sabato 1 settembre 2012

Così non è accaduto

Occorre fare un poco di chiarezza sul rifiuto che il cardinale Carlo Maria Martini ha opposto all’«accanimento terapeutico», termine che qui rivela in modo esemplare tutta la sua ambiguità. Sua Eminenza soffriva da lungo tempo di Morbo di Parkinson, una patologia che nei suoi stadi più avanzati è scarsamente sensibile ad ogni tipo di terapia farmacologica. Tuttavia un parkinsoniano non muore mai per la degenerazione delle cellule nervose che è alla base della malattia, ma per le complicanze che essa determina, prima fra tutte (le statistiche riportano dati che oscillano tra il 73 e l’89%) la disfagia. In pratica, viene meno la capacità di deglutire a dovere: ne derivano deperimento da malnutrizione e non di rado infezioni polmonari perché il cibo ingerito prende la via sbagliata e va a infettare le vie respiratorie, talvolta provocandone l’ostruzione e la morte per asfissia. In una percentuale più ridotta di casi (tra il 7 e il 9%) il paziente muore per insufficienza respiratoria perché l’ipercinesi muscolare arreca gravi alterazioni della dinamica degli atti di inspirazione ed espirazione. Intubato per la ventilazione assistita, idratato per via endovenosa e nutrito con un sondino gastrico, un parkinsoniano può sopravvivere per anni e anni. Una vita di merda, senza dubbio, ma questa è considerazione da laicista.
Laicisti non sono quelli che si sono subito affrettati a precisare che nel caso di Sua Eminenza non si è trattato di eutanasia, ma semplicemente di rinuncia all’«accanimento terapeutico», che la dottrina cattolica non condanna. È vero, il Catechismo afferma che «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima» (2278), ma afferma pure che, «anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte» (2279). Ora, nel caso del cardinale Carlo Maria Martini, la somministrazione di aria, acqua e cibo era da intendere come cura ordinaria o straordinaria? E il paziente aveva il diritto di rifiutarla? Con la logica che ha portato gran parte del mondo cattolico a parlare di suicidio assistito nel caso di Piergiorgio Welby e di assassinio nel caso di Eluana Englaro, Sua Eminenza non aveva questo diritto: doveva essere costretto a sopravvivere, contro la sua volontà. Così non è accaduto. Punto.

venerdì 31 agosto 2012

Lasciano morire il cardinale Carlo Maria Martini di fame e di sete


Dategli il tempo di realizzare e vedrete che anche stavolta Gaetano Quagliariello non mancherà di gridare: «Assassini!».



[...]

giovedì 30 agosto 2012

Al voto! Al voto! Al voto!

Si tratta di «un diritto civico che è pure un dovere». «No all’astensione», dunque. Così i vescovi, ma in Angola


martedì 28 agosto 2012

[...]

Difficile dire se la legge 40 sia più crudele o più cretina, quante volte l’ho scritto su queste pagine. Quanto sia crudele hanno dovuto scoprirlo sulla loro pelle, in questi anni, le donne alle quali è stata vietata la diagnosi preimpianto e che sono state costrette ad abortire l’embrione portatore di una patologia non desiderata, che si poteva evitare di impiantare. Quanto sia cretina, invece, ce lo fa scoprire la Corte di Strasburgo: il nostro Parlamento, poverino, da solo non ci arrivava.

«Da quel banco si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che lo chiama».


Occorre tornare sulla Vocazione di San Matteo del Caravaggio e all’«interpretazione controcorrente» che Sara Magister ne ha dato a metà luglio, sollevando «un “caso”» che ai primi d’agosto stava diventando «sempre più avvincente» (i corsivi sono di Sandro Magister cfr. Malvino, 18.8.2012), perché ci sono novità. In favore della tesi che San Matteo non sia il personaggio anziano e barbuto al centro del gruppo che sta attorno al banco da esattore, ma il giovane imberbe a capo chino che ne è seduto a un capo, scende pure padre Joseph N. Tylenda, dell’Università di Scranton in Pennsylvania. C’è di più: rivendica la primogenitura della tesi, che avrebbe formulato quasi dieci anni fa in una guida turistica (The Pilgrim’s Guide to Rome’s Principal Churches, 1993). 
Ricapitolando. Ad essere convinti che San Matteo non sia il personaggio che per quattro secoli è parso tale ai contemporanei del Caravaggio e a tutta la posterità, ora sono almeno in quattro o cinque: un giornalista di Avvenire, un teologo valdese, il gesuita in Pennsylvania, Sandra Magister e il suo babbo. Contro il parere di Rouchès, di Marangoni, di Voss, di Briganti, di Longhi, di Berenson, di Bora, di Strinati, di Calvesi, insomma di tutti i più prestigiosi storici dell’arte da quando il Caravaggio è diventato oggetto di studio.
Propendere per la lettura piana offerta da costoro contro l’«interpretazione controcorrente» della Magister – mi è stato fatto notare da un lettore – pone il dubbio che si stia incorrendo in una fallacia da argumentum ad auctoritatem. Perché non potrebbe aver ragione lei e torto tutti gli altri? Cazzo, è vero, mi son detto, e allora mi sono messo a cercare.

