martedì 22 febbraio 2011

Da mandarlo a cagare, insomma


Al professor Francesco D’Agostino piace scassare il cazzo al prossimo e, in vista del dibattito parlamentare su un disegno di legge che intenderebbe negarci il diritto di rifiutare che ci venga ficcato un tubo di plastica in gola contro la nostra volontà, Avvenire gliene dà occasione. “Il tema è giuridicamente complesso ed emotivamente coinvolgente – scrive – [e] dovrebbe essere affrontato con pacatezza di ragionamento, sobrietà lessicale, assenza di pregiudizi, rinuncia all’uso di toni superfluamente emotivi, rispetto nei confronti delle opinioni diverse dalle proprie”, ma si tratta solo di una volgare provocazione, perché fa esattamente il contrario: si scalda, provoca, offende e, soprattutto, dà per assodato ciò che non lo è affatto. Da mandarlo a cagare, insomma.
Il suo editorialuccio prende da subito una piega intollerabile: chi non la pensa come lui, che si autodefinisce “realista”, è un “ingenuo illuminista” che “alza continuamente la voce”, dando corpo ad “aspre e insensate polemiche” che hanno come ultimo fine quello di attentare al “diritto più prezioso, quello della vita”. Alla faccia del “rispetto per le opinioni diverse dalle proprie”, chi non la pensa come il professor D’Agostino è uno sconsiderato.
“Il disegno di legge cerca di trovare una saggia e difficile mediazione tra la tutela della vita, soprattutto quella dei malati terminali, considerata comunque un bene indisponibile, e il diritto di ogni persona a non essere sottoposta ad alcuna forma di accanimento terapeutico e soprattutto a quelle che essa consapevolmente rifiuti”. Sarebbe questa, la “sobrietà lessicale”?
Se la vita non è nella disponibilità di chi la vive, se un tubo ficcato in gola non è terapia, di quale consapevole rifiuto si ha diritto? Non c’è spazio per alcuna mediazione: il disegno di legge mira solo a rendere obbligatoria per tutti un’opzione che a molti pare intollerabile. Quella opposta, al contrario, non impone ad alcuno delle scelte obbligate: ciascuno decide per se stesso circa i tempi e i modi del proprio fine vita. Quale “saggia e difficile mediazione” sarebbe possibile tra le due opzioni? Se il disegno di legge trovasse l’approvazione del Parlamento, l’autodeterminazione libera e responsabile troverebbe un limite solo in una delle due opzioni: sopportare il tubo ficcato in gola si dovrebbe, rifiutarlo non si potrebbe.
Chiamarla “mediazione” è uno sporco imbroglio e in qualche modo, il professor D’Agostino è costretto ad ammetterlo: “La vera posta in gioco non è come migliorare questo testo. Quello che è in gioco è un braccio di ferro bioetico tra «illuministi» e «realisti». Gli «illuministi» vedono la fine della vita umana posta sotto il segno di un’autodeterminazione lucida, serena, forte, coraggiosa, direi quasi «giovanile» e chiedono, in nome del rispetto per i diritti della persona, che la legge obblighi comunque i medici a rispettare l’autodeterminazione dei malati (indipendentemente dal fatto che possano essere o no malati terminali). I «realisti» non negano, ovviamente, che l’autodeterminazione possa aver davvero rilievo in alcuni, rari casi, ma sono ben più attenti al dato di realtà, per il quale nella maggior parte dei casi la morte è evento senile, che si caratterizza per la fragilità, la debolezza, lo stato di paura e di assoluta dipendenza del morente. L’appello all’autodeterminazione, per i realisti, meriterebbe attenzione se non aprisse un varco inaccettabile all’abbandono terapeutico”. In pratica, se liberamente e responsabilmente chiedo che mi si sfili quel tubo dalla gola, metto a rischio anche la vita di altri. E come?
“I morenti, gli anziani, gli abbandonati non sono illuministi; quello che davvero vogliono non è che si renda ossequio alla loro volontà, il più delle volte incerta, mutevole, dubbiosa; semplicemente non vogliono essere lasciati soli, vogliono essere «curati», cioè che ci si prenda cura di loro. Indurre i medici ad abbreviare la vita degli anziani, dei lungodegenti, dei malati terminali, vincolandoli a «rispettarne» lamenti, recriminazioni, richieste fatte in tempi lontani, esasperate da stati emotivi e carenti di adeguata informazione è un rischio che non possiamo correre e contro il quale il disegno di legge sul fine vita prende fermamente posizione, il che basta a renderlo apprezzabile”.
È tutto chiaro: io non sono mai libero e responsabile, c’è sempre un D’Agostino che può chiedere di decidere al mio posto, e la sua scelta è senza dubbio migliore della mia. Non resta che metterlo nero su bianco per impedirmi di sbagliare, contro me stesso. Se ho la possibilità di chiederlo, non sono nelle condizioni di poter decidere. Se decido per tempo, quando non sono nelle condizioni di poter decidere c’è chi decide al mio posto, e contro quanto avrei deciso per tempo.
Ora è finalmente chiaro perché la vita non sia un bene nella mia disponibilità: è nella disponibilità di D’Agostino.

