del paese e allora ci sarebbe da scrivere – e tanto – su ciò che l’ha posto in premessa. Già qui sta in agguato una prima vertigine: averne già scritto – e tanto – sicché siamo poi certi che repetita iuvant? E a chi? Si è ormai consolidata la convinzione – talvolta si è sorpresi a constatarla dove meno ti immagineresti di trovarla – che al paese non tocchi altro che il commissariamento ecclesiastico in una rinnovata sovrapposizione e coincidenza di Stato e Chiesa, come fu dal IX al XVIII secolo. Sudditi del mostro a due teste che ha sempre spezzato le ossa ad ogni illuso che sognasse per l’Italia un qualsiasi destino laico. Sarebbe meglio che qualsiasi parodia di Prometeo buttasse via il fegato in cirrosi: portare luce ai ciechi è inutile e rischioso. ]

Velázquez



[0:52] Sua Santità è in piedi e saluta gli acrobati, coprendone la vista al fido Georg, che per non perdersi tutto quel ben di Dio è costretto a sporgersi. Il suo sorriso è degno di un Velázquez.

venerdì 17 dicembre 2010

Buon giorno


In un sistema morale che condanni l’aborto senza eccezioni e che sia pienamente recepito dalla legge – per esempio, quella irlandese – col divieto assoluto di aborto (anche quando la gravidanza metta in pericolo la salute psichica e fisica della gravida), non c’è possibilità di scelta: crepare pur di non dannarsi l’anima è imposto. Una donna ha ottenuto giustizia presso la Corte di Strasburgo e dovrà essere risarcita per il rischio che le era stato imposto dalla legge irlandese, che adesso è chiamata a emendarsi ammettendo eccezione a un principio fin qui dichiarato inderogabile. Due sole possibilità sono ammesse: uscire dall’Europa o adeguarsi; difendere l’assolutezza del principio o no. Superfluo dire che, quando un principio smette di essere assoluto, mette in discussione il sistema morale che lo dichiara tale: questa sentenza è dirompente.


giovedì 16 dicembre 2010

[...]




Ripetutamente



Arriva una risposta ufficiale delle gerarchie ecclesiastiche a Rosy Bindi, che l’altrieri invocava l’intervento dell’autorità morale della Chiesa contro il “corruttore morale della società e della politica” (Ballarò, 14.12.2010). La risposta che le davo io, ieri, non era affatto dura: “continueranno ad appoggiare Berlusconi fino a quando sarà in grado di dar loro quanto chiedono”, scrivevo, e mi trattenevo dal quel “povera stronza” che è esplicito, oggi, nella risposta del cardinale Angelo Bagnasco. “Ripetutamente – fa notare Sua Eminenza a fine messa – gli italiani si sono espressi con un desiderio di governabilità e questo desiderio, espresso in modo chiaro e democratico, deve essere da tutti rispettato e da tutti perseguito con buona volontà e onestà”.
Se non riuscite a leggere il “povera stronza” nella risposta di Bagnasco, vuol dire che non avete confidenza col lessico delle gerarchie ecclesiastiche. Berlusconi ha stravinto le elezioni politiche del 2008, quelle europee del 2009, quelle amministrative del 2010 e nonostante tutto (per tutto è da intendersi proprio tutto) i sondaggi lo danno vincente in caso di elezioni politiche anticipate: fino a quando avrà il consenso degli italiani che lo vogliono premier, lo sarà. Visto che da premier non ha mai fatto uno sgarbo al Vaticano, perché il Vaticano dovrebbe volerne un altro?
“Corruttore morale della società e della politica”? Qui il Bagnasco si rivela assai più acuto della Bindi: Berlusconi è un prodotto della società e della politica, non è che l’italiano medio, appena più disinibito, appena più sfrenato, appena più compiaciuto di sé, della razza di peccatori che trovano simbiosi parassitata e parassitante con lo statuto antropologico del cattolicesimo, e perché dovrebbe star sul cazzo alla Santa Sede? A qualche vescovo, può darsi, ma si tratta dei vescovi ai quali la Santa Sede darà rilevanza se Berlusconi cadrà, quando cadrà: oggi sono liberi di parlare, ma solo fino a un certo punto, giusto per illudere i poveri stronzi del centrosinistra che c’è pure una Chiesa democratica” progressista”, ma in pratica non contano un cazzo. Quello che conta – sempre – è trarre il massimo utile possibile dalle congiunture storiche: è così che si diventa eterni oltre quelle. Chi non riesce a capirlo si sforzi, chi non vuole capirlo si adegui. 