Tanto ho cercato che sono arrivato a trovare un documento che penso tagli la testa al toro. Il dipinto di cui stiamo parlando si trova nella Cappella Contarelli, che sta nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Il cardinal Contarelli (al secolo Mathieu Cointrel) fu il committente dei tre dipinti del ciclo e quindi anche di quello che qui abbiamo preso in oggetto. Morì una quindicina d’anni prima che fosse realizzata, ma aveva dato indicazioni dettagliatissime all’esecutore testamentario sul come dovessero essere concepiti quei tre istanti topici della vita dell’evangelista. Per la Vocazione di San Matteo scrisse: «Da quel banco San Matteo, vestito secondo che parerà convenirsi a quell’arte [di esattore delle imposte], si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che, passando lungo la strada con i suoi discepoli, lo chiama».
Ora, a me pare evidente che l’abbigliamento del giovane col capo chino sul tavolo non sia troppo differente per foggia e qualità da quello degli altri due soggetti di età più o meno simile. Sono i due soggetti di maggiore età a vestire in modo distinto e senza dubbio più acconcio al mestiere di riscossore delle tasse. Dei due, a reggere sul naso delle lenti attraverso le quali guarda le operazioni in corso sul banco, uno è in piedi, distratto da ciò che sta avvenendo, mentre l’altro – quello in cui tutti, per secoli, hanno visto San Matteo – ha l’inequivocabile postura di chi sta per alzarsi dal tavolo a cui è seduto: basta fare attenzione alle sue gambe.
Questo San Matteo risponde pienamente alla richiesta della committenza: ritrae l’evangelista nell’atto di «levarsi con desiderio per venire a Nostro Signore che lo chiama» e quel dito col quale oppone un ultimo indugio nel chiedere «chi, io?» è l’ultima sua ritrosia.
Si guardino le masse del quadricipite femorale e del tricipite surale dell’arto inferiore destro: sono nella tensione che precede l’alzarsi in piedi, mentre l’arto inferiore sinistro è piegato al ginocchio a far da fulcro per la torsione di 90 gradi sul busto che sarà necessaria a farsi largo tra il bordo del tavolo e il personaggio che siede sulla sua sinistra, il cui braccio destro è sollevato nel gesto di scostarsi per lasciargli il passo, altrimenti inspiegabile.
Superfluo rammentare i rapporti che a quei tempi intercorrevano tra artista e committente: per il primo non c’era possibilità di venir meno alle indicazioni di chi ordinava l’opera. Con un committente che gli chiedeva di raffigurare un San Matteo nell’atto di alzarsi dal suo banco di esattore per seguire Cristo, Caravaggio si sarebbe preso la libertà di raffigurarlo in tutt’altro modo? Da poco gli era stato rifiutato il primo dei dipinti del ciclo (la prima versione di San Matteo e l’angelo) perché non corrispondente al dettato del committente (l’angelo era troppo sensuale e si prendeva troppa confidenza con l’evangelista): avrebbe deliberatamente cercato analogo infortunio?