[...]



“Mi piace molto Berlusconi, penso sia un grande leader e un nostro grande amico, ma politicamente sono di sinistra: un socialista e non un conservatore. Quindi, solo per questo, preferirei D’Alema”

Seif al-Islam Gheddafi - Panorama, 10.9.2009


lunedì 21 febbraio 2011

Provate a dire agli italiani


Provate a dire agli italiani che la caduta della dittatura di Gheddafi avrà come conseguenze l’aumento della bolletta di luce e gas, l’arrivo di 70-80.000 libici a Lampedusa e un forte calo in borsa della Juventus, e poi vediamo quanto se ne potranno fottere dei bombardamenti sui civili, dei missili anticarro sparati ad altezza d’uomo contro folle inermi e del cecchinaggio su donne, vecchi e bambini che il rais ha appaltato a mercenari stranieri.
Credete che il nostro amore per la libertà sia così forte? Anche quando la dittatura non tocca noi? Avete così grande stima degli italiani? La nostra fede nella democrazia ci chiede ogni tanto la vita di un maresciallo o un caporalmaggiore in Afghanistan o in Iraq, e noi gliela diamo, ma si può pretendere di più? Si può pretendere che la caduta della dittatura in Libia ci debba costare così tanto alla pompa di benzina? Voi pensate di sì? Io ho dei dubbi. Penso che almeno la metà degli italiani – voglio essere ottimista – non sia disposto a pagare troppo la libertà e la democrazia in Libia. Penso che almeno metà dell’altra metà storcerebbe il muso al momento di pagare.

Dico che l’Italia ha tanto copulato con Gheddafi che ora se lo ritrova incastrato dentro. Situazione imbarazzante e oggettivamente tragicomica, roba che neanche al pronto soccorso sanno trattenere le risatine. Sfilarsi sarà facile per gli altri partner, per l’Italia no: Mattei, Andreotti e Craxi si erano limitati al petting, con Berlusconi si è arrivati all’amplesso, anche molto appassionato.
Amor fatale: se mette male per Gheddafi, mette male anche per la nostra già scassatissima economia. Sollevare la questione dei diritti umani del popolo libico sarà considerato di cattivo gusto, a termosifoni freddi. E gli italiani cominceranno a convincersi che – se non in Tunisia, se non in Egitto – c’è davvero un pericolo di una deriva islamista in Libia, e che Gheddafi ne è l’antidoto. In nome della lotta all’aumento dei prezzi, i nostri servizi segreti confezioneranno le prove che è stata al Qaida a organizzare la protesta di Bengasi, e converrà crederci. Putin manderà armi al rais perché correrà voce che fra gli insorti sono stati segnalati dei ceceni.
Scherzo, naturalmente, o almeno spero.

Solo sbarazzandoci di Berlusconi potremmo conservare il giro d’affari con una Libia che si sia sbarazzata di Gheddafi. Era un accordo tra popoli – potremmo metterla così – anche se è stato stretto da quei due tipacci, che certamente ci cavavano lucro personale a danno della loro gente: caduto uno, caduto l’altro, cosa impedisce ai due popoli di conservare il loro rapporto privilegiato?

 

Me lo sentivo



“Al primo carico di disperati che arriverà in Italia dalla Libia, qualcuno resterà di sasso, ci rimetterà la faccia e gli cadranno le braccia. Se gli spunteranno le tette, non sentiremo alcuna nostalgia per aver dato via la Venere di Cirene” (Malvino, 1.9.2008).