Il più forte dolore di Rosy Bindi


“Oggi gli abbiamo dato una botta di assestamento non indifferente” (Ballarò, 14.12.2010 – 06:58-07:02), ma dal contesto è evidente che intendesse dire: “Oggi gli abbiamo assestato una bella botta”. Il lapsus rivela che Rosy Bindi è pentita di aver presentato la mozione di sfiducia, perché il fatto che sia stata respinta rafforza Silvio Berlusconi, ma vuol convincerci (e forse convincersi) che la cosa gli abbia inferto un colpo non da poco. E infatti questo lapsus chiude un argomento ingannevolmente consolatorio: “Dal punto di vista contabile, Berlusconi per due voti ha incassato la fiducia: non c’è dubbio. Ciò non toglie che è evidente – e su “evidente” la lingua le si inceppa – che questo governo non ha più una maggioranza politica”.
L’inganno sta nella suggestione, offerta con tono perentorio, che sia stato il voto a portare il centrodestra dai 340 deputati che aveva all’inizio della legislatura (Pdl 272, Lega 60, Alleanza per il Sud 8) ai 314 dell’altrieri: non è così, perché il voto ha solo registrato l’irreversibilità del processo che ha preso il via da Bastia Umbra, e rivelandolo non letale per il governo. Rosy Bindi pare voler eludere l’evidenza: le mozioni di sfiducia del Pd e dell’Idv facevano affidamento sui voti dell’Udc e dei finiani, e questi ultimi si sono rivelati meno dei previsti.
In tal senso le obiezioni poste da Paolo Mieli rimangono inevase, come giustamente rileva una breve nota de Il Post, ma il fatto è che Rosy Bindi non rivela solo il vizio del politico che non sa fare i conti con la realtà – con la damnatio che ciò comporta – ma anche quello del politico di ispirazione cristiana: “Il mio dolore più forte – lo voglio dire ancora una volta, visto che sono anche cattolica e credente – è che [manca] un appoggio da parte di qualcuno che quando questo è il corruttore morale del paese…”. Rosy Bindi invoca l’aiuto delle gerarchie ecclesiastiche, stupita e addolorata del fatto che Cei e soprattutto Segreteria di Stato Vaticana continuino a tenere aperta una linea di credito al governo.
Doppio errore: l’interesse prioritario della Santa Sede e dei vescovi italiani non è la morale pubblica: le gerarchie ecclesiastiche continueranno ad appoggiare Berlusconi fino a quando questi sarà in grado di offrire loro quanto richiesto; il politico che pensa di poter contare su una authority morale sovrapolitica che abbia categorie antecedenti e superiori alle logiche dell’utile non può pretendere che il proprio utile sia nelle logiche di quella authority. È il drammatico paradosso di ogni politico cattolico: contare sull’appoggio della Chiesa come authority sovrapolitica e vederselo negato per la priorità della ragion politica.