Una liberazione

Attendo con impazienza le prossime elezioni politiche per provare finalmente il piacere dell’astensione che per anni mi sono negato per la stramaledetta coazione a votare il meno peggio. Stavolta il meno peggio non lo vedo e, anche se dovesse materializzarmisi dinanzi all’ultimo minuto, accetterò volentieri il rischio di pentirmi di non averlo votato, piuttosto che andare incontro al pentimento di averlo fatto, che ormai è matematicamente assicurato. Le critiche saranno immancabili, so bene, ma me le scrollerò di dosso facendo spallucce. Mi sentirò dire, c’è da scommetterci, che si tratta di una deriva qualunquista, che non sono «tutti uguali», che chi si astiene ottiene il solo risultato di rendere più forte il voto di chi va a votare, ecc. Fa niente, forse neppure obietterò.
Sono mesi che su queste pagine evito di commentare le vicende politiche italiane. (Fanno eccezione i radicali, è vero, ma quella non è politica, è roba che sta a metà tra la semeiotica del marasma in geriatria e l’anatomia degli stomodei in entomologia.) Non trascuro di informarmi su ciò che accade, ma è al momento di trarre conclusioni ed esprimere un parere che mi prende un crampo paralizzante: mi pare che ogni parola sia vana, perfino a tentare di formulare la mia sensazione di avvilimento e di disgusto. Su tutto prevale il sentirmi straniero in patria, che non è cosa nuova, ma oggi c’è un di più che sa di confino.
Leggo Gilioli e Punzi, critici lucidi e tutto sommato onesti dei limiti connaturati al partito che hanno come punto di riferimento, rispettivamente il Pd e il Pdl, e un po’ li invidio: loro ci credono. Credono che Pd e Pdl possano ancora sostenere il peso di un qualche bipolarismo, costruendosi un’anima che sappia reclutare forze su idee, programmi, progetti di società. E leggo Grillo, leggo Di Pietro, soprattutto i commenti ai loro post. Non mi perdo una lirica di Vendola. Leggo, leggo, e non so aspettarmi di meglio che un commissariamento dell’Italia da parte dell’Europa, della durata di almeno tre decenni, il minimo indispensabile perché tutta questa schifezza avvizzisca. Ma neanche è detto, perché abbiamo sul groppone secoli di dominazioni straniere, e il carattere nazionale – fatemi usare questa categoria che da sempre orripila l’uomo di scienza – rimane intatto e uguale a se stesso, come il bottino che gelosamente lo stercorario custodisce sotto terra. Siamo storti dentro, la democrazia non la meritiamo, avremo sempre bisogno della mamma o di un prete, di qualcuno che ci dimostri di volerci bene chiudendo un occhio sulle nostre paure e le nostre impotenze, dandocene un alibi e servendosene.
Non andrò a votare, stavolta, nemmeno se mi ammazzano. Quando l’ho deciso, ho sentito come lo scoppio di un ascesso: un dolore e, subito, una liberazione.

sabato 25 agosto 2012

Anime belle

Quanti figli dei fiori son diventati notai? Quanti liberal son diventati neocon? Non fosse stato ucciso nel 1980, oggi John Lennon sottoscriverebbe Imagine, che è del 1971? Sì, so bene, morire preserva dal cambiare idee: si diventa un mito per chi continua a condividerle, si rimane un immarcescibile stronzo per chi continua ad avversarle. Ma la questione che pongo è altra: tradendo i vecchi fans e conquistandone di nuovi, John Lennon avrebbe avuto il diritto di stempiarsi, metter pancetta, diventar tory, essere a favore dell’intervento in Iraq, dichiararsi grande ammiratore di Roger Scruton? Insomma, si può negare al tempo di fare la sua parte? Si può non esserne contenti, io penso, ma non si può impedirlo, tanto meno se il tempo è quello altrui
Con quale ottusità, allora, si nega la possibilità che il tempo abbia cambiato Mark David Chapman, rendendolo finalmente degno di tornare in libertà, anche se vigilata? Sono passati 32 anni dal giorno in cui uccise John Lennon e si pretende sia lo stesso uomo di allora, a dispetto delle perizie psichiatriche che lo dicono cambiato da quello che era, a dispetto di un percorso detentivo che lo ha radicalmente cambiato.
Avesse ucciso un Mister Nobody, non ci sarebbe alcun problema, le anime belle che credono nel fine rieducativo della pena non esiterebbero a spendersi in suo favore. Ma ha ucciso John Lennon: chi vuole conservarne intatta la memoria – e si tratta di anime belle – ha bisogno che Mark David Chapman faccia la sua parte di assassino in eterno. Ecco, credo sia in discussione la bellezza di queste anime. In occasione dell’ennesimo no opposto alla richiesta di libertà vigilata per chi ha ormai scontato 32 anni di pena, non ne ho sentita una sola esprimersi a favore.

«Occorreva qualcosa di più drammatico, qualcosa di più sconvolgente»

«Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Così Jan Palach in un suo quaderno, e su Wikipedia, in chiosa: «Non si è mai saputo se davvero ci fosse un’organizzazione come quella descritta da Palach». Beh, pare ci fosse. Trovo una lunga lettera di Pavlina Helenovska, pubblicata a puntate su Tempo (XXXI/7 – 15.2.1969 et segg.), che conferma l’esistenza di quella organizzazione, alla quale ella stessa apparteneva.


Penso basti a rimuovere l’immagine che di Jan Palach si è voluta costruire post mortem: uno squilibrato (per i comunisti) o un martire (per gli anticomunisti), follemente o eroicamente isolato. Era membro di un commando, la sua morte fu decisa a sorteggio. 