“Verrà un giorno…”


Tutto, sempre e ovunque, prima o poi cambia,
anche nei regimi che appaiono invulnerabili”

Il memento di Vittorio Zucconi ai Berluslovers è come una compressa effervescente di Alka Seltzer per chi è sopraffatto dalla nausea e dai bruciori di stomaco: non risolve il problema, ma dà sollievo. Ordunque, come il Manzoni fa dire a fra’ Cristoforo, siamo al “verrà un giorno…”, ma per non lasciare nel vago il monito: “Tutte le modifiche alla Costituzione, alla legge, alla procedura che rendano il potere politico ancora più intoccabile, opaco e impunito di quanto sia ora – scrive Zucconi – un giorno si rivolteranno contro coloro che oggi le chiedono per salvare [il culo a Berlusconi]. Beh, io non condivido e ritengo che sarebbe meglio abrogarle tutte, e subito, piuttosto che ritorcerle contro chi le ha volute.
Potrei capire, ma non giustificare, la rabbia degli esasperati e un altro Piazzale Loreto, potrei capire, ma non giustificare, le veline rapate a zero, Capezzone impalato, Cicchitto spalmato di pece, ricoperto di piume e dato alle fiamme, Sallusti e Signorini dilaniati a unghiate e a morsi, ronde di giacobini andar di casa in casa a rastrellare chiunque si sia troppo compromesso col regime… Potrei capire, insomma, il salasso di una resa dei conti che arrivi ad anemizzare il paese col rischio di ammazzarlo pur di levargli dal sangue ogni tossina: sarebbe pia illusione, e poi nemmeno tanto pia, ma potrei capirla.
Quello che non capisco – se mi è lecito il paragone – è come si possa immaginare che il fascismo sia davvero sconfitto lasciando intatto il Codice Rocco, e usandolo contro i fascisti.


Cronisti libici riferiscono




La torture par l’espérance


“Nelle cripte del Tribunale Vescovile di Saragozza, al cader di una sera di tanto tempo fa, il venerabile Pedro Arbues d’Espila, sesto priore dei domenicali di Segovia, terzo Grande Inquisitore di Spagna – seguito da un ‘fra redemptor’ (maestro torturatore) e preceduto da due famigli del Santo Uffizio, che reggevano delle lanterne – scese verso una segreta perduta”. È l’incipit de La torture par l’espérance di Villiers de L’Isle-Adam (La speranza, ne: Il convitato delle ultime feste, FMR 1980), e nella cella c’è rabbi Aser Abarbel, che “da più di un anno [è] stato quotidianamente sottoposto a tortura”, ma non si è ancora deciso a convertirsi, sicché “il venerabile Pedro Arbuez d’Espila [ha] le lacrime agli occhi, pensando che quest’anima così ferma si priva[…] della salvezza”. L’Inquisitore va ad annunciargli che l’indomani ci sarà l’autodafé, che talvolta spinge l’infedele a convertirsi in extremis e visto che con lui ogni opera di persuasione è stata vana…

Volevo esprimere un concetto prendendo a prestito dalla letteratura e Villiers de L’Isle-Adam mi tornava a fagiolo. Ma non voglio intrattenermi troppo sul racconto e arrivo subito al punto. In breve: quando l’Inquisitore e i suoi si ritirano, Aser scopre che la porta della cella è stata lasciata inavvertitamente aperta; e scappa, col cuore in gola scappa, è la sua ultima speranza; e incrocia pure due sgherri, che – pare un prodigio – sembrano guardarlo senza vederlo; e arriva infine a trovare rifugio in grande giardino che sembra un paradiso; e lì sente abbracciarsi da dietro; e sono le paterne braccia di don Pedro; che gli dice: “Ma come, figlio mio! Alla vigilia, forse, della salvezza… volevate dunque lasciarci!” (trad. Claudia Weiss).