mercoledì 15 dicembre 2010

Il rientro è tipico


Quando un prete è accusato di aver abusato di un ragazzino, bisogna tener conto che quasi sempre non è vero: si tratta di una calunnia per diffamare il clero cattolico e attaccare la Chiesa, in odio al cristianesimo. Quando è vero, è ugualmente falso, perché chi abusa di un ragazzino è persona così abietta da non essere degno di essere prete, quindi in pratica non lo è. Anzi, da poco – meglio tardi che mai – a un prete che abbia abusato di un ragazzino, ma non sia stato capace di infrattarsi nella misericordiosa omertà dei suoi superiori, la Chiesa grida ufficialmente: “Tana!” e lo riduce allo stato laicale.
D’altro canto, per ridurre allo stato laicale un prete accusato di un abuso su minore bisogna provare l’abuso, e bisogna provarlo, com’è giusto, contro ogni tentazione colpevolista che si affidi interamente alle affermazioni del minore, che per definizione è immaturo e quindi sempre un po’ psicolabile, quando non è manovrato da un avvocato avido e un giornalista ateo. Poi ci sono i casi in cui il minore non merita alcun credito perché proprio quanto afferma esclude esservi stato abuso. Sarà stato un abusino, forse, ma vogliamo ingigantirlo al fine, neanche troppo nascosto, di delegittimare il prete come educatore e la Chiesa come educatrice? Per una dozzina di nerbate sul culetto – il giovane si ostinava a steccare Bach – vogliamo mettere in galera il direttore del coro? Vogliamo mettere in galera il parroco colpevole d’aver dato al chierichetto un bacio appena un po’ più appiccicoso di quello che gli avrebbe dato la zia? Ma vogliamo scherzare?
Poi ci sono i casi in cui l’accusa del minore è tanto inverosimile che neanche vale la pena di accertare se corrisponde al vero, perché c’è il rischio che l’indagine stressi il prete fino al suicidio, e questo non è bello. Infine, ci sono casi molto particolari, atipici, e solo impropriamente rientrano nella categoria degli abusi su minori da parte di un prete.
In quello che ci sta sotto gli occhi oggi, per esempio, l’accusato è prete, ma non lo era quando avrebbe commesso l’abuso. Di più, a quei tempi era minore pure lui, come la presunta vittima. Tutto sarebbe accaduto nella St. Paul’s Church di Jersey City, dove Keith Brennan sarebbe stato ripetutamente abusato da Keith Pecklers, quando avevano rispettivamente 14 e 17 anni. A far del caso una questione che riguarda comunque la Chiesa, tuttavia, non è solo il fatto che tutto sarebbe accaduto – se è accaduto – sotto gli occhi irresponsabilmente distratti di un prete che avrebbe dovuto accorgersene ed impedirlo, come spetta di dovere a qualsiasi adulto al quale siano stati affidati dei minori: qui, il prete che avrebbe dovuto farlo, tal Thomas Stanford, quando è stato informato dal Brennan, l’ha stuprato a sua volta e ha coperto il Pecklers.
Così coperto, il Pecklers si incamminò speditamente in carriera, prendendo la tonaca da gesuita e diventando in breve un apprezzato docente di Liturgia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e il Pontificio Istituto Liturgico «Sant’Anselmo». Autore di una decina di volumi, padre Pecklers è considerato un’autorità nel suo campo e c’è chi lo mette fra i frondisti che hanno storto il muso al Summorum Pontificum, il motu proprio che ridà lustro al messale di Pio V, dandogli patente di “progressista”.
Padre Pecklers non nega l’addebito di Brennan, ma si limita a farci notare che era troppo giovane per poter commettere gli abusi che gli sono addebitati. Rientriamo nell’ordine dell’assunto posto in incipit (quando un prete è accusato di aver abusato di un ragazzino, quasi sempre non è vero): il caso è atipico, ma il rientro è tipico. E qui viene meno l’assurda distinzione tra “tradizionalista” e “progressista” sulla quale molti laici si ostinano: nel cuore delle questioni centrali dell’esser prete, un prete è un prete.


martedì 14 dicembre 2010

lunedì 13 dicembre 2010

Sssss, si sussurri solo


L’altrieri sono state rese pubbliche le Disposizioni relative alla persona del fondatore della Legione di Cristo decise dalla Santa Sede nell’ambito del riordino statutario e organizzativo della congregazione fondata da padre Marcial Maciel Degollado, morto due anni fa, dopo aver scaricato il suo camion di merda in mezzo a Piazza San Pietro. Disposizioni relative alla memoria, insomma, con un fine non da poco: cancellare la figura del fondatore senza traumatizzare troppo il fondo.