Luft

Recupero da una cartella un ritaglio della Domenica de Il Sole-24 Ore del 3 luglio dell’anno scorso: raccontando del suo ritorno a Napoli dopo trent’anni, Roberto Napoletano offriva brani di una conversazione avuta con l’avvocato Gerardo Marotta, fondatore e presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Una frase è sottolineata: «Finché abbiamo potuto, abbiamo fatto con le nostre forze, ho venduto le proprietà di famiglia, ma non possono continuare a tagliare tutto, stanno tagliando la scienza di base, si “mangiano” il futuro». A poco più di un anno di distanza le forze sono arrivate al limite ultimo e per i 300.000 volumi della biblioteca dell’Istituto arriva il momento del trasloco forzato. In un deposito. A Casoria, pare.
Parlo raramente e malvolentieri della città in cui vivo, ma oggi farò un’eccezione: senza dilungarmi troppo, dico che la schifo profondamente. E rimando a quanto ho scritto alcune settimane prima che in edicola uscisse quel numero de Il Sole-24 Ore. Eravamo tra il primo turno delle elezioni comunali e il ballottaggio che avrebbe portato Luigi De Magistris a Palazzo San Giacomo: «Io non credo sia possibile fare di Napoli una città vivibile senza raderla al suolo e ricostruirla daccapo, però facendola abitare da norvegesi. Nessun sindaco potrà far molto, anche volendo, poverino. Questa città ha la borghesia più vile e pusillanime d’Italia, che ha quella più vile e pusillanime d’Europa, e ha popolo che è fiero d’essere plebe, e non si salva niente, sicché il nuovo ha sempre il peso di un movimento di viscere».
Beh, proprio quanto sta per accadere alla biblioteca dell’Istituto italiano per gli studi filosofici mi consente di aggiungere che, come prevedevo, il ventre elettorale ha dato prova di se stesso: Giggino si rivela una loffa (dial., dal ted. Luft).

Se non l’avete vista, non riuscirete mai a intuire cosa sia quella biblioteca.

venerdì 24 agosto 2012

Elias Garcia Martinez (1858-1934)


Elias Garcia Martinez (1858-1934) doveva aspettare che la signora Cecilia Gimenez sfigurasse un suo dipinto per guadagnare la notorietà che non ebbe mai in vita. Prima che El Pais ne desse notizia offrendoci le immagini del suo Ecce Homo prima e dopo il «restauro» – e non c’è bisogno di sottolineare che senza quelle immagini la notizia sarebbe passata inosservata – del pittore spagnolo non si sapeva più di quanto la Gran Enciclopedia Aragonesa chiudeva in poche righe: «obras de caracter popular», «decoraciones murales», insomma, un madonnaro che insegnava Belle Arti a Saragozza. Basta uno sguardo proprio a quel Cristo, d’altronde, o alla Madonna che correda la sua scheda su Wikipedia per capire che Martinez non era un genio e che la sua arte era da santino devozionale. Questo fino all’altrieri. Adesso che il suo dipinto è stato storpiato, c’è chi ne piange la perdita e intenderebbe non lasciar nulla d’intentato per restituirlo all’integrità che aveva già da tempo perso a causa di un’incuria che la dice lunga su quanto fosse stimato.
Si tratta – si trattava, per meglio dire – di un dipinto ad olio su una superficie muraria non pretrattata all’affresco, il che ci offre un altro elemento per un giudizio del livello tecnico del Martinez. Dipinto di particolare bruttezza. Sciatto nella trattazione del tema, mostra tono espressivo assai scadente, distinguendosi solo per un dato di non comune insulsaggine: Cristo è ritratto in ritratto, su una pergamena dagli estremi arrotolati, e qui c’è da rilevare che il «restauro», pur grottesco, ha  «corretto» la difformità recto/verso delle estremità arrotolate.
Il risultato uscito dalle mani della signora Gimenez, che – occorre aver presente – ha avuto piena libertà di azione, è puro orrore, senza dubbio. E tuttavia lo sgorbio è notevole, mentre lEcce Homo del Martinez non lo era. Meglio del lasciar tutto comè, solo scalpellare via il tutto.

lunedì 20 agosto 2012

Su cosa sia umiliante per lo scrittore

Doppio paginone di Alessandro Piperno, su La Lettura di domenica 19 agosto, sul perché Franz Kafka abbia pubblicato in vita così poco, e tanto a malavoglia, sul perché volesse che di quanto avesse scritto non restasse traccia: «Avrebbe trovato esasperante, e in qualche misura perfino umiliante, l’idea che tutta quella gente mettesse il naso in ciò che lui aveva scritto con tanta cura». Forse è proprio così, ma non è da scartare l’ipotesi che temesse di finire con la bocca attaccata al collo di una bottiglia di liquore Strega.  