Il concetto che volevo esprimere è quello della crudeltà che sta nell’amore di chi ti vuole salvare ad ogni costo, avendo un’idea di salvezza esattamente opposta alla tua. Non ha gli strumenti del Tribunale Vescovile di Saragozza, oggi, e dunque si limita a torturarti con la molestia, e talvolta ti illude che puoi eluderla, ma è pura crudeltà: si tratta di un gioco sadico. Sua Eminenza, per esempio, attacca dicendo: “Riflettendo sul senso dell’educare, mi sono visto io per primo sempre bisognoso di educazione”. Poi ridacchia e fa: “Gesù è l’esempio a cui ispirarsi, non solo per i credenti” (Avvenire, 20.2.2011).




domenica 20 febbraio 2011

Coda


“Di quella notarella tossica confezionata contro Dino Boffo, [Vittorio Feltri] non sa nulla. Gliela consegna Alessandro Sallusti, il suo secondo”, così per Giuseppe D’avanzo (la Repubblica, 14.11.2010), e in giro non trovo smentite degli interessati. Fino a stasera non lo sapevo, ero sicuro di aver letto che il decreto di condanna per molestie (Tribunale di Terni, 9.8.2004) e l’allegata Nota informativa fossero arrivati a il Giornale per posta.
Un’altra cosa che ignoravo è che Sallusti ha lavorato ad Avvenire, lo apprendo dall’intervista concessa ad Antonello Piroso (Niente di personaleLa7, 20.2.2011). Avrà conservato legami coi colleghi di Piazza Carbonari? Fra questi non ve n’è almeno uno che sapesse della querela e della condanna a carico del direttore?

Vuoi vedere che ci abbiamo perso la testa sopra, ma il siluro che ha fottuto Boffo partiva proprio da Avvenire?


“Perché noi siamo amore”


Non ho seguito il Festival di Sanremo e non mi azzardo a dire che ce ne fossero di migliori, ma la canzone di Roberto Vecchioni è davvero brutta: testo ruffiano e sciatto, linea melodica prevedibile di nota in nota, arrangiamento da Korg SAS-20, esecuzione da peracottaio dei buoni sentimenti. Dev’essere stato un premio alla carriera, che a mio modesto parere non conta più di cinque o sei brani decenti nell’arco di quarant’anni.
Stavolta si trattava di bambini affogati a due miglia da Lampedusa, operai in cassa integrazione, studenti in piazza contro la Gelmini e – in alto – stava “il bastardo che sta sempre al sole”, “il vigliacco che nasconde il cuore”, ma pure la certezza che “questa maledetta notte dovrà pur finire” e la consolazione che in fondo ci resta l’amore, “perché noi siamo amore”.
Siamo gente di cuore, noi italiani, e a questo mix appeal di dolore e speranza non potevamo rimanere insensibili: ci assicura “il sorriso di Dio in questo sputo di universo”, come potevamo negargli un gesto di simpatia? D’altronde, lasciare il povero Vecchioni senza un segno di gratitudine nazionalpopolare ci avrebbe torturato l’anima con gli scrupoli, che onestamente, a cantautore morto, è cosa che comporta sempre atroci seccature. E poi noi siamo amore, ci piace darne prova al televoto.


A milioni d’anni luce da Ventotene


La visione profetica di Altiero Spinelli e di Ernesto Rossi, uno che veniva dal Partito Comunista Italiano e l’altro dal Partito d’Azione, ci ha dato nel Manifesto di Ventotene un vero e proprio progetto di società laica, democratica e liberale. A pensarci bene, si può dirla vertigine: mentre l’Europa si consumava di totalitarismo, due cervelli pensavano un continente nuovo e stendevano un progetto – insieme – geopolitico e antropologico. Poi Spinelli e Rossi sono morti e il progetto fu affidato a Marco Pannella, almeno a quanto ci rimembra nei suoi Atti degli Apostoli.
Sul piano antropologico il progetto gli si è sgualcito in mano: la libertà è andata a prendere consulenza da Benedetto Croce e da Panfilo Gentile, l’idea di corpo s’è spiritualizzata e l’individuo-cittadino s’è preso la terzana del personalismo mounieriano, la quartana del pauperismo gandhiano, si è ridotto a eccentrico-sincretico, tra il monachesimo e la New Age.
Un po’ meglio sul piano geopolitico, ma non di troppo: immaginare Israele, Turchia e Marocco in Europa. [Anche qui in anticipo – i radicali sono sempre in anticipo – sul movimento della deriva dei continenti che ridurrà il Mediterraneo a una pozzanghera tra Egitto e Andalusia, ma con residuo profetismo, e altra vertigine.]
E poi? Poi arriviamo a Chianciano Terme, che sta a milioni d’anni luce da Ventotene, e Pannella sta lì e incanta tutti, parlando dell’“infinitezza dello spazio e del tempo”, del rorido nodo di amore e conoscenza, della buona equivalenza tra fede e mistero... E mica lo picchiano a sangue. Tutti nonviolenti.