“Negli scritti istituzionali, il modo di riferirsi a P. Maciel sarà «fondatore della Legione di Cristo e del Regnum Christi» o semplicemente «P. Maciel». È confermata la disposizione per cui nei centri dei Legionari e del Regnum Christi non possono essere collocate fotografie del fondatore da solo o con il Santo Padre. Le date relative alla sua persona (nascita, battesimo, onomastico e ordinazione sacerdotale) non si festeggiano. L’anniversario della sua morte, 30 gennaio, sarà un giorno dedicato particolarmente alla preghiera. Gli scritti personali del fondatore e le sue conferenze non saranno in vendita nelle case editrici o nei centri e opere della Congregazione. […] A chi lo desideri [è consentito] conservare privatamente foto del fondatore, leggere i suoi scritti o ascoltare le sue conferenze. Allo stesso modo nulla impedisce che il contenuto di tali scritti si possa usare nella predicazione”.

V’è distillata tutta la sapienza dei Padri che non sono stati smascherati come – sssss, si sussurri solo – P. Maciel.

L’intersecarsi dei microvortici, quello è


Pro o contro Berlusconi, alla Camera sono più vibranti che al Senato, non c’è proprio paragone. I pro di Montecitorio ardono di passione, sono quasi commoventi nel ridicolo, sembra quasi che stiano lì a difendere un’idea prima che il culo del loro padrone; i contro hanno tutti un bel piglio alla Matteotti e sembrano anche loro esser pronti a tutto per difendere un’idea, se solo si capisse quale. A Palazzo Madama, stamane, c’era tensione ma non andava oltre l’ovvio, anzi, stava un po’ sotto: i contro erano loffi e trascinavano stanchi il loro moscio piagnisteo, qua e là screziato da qualche sussiegoso brontolio di indignazione; i pro erano meccanici perfino nella strafottenza e, anche quando s’è dovuto fare l’ola al capo, l’onda non aveva plateau. Ho una mezza idea su questa sostanziale differenza di umore – se non di umore, di tono – tra i deputati e i senatori: al Senato non c’è stato bisogno di fare alcuna campagna di acquisti, ma alla Camera sì.
Quest’aria frizzantina di Montecitorio è data dall’intersecarsi dei microvortici psichici solitamente emessi da troioni e verginelle messi all’incanto, a sorpresa: vapori invisibili che si sprigionano dai corpi di chi si vende, con maggiore o minore convinzione, e di chi rinuncia a farlo, mezzo fiero e mezzo pentito; e che generano moti convettivi – come si dice – very high miscibility. Roba intensa, insomma, e altamente instabile. Eccitante, se si vuole. 

  

La differenza


“Gianfranco Fini ha cambiato idea su tutto”, a rimproverarglielo con più durezza, oggi, c’era Marcello Pera  dico: Marcello Pera  del quale sarà utile citare:

“Come alla caduta di altri regimi, occorre una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione. Il processo è già cominciato e per buona parte dell’opinione pubblica già chiuso con una condanna” (La Stampa, 19.7.1992)
“Che Borrelli e Di Pietro siano gli sconfitti mi pare evidente e la sentenza della Corte di appello di Milano mi fa inevitabilmente ripensare al famoso «io quello lo sfascio» di Di Pietro. Cosa avevano nel ’94 per giustificare quei toni?” (Corriere della Sera, 10.5.2000)

“Concordato e laicità sono concettualmente incompatibili, così come è incompatibile concordare la libertà di scienza con il rispetto delle Scritture” (L’identità degli italiani, Laterza 1993)
“Non basta più l’ideologia liberaldemocratica, occorre dare un fondamento morale alla politica. E si deve pescare lì, nella tradizione. E noi quale abbiamo? Quella giudaico-cristiana” (Ansa, 23.8.2005)

“Ma c’è vita psichica nell’embrione? È bene rendersi conto che la scienza non darà mai risposte definitive a questo quesito; darà solo risposte fallibili e rivedibili. Ma questa è una ragione in più per dare spazio alla libertà dell’individuo e al pluralismo dei valori” (Corriere della Sera, 27.2.1987)
“Feto e embrione non sono persone? Forse perché sono piccoli e la vita dei piccoli può essere sacrificata a quella degli adulti? Forse perché un piccolo omicidio non è un omicidio autentico?” (Introduzione a Joseph Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli 2005)