Pacchianeria

Sarà che un tempo i vip erano più discreti. Sarà che un tempo i media erano meno intrusivi. Di fatto, quando vien l’estate, il vip è doppiamente esposto, due volte più nudo di quanto fosse in passato. Un bene o un male, va’ a capirlo.
Gianfranco Fini, per esempio. Di come passi le vacanze, sappiamo tutto, e da ben prima che entrasse nelle attenzioni de il Giornale. Ama il mare, adora le immersioni, ha un fisico decente per l’età, indossa boxer corti, senza occhiali rivela un lievissimo strabismo convergente… Cose così, niente di speciale, avrete visto qualche foto.
Oh, certo, va in vacanza con la scorta, ma chi non ha una scorta, ormai? Per dire, dovrebbe avercela pure il direttore de il Giornale, se non erro. Niente da ridire, sta sul cazzo a mezza Italia e ha l’aspetto d’uno che lo stendi con uno sputo. Niente da ridire, però, neanche per Fini, che è pur sempre terza carica dello Stato, e tuttavia è proprio il Giornale che ha da ridire: va in vacanza con la scorta, il traditore, e per di più esibisce una «infinita pacchianeria», almeno così scrive Giuliano Ferrara.
Vip anche lui, anche lui con la scorta. Anche di lui, ahilui, sappiamo come passi le vacanze, avrete visto qualche foto. Ed è proprio per averle viste che non si capisce cosa Ferrara intenda per «pacchianeria».

sabato 18 agosto 2012

«Un “caso”» che sta diventando «sempre più avvincente»


È opinione di Sandro Magister che, con la sua «interpretazione controcorrente del celeberrimo quadro del Caravaggio che raffigura la vocazione di Matteo», Sara Magister abbia sollevato «un “caso”» che sta diventando «sempre più avvincente». Eviterò di porre la questione se si tratti di sua figlia, anche se la scheda biografica su www.chiesa gliene attribuisce due, una delle quali si chiama proprio Sara: mi limiterò ad analizzare il “caso”, sollevato da Sara Magister, ma con un aiutino di Sandro Magister, che lo scorso 19 luglio scriveva: «Chi è Matteo, nel quadro? L’interpretazione corrente lo identifica con l’uomo barbuto al centro del gruppo. Ma sabato 14 luglio, nel presentare questo dipinto in una sua trasmissione tra le più seguite, la tv dei vescovi italiani, TV 2000, ne ha dato una lettura del tutto diversa. Che sarà apparsa a molti nuova e sorprendente. Secondo tale lettura, il Matteo chiamato da Gesù non è l’uomo barbuto, ma il giovane seduto all’estremità del tavolo, a capo chino, intento a raccogliere soldi. Questa identificazione può forse stupire. Ma, una volta compresa, appare molto più persuasiva dell’altra. Anche più “caravaggesca”. E anche più aderente al Vangelo».
Nell’apprendere che Sara Magister prenda la mesata dal Vaticano si riaffaccerebbe la questione se si tratti proprio della figlia di Sandro Magister: se sì, potremmo finalmente chiudere un occhio su certi suoi articoli che sembravano scritti con la stilografica ficcata in culo, ma – dicevo – Caravaggio è argomento più interessante. Daltronde pure per i vaticanisti vale il motto che Leo Longanesi leggeva in trasparenza sul tricolore: tengo famiglia. Diamo dunque la parola a Sara Magister.



Lasciamo perdere la seconda parte del video: si tratta un succinto riassuntino di quello che Maurizio Calvesi scrive riguardo al dipinto in Le realtà del Caravaggio (Einaudi, 1990). Soffermiamoci a considerare l«interpretazione controcorrente»: Matteo non sarebbe l’anziano barbuto al centro del gruppo seduto al banco di esattore delle imposte, ma il giovane raffigurato a capo chino; l’indice della mano sinistra di chi fino a ieri era considerato Matteo nell’atto di chiedere «chi, io?» indicherebbe il giovane a capo chino nell’atto di chiedere «chi, lui?». È credibile?
Per almeno dodici secoli fino al luglio del 1599 in cui Caravaggio mette mano al dipinto, nella tradizione d’occidente e d’oriente Matteo è raffigurato anziano e barbuto, e lo stesso Caravaggio lo raffigura così in almeno tre sue opere (nel Martirio di San Matteo e nel San Matteo e l’angelo che sono a Roma, in San Luigi dei Francesi, e nella prima versione del San Matteo e l’angelo che andò distrutto nel bombardamento del Kaiser Friedrich Museum). In breve, non si conosce un solo San Matteo giovane e imberbe nella storia dellarte fino ai tempi di Caravaggio, e dopo, e questa sarebbe la sola eccezione.
Non basta, perché all’opera si ispirarono parecchi artisti coevi o di poco posteriori (Bernardo Strozzi, Niccolò Tornioli, Mattia Preti, Luca Giordano, Giovan Battista Caracciolo, solo per citare i più famosi): talvolta il giovane che per Sara Magister dovrebbe essere Matteo è addirittura assente e quasi sempre il gesto di Cristo risulta inequivocabilmente indirizzato a un personaggio anziano e barbuto. Ma forse questo non sono argomenti decisivi, passiamo alla analisi strutturale.
Matteo era un  esattore: è ragionevole pensare che un esattore segga su un lato lungo o su un lato corto di un banchetto rettangolare? Il registro dei creditori aperto sul banchetto è aperto in favore del soggetto anziano e barbuto o del soggetto giovane e a capo chino? Quel dito, poi. L’ombra che lo copre nella parte inferiore del dorso non è digradante dalla punta alla base nell’effetto dell’inclinazione verso il petto? La flessione del polso non laccentua? «Una lettura più attenta ha portato allidentificazione di Matteo non con questo personaggio barbuto ma con questo ragazzo che è ancora concentrato sul suo mestiere»: «una lettura più attenta», di chi? Prima di Sara Magister, che si azzarda a farlo contro pratica, pubblico e precedenti (le famose tre P che dovrebbero guidare lo studioso darte antica), perché ispirata – dice dalla catechesi che Benedetto XVI tenne su Matteo qualche anno fa, nessuno. E qui sta il “caso”.