Apoplessie




Il limite



“No, non l’ho sentito. La situazione è in evoluzione
e quindi non mi permetto di disturbare nessuno”
Silvio Berlusconi, 19.2.2011


La domanda di democrazia che sale dalle piazze di Tripoli e Bengasi non ha finora avuto altra risposta che una durissima repressione: Muammar Gheddafi ha dato l’ordine di sparare ad altezza d’uomo e al momento i morti sono almeno 84. Ci si aspetterebbe una pronta, ferma e univoca reazione sul piano diplomatico da parte di quei paesi che, fino a non troppo tempo fa, dichiaravano un tal surplus di democrazia interna da ritenere indispensabile esportarne un tot. E invece non si registrano che timide proteste, e in ordine sparso, nelle quali “preoccupazione” prevale su “condanna”, come se anche per la Libia – così è per l’Egitto – la fine della dittatura sia gravida di incognite peggiori della stessa dittatura, e pare, insomma, che l’unica democrazia possibile nei paesi arabi sia quella di importazione.
Non c’è da stupirsene, perché l’esportazione della democrazia non è mai stata dichiarata operazione solo filantropica: la si esporta innanzitutto per bloccare l’importazione di terroristi protetti o addirittura finanziati da stati canaglia, ed è lì che l’affare promette un ritorno. Anche questo, però, non basta. Gli strumenti necessari all’esportazione della democrazia sono per lo più di natura bellica, e dunque assai costosi, sicché conviene rinunciare quando il costo è troppo alto: dove un dittatore dia adeguate garanzie di non costituire minaccia alla sicurezza dei paesi esportatori di democrazia, si può chiudere un occhio, eventualmente entrambi se può ricavarsene un profitto economico. E così è stato per la dittatura di Ben Alì in Tunisia, ma soprattutto per quella di Hosni Mubarak in Egitto e quella di Muammar Gheddafi in Libia, fino a ieri in ottimi rapporti con le democrazie d’occidente.
Solo avendo un’anima molto bella si può biasimare questo atteggiamento occidentale. Amiamo la democrazia, è fuor di dubbio, e la vorremmo dappertutto, perché con tutti i suoi difetti è il meno peggio che ci sia e perché tra due paesi democratici è assai raro che si arrivi a una guerra. In fondo, siamo pacifici e ricorriamo alla forza solo come ultima risorsa, solo quando ci sembra necessaria, solo quando non ci pare peggio del far niente. Ma poi c’è la ragion di stato – di ciascun stato – e questa ci costringe a fare i conti con le difficoltà sul campo. Rimaniamo democratici ma cerchiamo di intrattenere buoni rapporti diplomatici con i dittatori che ci sembrano più affidabili. Accade che tali rapporti possano addirittura diventare ottimi, con reciproco vantaggio.

È il caso della Libia, che può essere interessante considerare attraverso l’analisi che ne fa un giornale filogovernativo, e parliamo di un governo che ha sempre schierato il paese in prima fila tra gli esportatori di democrazia: “Il regime di Gheddafi ha investito molto [in Italia] […] Messi in fila questi capitali danno la somma di 6,3 miliardi di euro […] Il problema è se i libici vadano considerati degli sleeping partner – dei puri investitori appunto – o invece degli azionisti strategici. E tutto fa propendere per la seconda ipotesi. L’ingresso in Unicredit, in Finmeccanica e soprattutto nell’Eni è solo ufficialmente avvenuto attraverso normali operazioni borsistiche. In realtà è abbastanza noto che siano stati oggetto di negoziati tra governi, in particolare tra Silvio Berlusconi e Gheddafi, con il duplice obiettivo di rafforzare patrimonialmente le nostre principali banche e aziende, e di garantirne gli sbocchi su attuali e futuri mercati. L’Eni è in Libia praticamente da sempre, da quando Enrico Mattei combatteva contro le sette sorelle del petrolio americane, inglesi e francesi. Ma oggi è qualcosa di più, è partner del regime di Tripoli […] Ma certo l’Italia non è sola. La Libia è il primo produttore di petrolio africano, il quarto al mondo dietro Arabia Saudita, Emirati, Iran. Da quando nel 2004 gli Usa hanno abolito le sanzioni e, nel 2006, tolto la Libia dall’elenco degli stati canaglia, tutte le grandi major si sono precipitate a fare affari con il colonnello” (Il Tempo, 19.2.2011).
“Certo l’Italia non è sola”, ma il modo in cui l’Italia ha performato la sua ragion di stato ha prodotto vantaggi tanto consistenti al punto di dover temere gli effetti di una caduta della dittatura libica: siamo nell’imbarazzante situazione di essere esportatori di democrazia, per quanto nel ruolo di gregari degli Stati Uniti, ma di augurarci che la dittatura di Gheddafi regga. Ma non possiamo dirlo esplicitamente, perché ci guadagneremmo solo una figura di merda.