“Almeno per la coscienza moderna, il cristianesimo non parla allo Stato ed è dubbio che parli al cittadino. Il cristianesimo parla all’uomo, alla persona, mentre per il resto lascia a Cesare quel che è di Cesare. Ecco la vera ragione per cui, nelle circostanze date, richiamare le radici cristiane nel preambolo del trattato costituzionale europeo è pressoché impossibile” (Panorama, 6.11.2003)
“Ciò che è in corso in Europa è una apostasia del cristianesimo, una battaglia su tutti i fronti, dalla politica alla scienza, dal diritto ai costumi, in cui la religione tradizionale europea, quella che l’ha tenuta a battesimo e allavata per secoli, assume la veste dell’imputato di colpe che vanno dalla minaccia allo Stato laico all’ostacolo alla coesistenza sociale, all’avversione alla ricerca scientifica. Il risultato complessivo è che in un’Europa senza Dio gli europei convivono senza identità. […] Se davvero vuole unificarsi, l’Europa deve dirsi cristiana” (Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondadori 2008)

Si potrebbe continuare a lungo, perché nel volgere di pochi anni Pera ha cambiato idea su tutto, proprio come Fini, però con una sostanziale differenza: ad ogni cambiamento di idea, Pera ci guadagnava e Fini ci perdeva. È ciò che fa la differenza nel cambiare idea.

Quattordici



Quando i tuoi oppositori più agguerriti sono deboli, divisi e soprattutto senza una proposta alternativa che sia forte, unitaria e rappresentata da una faccia sola, vincere non ti è difficile. Sei riuscito a fare della politica un torneo ad eliminazione diretta, chi vince la finalissima prende tutto: basta far presente ai tuoi, soprattutto a quelli meno motivati, che a te non c’è alternativa che non sia il caos; basta comprarti un tot di oppositori fra i meno agguerriti; basta buttare tutto questo in faccia al paese come la neutra realtà dei fatti; e vincere è un giochetto. Puoi anche perdere, ma poi rivinci subito.
Dunque, al dunque, non c’è bisogno di toni aspri, ma fermi: devi presentare la situazione come neutra, così la netterai di netto da tutto ciò che la tua immane testa di cazzo può aver cumulato ai tuoi stessi danni. Devi presentarti come quello che, se perde, fa il vuoto, e vuoto nero. Tutte le ragioni contro di te sembreranno meno ragionevoli e finiranno per sembrare irragionevoli, alla lunga per i più ostinati, subito per i più malleabili al tuo malleo. Tu sarai la ratio e la realtà si piegherà al tuo passaggio.

domenica 12 dicembre 2010

“Siam guelfi, sì, siam guelfi, che figata!”