Bastasse. Non basta. Se non si trova un solo critico darte, tanto meno studioso del Caravaggio, che degna di attenzione questa «interpretazione controcorrente», si trova un teologo a cui piace. Uno. Teologo. Tal Fulvio Ferrario, conoscete? No? Fa niente. Scrive: «Tre dei personaggi guardano Gesù. Uno, il terzo da sinistra, in modo vistosamente attonito. “Lui?”, sembra dire costui, indicando Levi-Matteo. Sì, lui. Lui ha lo sguardo basso. Non vede la mano. Ma non è illegittimo pensare che lo sguardo sia basso appunto perché la mano è già stata vista. È piuttosto singolare, l’espressione del chiamato. Non vi è lo stupore dell’altro personaggio, né un’espressione di rifiuto. Non vi è nemmeno, tuttavia, la lieta meraviglia di chi è raggiunto dalla buona notizia. Solo un’espressione (gli occhi, e dunque lo sguardo, sono in ombra) di una desolata tristezza... Levi-Matteo non è trasfigurato dalla chiamata. Anzi, sembra inchiodato alla sua umanità. Semmai, la chiamata la rende ancora più problematica. Egli era socialmente giudicato anche prima. La mano del Signore che lo indica, tuttavia, lo destabilizza ulteriormente. Non lo lascia libero di assestarsi nemmeno nel suo ruolo di “pubblico peccatore”. Lo lacera, accentuandone, in qualche modo, la precarietà. Chi è raggiunto dalla chiamata è posto in un movimento che non gli lascia l’identità precedente. Certo, gliene conferisce una nuova...».

Quante cose vede, il signor teologo. Verrebbe voglia di indagare se sia genero o cugino di Sandro Magister.

venerdì 17 agosto 2012

Amicus Plato

«Pur essendoci care entrambe le cose, gli amici
e la verità, è dovere morale preferire la verità»
Etica Nicomachea (I, 4, 1096a)

Sono costretto a salire sulla scaletta per raggiungere le mensole alte – alla mia età comincia a diventare fastidioso – per tirar giù ancora una volta i sei volumi dell’Opera omnia di Luigi Sturzo. Dal VI volume (1957-1958): «Sul proporzionale ho cambiato idea nel 1950». Scrive che, dopo esserne stato un fiero sostenitore, è proprio nel 1950 che ha cominciato a nutrire dubbi su quel sistema elettorale, non in assoluto, ma solo per «come viene attuato in Italia a differenza dagli altri paesi». Dal V volume (1954-1956): «Non pochi si meravigliano della mia recente opposizione alla proporzionale». Lo scrive nel 1954 e scrive «recente». A conferma, valga quanto si legge nel I volume (1946-1948). Si tratta di uno scritto del 1948: «Fortuna o sventura, noi europei continentali siamo così divisi per idealità, per interessi e per metodi da non poter ridurre la lotta politica ai due partiti classici dei paesi anglosassoni».

Ciò detto, e rammentando che Luigi Sturzo torna in Italia il 27 agosto 1946, come è possibile sostenere che «era tornato dall’esilio statunitense convertito al sistema uninominale»? Lo sostiene Massimo Bordin (Il Foglio, 17.8.2012).