Dev’esserci evidentemente un limite tra il credere nella democrazia, da un lato, e il dover temere che essa prenda il posto di una dittatura, dall’altro. Tra il ritenere che in alcuni paesi possa essere esportata, anche ammazzando i civili, e in altri no, e qui andare a partnership strategica con dittatori che ad ammazzare i civili ci pensano da soli. Dev’esserci un limite tra il duro e necessario rassegnarsi alla ragion di stato, da un lato, e il prenderci tanto gusto da smarrire ogni altra ragione, dall’altro. Nel caso dell’Italia questo limite è stato varcato, e neanche tanto inavvertitamente, facendo della politica estera una questione di amicizia personale tra capi di stato.
Abbiamo collezionato nei confronti di Gheddafi tante e tali manifestazioni di amicizia – e non solo, perché in molte occasioni si è arrivati a molto peggio – da non poterle ritirare troppo bruscamente: il danno che ce ne verrebbe non sarebbe solo l’imbarazzo di un veloce riposizionamento strategico, com’è ad esempio per gli Stati Uniti, ma la vergogna di aver tradito un amico. Sarebbe un danno materiale e di immagine, sarebbe dover rimangiarci tutta una filosofia, che peraltro abbiamo spacciato come una delle più genuine espressioni del nostro carattere nazionale. Appena ieri gli abbiamo baciamo la mano, come potremmo mordergliela oggi, anche sapendo che è la stessa che spara sulla propria gente?
Sì, è gente che chiede democrazia, e in apparenza è la stessa democrazia che saremmo stati disposti ad esportare in Libia se solo ci fosse stato possibile, ma anche bombardando Tripoli non è stato possibile, e ci siamo dovuti rassegnare alla ragion di stato. Da italiani non ci è stato difficile: quello era il petrolio più vicino e verso l’antica colonia avevamo un gran senso di colpa che Gheddafi non si è mai fatto scrupolo di tener vivo. Andreotti e Craxi hanno incarnato questa ragion di stato, ma poi abbiamo superato il limite.

sabato 19 febbraio 2011

Fare quadrato verso l’esterno e all’interno



“Fare quadrato verso l’esterno: contro insinuazioni e accuse che tendano a coinvolgere uomini o istituzioni della Chiesa nella vicenda di Tangentopoli. Ma fare quadrato anche all’interno: nei confronti cioè di quel movimento di opinione ecclesiale che tende a ottenere dai vescovi un’ammissione pubblica di corresponsabilità, se non altro per essere stati alleati e qualche volta conniventi con corrotti e corruttori” (Corriere della Sera, 28.9.1993). E valga come paradigma in tutte le occasioni nelle quali le gerarchie ecclesiastiche sono costrette a riposizionarsi.