Zenit.org pubblica il testo integrale dell’intervento che Lorenzo Ornaghi ha tenuto al X Forum del Progetto Culturale (creatura ruiniana ancora in seno alla Cei) sui 150 anni dell’Unità d’Italia (Roma, 2-4 dicembre 2010), del quale conoscevamo solo le conclusioni, riprese dal cardinal Ruini in chiusura del convegno. Al rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sembr[a] essersi aperto il tempo, per il cattolicesimo italiano, di manifestarsi con decisione «guelfo», se non già di originare da subito un nuovo, energico guelfismo”, e il termine non dispiace affatto a Sua Eminenza: “Nella situazione attuale – dice bisogna saper reagire a quella «secolarizzazione interna» che insidia i cattolici e la stessa chiesa” e gli pare che “guelfismo” possa andar bene a cappello. Vi lascio immaginare il tam-tam per tutto il mondo filoclericale, notoriamente avidissimo di anacronismi: “Siam guelfi, sì, siam guelfi, che figata!”. Eccitazione ai massimi livelli, come sempre davanti a ogni reliquia.
Bene, tolto il “guelfismo”, che almeno fa ridere, l’intervento di Ornaghi fa incazzare. Si prova a far credere che l’Unità abbia in sé ab origine una filatura destinata a inevitabile spaccatura, salvo a metterci il solo mastice che veramente tiene: la consapevolezza [del]la «perennità» dell’Italia cattolica e la sua «esemplarità» nei confronti di altre nazioni”. Dopo aver rivendicato il ruolo di “soci fondatori” dell’Unità d’Italia, eccoci al passo successivo: se non è guelfa, l’Italia è caduca, nazione secolarizzata fra le nazioni secolarizzate. È il prezzo da pagare per aver invitato il cardinal Bertone al 140° della Breccia di Porta Pia: se offri un dito, avanzano pretese su tutto il braccio. Davvero ci sarebbe da incazzarsi, pensiamo a ridere.
Guelfismo, dunque. Sì, ma quale? Non quello ottocentesco, dice Ornaghi. E grazie al cazzo, diremmo noi: quello già era neoguelfismo. [Per inciso, ma neanche tanto, sarebbe opportuno ricordare che fu condannato da Pio IX. I libri di Vincenzo Gioberti per esempio furono messi allIndice, e sì che il poveretto proponeva unUnità d’Italia nella specie di una federazione di stati con il Papa a capo: al “metro cubo di merda” (felice definizione data da Giuseppe Garibaldi) pareva cosa troppo laica.] Se non è il guelfismo delle lotte per le investiture e se non il neoguelfismo del Gioberti, allora, di cosa si tratta? “Tornare a essere con decisione «guelfi» comporta affermare l’idea e la realtà di «italianità» quale dato storico (insieme, culturale e popolare), di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici. E c’era bisogno di scomodare una categoria così moderna come il guelfismo? Bastava dire che Roma è stata caput mundi fino a quando l’imperator era pure pontifex. Lo sanno pure i centurioni che si offrono in posa ai turisti in visita al Colosseo.


La reticenza dei parafrenieri



L’Osservatore Romano di domenica 12 dicembre dà notizia della vestizione di quattro nuovi confratelli della Confraternita dei Parafrenieri. “Gentiluomini di Corte, addetti a mansioni di fiducia legate all’esercizio del potere papale, i Parafrenieri Pontifici (dal termine «parafreno» ossia cavallo da parata) erano figure simili agli Scudieri della corte imperiale o regia”, così sul loro sito web, dove si fa presente che “allo spirito di un tempo si è sostituita una nuova coscienza che dopo il Vaticano II ha assunto l’identità di una missione comunitaria di laici che vivono nel secolo trattando le cose temporali, ma ordinandole secondo i dettami della Chiesa”, e che insomma si tratta di un comitato d’affari protetto dalla Santa Sede. Non tra i più potenti, senza dubbio, ma con una importante traccia nella storia: la Confraternita commissionò al Caravaggio un quadro che poi rifiutò, ma che rimane la Madonna dei Parafrenieri. I confratelli ci tengono a rammentarlo, ma sul rifiuto dicono di “ragioni non ancora totalmente chiarite”. E qui, spiace dirlo, non ci siamo, non ci siamo proprio.
Passi che questi signori coltivino i loro interessucci travestiti da babà con la glassa, inammissibile che provino a far gli stronzetti con la storia dell’arte, perché le ragioni del rifiuto sono note, tutte nelle splendide pagine di Maurizio Calvesi (Le realtà del Caravaggio, Einaudi 1990 – pagg. 345-352): “L’ordine di rimozione non poté partire che dallo stesso Paolo V. […] Motivo ufficiale del rifiuto fu naturalmente […] la sconvenienza delle figure, ma il rigorismo perbenistico [del papa] e la sua concezione del decoro vanno intesi […] come difesa di una dignità sociale e di classe delle immagini. […] Attraverso la condanna della sconvenienza si condannava l’ideologia pauperistica”. Gesù e Madonna ritratti da pezzenti.