Brividi

giovedì 16 agosto 2012

Appunti

Il dogma dell’Assunzione della Beata Vergine Maria in Cielo ci offre una eloquente visione assonometrica della costruzione logica nella quale vivono i cattolici, dandoci modo di comprendere a quali bisogni doveva rispondere l’edificio e con quali strumenti si è provveduto a erigerlo. Per delicatezza, sarà il caso di non soffermarci sulla qualità del materiale.
Ovviamente i vangeli non fanno alcun cenno al fatto che, terminato il corso della vita terrena, Maria sia stata assunta in cielo, ma, se è per questo, non fanno alcun cenno, se non assai labile, neppure a quanto sta nella sostanza degli altri nove dogmi cattolici. Il fatto è che un dogma tira l’altro ed è già tanto che la proclamazione degli ultimi tre o quattro non abbia causato le carneficine che furono necessarie a imporre l’indiscutibilità dei primi sei o sette. Di fatto, quattro dogmi su dieci riguardano Maria e nel dichiarare indiscutibili le «verità» che essi enunciano c’è un evidente affanno di argomentazione.
Se, infatti, Gesù è figlio di Dio ed è consustanziale al Padre (Nicea, 325), ed è quindi vero Dio, ma pure vero uomo (Calcedonia, 451), occorre che sua madre sia anche madre di Dio (Efeso, 431). Diventa opportuno, allora, che sia stata vergine prima, durante e dopo il parto (Costantinopoli II, 553), ma soprattutto diventa indispensabile che sia stata concepita immacolata del peccato originario (Ineffabilis Deus, 1854) e che il suo corpo non abbia subìto la corruzione della morte: assunta in cielo, dunque, necessariamente (Munificentissimus Deus, 1950).
Come per ogni dogma, anche qui dovrebbe trovarsi fondamento nella Scrittura. Mai come in questo caso, invece, la tradizione che vuole Maria assunta in cielo è in palese contraddizione coi vangeli, almeno sul piano razionale. C’è bisogno di un sì di Maria, infatti, perché si compia in lei la volontà di Dio: se non ce ne fosse bisogno, non avrebbe senso inviare un angelo a chiederglielo, perché quel che ha da compiersi si compierebbe in lei dando per scontato il suo assenso. È evidente, dunque, che spetta a Maria decidere se il disegno divino possa compiersi in lei e qui decidere significa scegliere tra un sì e un no. C’è da supporre che questa scelta sia libera e che il no sia scartato per volontà di Maria, che infatti all’angelo dichiara la sua disponibilità al disegno divino: «Eccomi, sono la serva del Signore. Avvenga di me quello che hai detto», secondo Luca («Ecco la serva del Signore davanti a lui. Avvenga di me secondo la tua parola», secondo Giacomo).
E qui sorge il problema: se c’è bisogno del suo sì, è evidente che Maria avrebbe anche potuto dire no. Concepita senza peccato originario, dunque, nella certezza che avrebbe detto sì? La sua disponibilità al disegno divino perderebbe il valore di libera scelta. Diventa immacolata del peccato originario, dunque, nel momento in cui dà il suo assenso? Dunque non sarebbe stata concepita immacolata? È evidente che solo un dogma poteva chiudere la questione.
[...]
Andando ancora un po’ a ritroso, perché c’è bisogno che Maria sia stata concepita monda del peccato originario? Perché deve mettere al mondo il figlio di Dio, che è Dio stesso. Senza il dogma della Trinità (Costantinopoli I, 381) non sarebbe stato necessario, ma c’era bisogno che Cristo fosse egli stesso Dio, per tagliare i ponti con la tradizione ebraica: Cristo non è un profeta qualsiasi, ma il Messia, il Dio vivente. Il mandato apostolico, dunque, non è un’invenzione dell’ennesima setta partorita dall’ebraismo, ma è parola di Dio stesso: se Cristo è Dio stesso, la fondazione del primato petrino non è cosa umana, ma divina. Non c’è altra Chiesa del Dio Vivente che quella guidata da Pietro: tutte le altre sono eretiche.
[…]
Poi, dovendo fissare una data per festeggiare l’Assunzione, ci si impossessa dell’ultima che è rimasta troppo a lungo «laica»: Feriae Augusti. «Date a Cesare quel che è di Cesare», per modo di dire.