Schiava di Roma


Roberto Benigni ha fatto notare a Umberto Bossi che l’analisi grammaticale dell’inno di Goffredo Mameli rivela che schiava di Roma non è l’Italia ma la vittoria (Raiuno, 17.2.2011) e Lilli Gruber lo fa notare a Mario Borghezio (La7, 18.2.2011), che obietta in modo scandaloso. Può darsi sia così – concede – ma il 99% dei padani legge la frase come la legge il Senatur e non c’è neppure bisogno di chiudere il sillogismo: Mameli ha scritto che l’Italia è schiava di Roma, e questo non è giusto, quindi fanculo all’inno.
È follia, ma ha un metodo. È su questo che conviene appuntare l’attenzione, sennò non resterebbe che farsi una risata, ma ridere dei pazzi non è bello. Il senso di una frase – secondo Borghezio – non starebbe in ciò che essa esprime nel rispetto della logica che regge la sua costruzione, ma in ciò che normalmente se ne intende, anche se proprio contro quella logica.
Non uso normalmente a caso, perché norma è regola, ma anche moda, ed è evidente che Borghezio chiami a convenire sulla norma data dalla media lasca degli ignoranti al suo livello, che in forza del numero aspirano a dettar legge. Come vedete, una risata sarebbe fuori luogo, perché siamo dinanzi a una questione delicata: la media lasca degli ignoranti non si azzardano a voler cambiare le norme che regolano la costruzione di una frase – la qual cosa sarebbe estremamente impegnativa anche se legittima – ma avanzano la pretesa di poterla leggere come meglio pare a loro. In Borghezio, insomma, non c’è pretesa di una nuova grammatica, ma di poter fare della vecchia il cazzo che gli pare. Non è posta la questione se Mameli possa essersi espresso in modo ambiguo: Mameli voleva dire l’Italia è schiava di Roma anche se non lo ha detto, perché così Bossi legge l’inno e così può ritenersi sia per il 99% dei padani.
Dico padani, ma è per cautela: non vorrei aver inteso male, ma mi pare che Borghezio possa aver detto addirittura italiani. Potremmo dover essere ignoranti per aspirare ad essere normali.

venerdì 18 febbraio 2011

La santità d’Italia


Premesso che da Televacca all’Oscar, da Arbore a Dante, Benigni non m’è mai piaciuto, dico che quello di ieri sera mi è sembrato il peggiore di sempre. Col distinguo tra patriottismo e nazionalismo sembrava aver pigliato una piega decente, ma poi, quando è arrivato a dover spremere sangue dalla rapa, la patria è diventata Roma che rade al suolo Cartagine, il nobile lignaggio dei Savoia e poco ci mancava un pensierino al culo di poter ospitare la Santa Sede.
Nel mito dell’impero romano e dei suoi surrogati e succedanei si è consumato più di un tragico frainteso e ieri sera Benigni li ha promossi tutti a destino, poco ci mancava l’apologia della stirpe afroditico-mediterranea della sinossi evoliana, e si è fermato giusto in tempo, ma non per evitare di evocare la spiritualità come radice della cittadinanza, e quasi mi sembrava il Minghi de La santità d’Italia.
Abbiamo bisogno di archi di trionfi per immaginarci degni di un futuro decente, non basta il sangue di un Mameli poco più che adolescente. Senza un fondale di cartapesta e un inno, ci è difficile pensarci nazione. Ho ripensato a Prezzolini, mi è parso un enorme galantuomo. Ho pensato che ormai ci scorre sangue solo nelle protesi.


giovedì 17 febbraio 2011

“Vada a farselo tradurre”



Nel corso dell’ultima conferenza stampa della Presidenza del Consiglio, rivolto a un giornalista di Bloomberg Tv che gli aveva chiesto: “I suoi problemi giudiziari potrebbero creare difficoltà alla candidatura di Draghi [alla presidenza della Bce]?”, Silvio Berlusconi ha detto: “Lei non è «compos sui», poi vada a farselo tradurre”. Bene, secondo Chaïm Perelman (Il dominio retorico, Einaudi 1981), quel “vada a farselo tradurre” è un sintomo: l’espressione ha avuto uso recente nei colloqui privati di Silvio Berlusconi, verosimilmente da imputato coi suoi legali, e il contesto gliel’ha fatta ritenere di quelle che chiudono una questione con la forza della formula senza appello.
È da escludersi una linea difensiva che punti a dimostrare che Silvio Berlusconi non fosse padrone di sé quando ha pagato le prestazioni sessuali di una minorenne: più probabile che si punti a dimostrare che sia Karima El Marough a non esser «compos sui». E questo sarebbe congruo con quanto ha affermato la ragazza: “Silvio mi ha detto: fai la pazza”. Assisteremo a un capovolgimento dell’ipotesi accusatoria: il nostro premier è stato vittima di una squilibrata. Accoltellato nella privacy.