Piazza Fontana




[...]




sabato 11 dicembre 2010

Volpe spelacchiata


Padre Federico Lombardi pensa di potersela cavare in questo modo: “Il contenuto dei documenti diffusi da Wikileaks riflettono le percezioni e le opinioni di coloro che li hanno redatti e non possono essere considerati espressione della stessa Santa Sede”. La formula ricalca quella già usata nelle dichiarazioni ufficiali che l’amministrazione Obama ha fatto seguire con evidente imbarazzo e sottinteso disappunto alla divulgazione delle informative che gli incaricati d’affari presso le sedi diplomatiche statunitensi avevano inviato al Dipartimento di Stato, da Parigi, Roma, Berlino, ecc. Commenti spesso assai severi, ma sul filo del si dice e comunque, almeno fino ad ora, mai circostanziati riguardo a fatti penalmente rilevanti: Nicolas Sarkozy permalosetto e borioso, Silvio Berlusconi vanitoso e incapace, Angela Merkel opaca e insicura, vox populi distillata in ambasciata e cablata comunque a titolo personale, per quanto variamente titolato.
Qui, con le carte divulgate ieri da Wikileaks via Guardian, le cose sono messe in modo alquanto diverso, e tuttavia la volpe spelacchiata che dirige la Sala Stampa Vaticana pensa di poter glissare come se il diplomatico irlandese accreditato presso la Santa Sede si fosse lasciato andare ad affermazioni attinenti al mero opinabile. Non è così: qui abbiamo accuse precise che hanno valore documentale e che sono prova di quanto peraltro si è sempre saputo: la linea di Roma sugli abusi sessuali a danno di minori da parte di membri del clero cattolico è sempre stata quella dell’insabbiamento dei reati e dell’ostruzionismo alla giustizia civile. Qui è provato per i gravi reati commessi dal clero irlandese, ma perché ritenere che non sia sempre stato così omni urbi e toto orbe?
Con la pretesa di essere al di fuori e al di sopra delle leggi civili, la Santa Sede ha opposto resistenza alle indagini. Ha cercato di ostacolare il decorso delle giustizia tentando di sottrarre i suoi preti al giudizio. Ha commesso quella obstruction of justice della quale il cardinale Ratzinger ha potuto fare a meno di rispondere solo perché venuto a godere della immunità dovuta ai capi di stato estero con la sua elezione al Soglio Pontificio. Ora, però, si pone un problema diverso: menzogne e omertà sono opera dei suoi ministri, che devono risponderne come per personale iniziativa o per condotta soggetta a mandato. E dunque: insabbiavano obbedendo al Papa o contro le sue disposizioni? Cosa è più verosimile per gradi così alti della gerarchia ecclesiastica?
Infine, è da considerare la natura degli addebiti in relazione a chi li formula: non si tratta di  una Elisabeth Dibble che parla dei party selvaggi che si terrebbero ad Arcore secondo quanto vorrebbe una vulgata; qui il diplomatico che lamenta le scorrettezze della Santa Sede è parte in causa come tramite di istanze e procure, quindi le sue opinioni e le sue percezioni non sono caciotte appese in aria, ma pareri informati.  Non ancora la vera verità, ma uno dei suoi lati: la Santa Sede ha cercato di sottrarre alla giustizia i suoi preti pedofili. Autori, mai come in Irlanda, di crimini gravissimi.

Eccheccazzo


“«Ho dato cinquecento milioni brevi manu a Giuliano Ferrara», dice Tanzi. La tensione, nella cella dove avviene l’interrogatorio, è alta. I pm chiedono: in che senso? Sul verbale si legge: «A domanda risponde...». E la risposta del signor Parmalat è questa: i soldi li ho portati io personalmente a Roma al direttore Ferrara, erano contenuti in una borsa. Non ricordo se fossero cinquecento milioni o un miliardo. I pm insistono e chiedono: Ferrara che cosa le disse? Risposta di Tanzi: «Mi disse solo: grazie»”

Libero, 5.3.2004

Il Foglio non ha dedicato neanche un rigo alla condanna di Calisto Tanzi. Né ieri, né oggi, eccheccazzo, chissà lunedì.