Povera Italia mia


Ho scritto: “Vedrete che il primo passo sarà la ricusazione dei giudici”, e un lettore ha commentato: “Magari la realtà supererà la fantasia”. La realtà sta in ciò che Gaetano Pecorella ha detto ieri: “Ci sono reati su cui le donne sono più attente e sensibili e anche più motivate per quel che riguarda la misura della pena. Quindi, un collegio di tre donne in un reato che riguarda atti che sono stati ritenuti violare la dignità delle donne è il peggio che si poteva pensare” (cnrmedia.com, 15.2.2011).
Già avvocato difensore di Silvio Berlusconi ed ora deputato del Pdl – curriculum dei più triti – il Pecorella s’era fatto sentire giusto un mese fa, quando era in vista il rinvio a giudizio: “Io abbasserei il limite per la maggiore età” (Il Mattino, 17.1.2011), e probabilmente l’idea era di abbassarlo di soli sei mesi, quelli che mancavano a Ruby per essere maggiorenne quando andava ad Arcore.
Una voce sola non fa coro e allora: “Ecco perché in America Berlusconi non sarebbe giudicato da tre donne” (Il Foglio, 17.1.2011), parola di Giulio Meotti, ancora un poco unto dall’olio in cui fino a qualche anno fa friggeva patatine in un McDonald’s di Arezzo. Che in conoscenza dell’America, povera Italia mia, fa punteggio.


Participio presente del verbo "dare"



Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore,
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita...


mercoledì 16 febbraio 2011

Un parere disinteressato

Vedo migliori argomenti in favore dell’assassinio di Silvio Berlusconi che in quelli agitati da una parte della piazza. Chi lo ritenga un tiranno che attenta alla Costituzione può sacrificarsi, se crede, e accettare la condanna all’ergastolo, in fiero ortotono, fischiettando uno stornello anarchico, sempre che riesca a sottrarsi al linciaggio: mi pare una follia, ma in essa v’è una presa di responsabilità e un’assunzione di rischio, per tacere del mero dato estetico, d’un qualche fascino solito al tragico.
Non mi si fraintenda: ritengo che ammazzare il nostro premier sia fargli un favore, per fare invece un enorme danno al paese, che si porterebbe quel cadavere sulla schiena per almeno un secolo. E tuttavia ritengo più ragionevole il tirannicida che chi chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi richiamandolo a un dovere verso il paese e le istituzioni: è un dovere che gli pare di onorare già, proprio col rimanere dov’è.
Quando un pezzo del paese che fa forza di maggioranza assoluta (seppur molto relativa) dà a un uomo un consenso che questi si sente autorizzato a ritenere sacralizzante, e nessuno dei suoi consiglieri, sodali e servi è capace di spiegargli la differenza tra cittadino e suddito, come glielo spieghi che Palazzo Chigi non gli è stato dato in dono da Dio? Come glielo spieghi che incarnare il massimo comun divisore dei vizi morali del paese non può dargli impunità per quelli che coincidono con reati penali? Come puoi sperare di convincerlo che è soggetto alla legge al pari di tutti? Lui cambia la legge, sostenuto da un pezzo del paese: può farlo e, se la Corte Costituzionale gli rompe il cazzo, allora cambia la Costituzione. Ti lamenti? Suca.
Parliamoci chiaramente: dev’esserci un buchetto nella Costituzione che fa passare questo genere di spifferi, sennò è Silvio Berlusconi che la sta tradendo da tempo, e allora perché volete dar del pazzo a chi voglia offrirsi come tirannicida? Date del pazzo a chi ne chiede le dimissioni in nome del comune buon senso: non è più comune, s’è comprato pure quello.

Rimane solo la guerra civile, statemi a sentire, fidatevi di uno che se ne tirerebbe fuori e sarebbe subito sgozzato, non importa se dagli uni o dagli altri: è un parere disinteressato. 

martedì 15 febbraio 2011

Toghe rosse, peraltro ostentanti rughe

Il pm è una donna, il gip è una donna, i tre magistrati che dovranno giudicarlo sono donne, tutte sopra i quaranta e nessuna reca segni di Botox. Vedrete che il primo passo di Ghedini sarà la ricusazione per legittima suspicione.