venerdì 10 agosto 2012

I modi più sfiziosi di pregare

Nel corso dell’udienza dello scorso mercoledì 8 agosto, in Castel Gandolfo, Benedetto XVI è tornato sulla figura di Domenico di Guzmán (1170-1221) che aveva già illustrato nella catechesi del 3 febbraio di due anni fa, soffermandosi stavolta sulle «nove maniere di pregare» suggerite dal santo.
Non sarà superfluo riportare testualmente ciò che ha detto: «La tradizione domenicana ha raccolto e tramandato la sua esperienza viva in un’opera dal titolo: “Le nove maniere di pregare di San Domenico”. Questo libro è stato composto tra il 1260 e il 1288 da un Frate domenicano; esso ci aiuta a capire qualcosa della vita interiore del Santo e aiuta anche noi, con tutte le differenze, a imparare qualcosa su come pregare. Sono quindi nove le maniere di pregare secondo san Domenico e ciascuna di queste che realizzava sempre davanti a Gesù Crocifisso, esprime un atteggiamento corporale e uno spirituale che, intimamente compenetrati, favoriscono il raccoglimento e il fervore...».
Qui è opportuno uno sforzo di attenzione, perché Sua Santità prosegue dicendo: «I primi sette modi seguono una linea ascendente, come passi di un cammino, verso la comunione con Dio, con la Trinità: san Domenico prega [1] in piedi inchinato per esprimere l’umiltà, [2] steso a terra per chiedere perdono dei propri peccati, [3] in ginocchio facendo penitenza per partecipare alle sofferenze del Signore, [4] con le braccia aperte fissando il Crocifisso per contemplare il Sommo Amore, [5] con lo sguardo verso il cielo sentendosi attirato nel mondo di Dio...». Ho inserito nel testo i numeri tra parentesi per rimarcare il fatto che i «sette modi» in realtà sono solo cinque. Quali sono i due mancanti?
Lasciamo in sospeso la domanda e proseguiamo: «Gli ultimi due modi, invece, su cui vorrei soffermarmi brevemente, corrispondono a due pratiche di pietà abitualmente vissute dal Santo. Innanzitutto la meditazione personale, dove la preghiera acquista una dimensione ancora più intima, fervorosa e rasserenante. Al termine della recita della Liturgia delle Ore, e dopo la celebrazione della Messa, san Domenico prolungava il colloquio con Dio, senza porsi limiti di tempo. Seduto tranquillamente, si raccoglieva in se stesso in atteggiamento di ascolto, [6] leggendo un libro o [7] fissando il Crocifisso». Sette in tutto, invece di nove. E allora riponiamo la domanda lasciata in sospeso: quali sono i due restanti modi di pregare raccomandati da Domenico di Guzmán?
Per scoprirlo dobbiamo attingere direttamente alla fonte, e cioè a quella tradizione domenicana che ne ha raccolto e tramandato quattordici. Nel suo Vita de li Frati Predicatori (1470), infatti, il domenicano Bartolomeo da Modena illustra quattordici modi di pregare: [1] inclinato profondamente; [2] disteso con la faccia a terra e le braccia aperte; [3] inginocchiato e inclinato con le mani giunte sul volto; [4] in piedi con le mani aperte e lo sguardo al crocifisso; [6] inginocchiato con il volto a terra e le braccia aperte; [7] in piedi con gli occhi rivolti al cielo; [8] ripetute genuflessioni; [9] in piedi con diverse posizioni delle mani; [10] in piedi con le braccia aperte in croce; [12] tenendo un libro davanti a sé; [13] in ginocchio.
Dall’elenco è evidente che [3], [6], [8] e [13] siano varianti della preghiera in genuflessione, il che può spiegare perché i nove modi di pregare di cui parla Benedetto XVI riassumano al punto [3] del suo elenco i quattro sopra citati dell’elenco di Bartolomeo da Modena. È altresì evidente che ho saltato i punti [5], [11] e [14], ma non senza una ragione.
[11] è descritto in questo modo: «in punta dei piedi con le mani verso l’alto a freccia». Sembra una posizione da yogi, ma possiamo considerarla una variante del [4] e/o del [5] dell’elenco fatto da Sua Santità.
Restano il [5] e il [14], che verosimilmente corrispondono ai due mancanti dal gruppo dei «primi sette modi» che Benedetto XVI ha ridotto a cinque. Riporto le miniature che li illustrano nel codice di Bartolomeo da Modena:

[5] triplice flagellazione notturna

[14] facendosi flagellare da un altro frate.

Ecco, non si capisce perché Sua Santità ometta proprio i modi più sfiziosi di pregare.

martedì 31 luglio 2012

domenica 29 luglio 2012

Lettura diagonale dei Vangeli

Venerdì 27 luglio, su Il Fatto Quotidiano, Dario Fo si è prodotto in una lezioncina sul cristianesimo primitivo nel tentativo di dimostrare che nei Vangeli non v’è traccia di misoginia o di omofobia, né ve n’è traccia nelle prime comunità cristiane, almeno fino al IV secolo, quando «di fatto il cattolicesimo fu riconosciuto come religione di stato» e per «adattarsi alle tradizioni del mondo romano» alle donne fu precluso il ruolo sacerdotale, emarginandole e discriminandole. Da allora «per la Chiesa – sostiene Dario Fo – meglio gay che femmina». Lo dimostrerebbero «le pitture rinascimentali in cui si rappresenta l’ultima cena» e in cui l’apostolo Giovanni è ritratto in «quel gesto e quella postura che di certo toccavano alla Maddalena»: «pur di togliere di mezzo colei che per la tradizione popolare è sempre stata indicata come l’innamorata di Cristo s’è preferito sostituirla con un giovane seguace che rivela un atteggiamento ben poco virile». Dopo, solo molto dopo, «sistemato fuori campo il ruolo della donna, tocca agli omosessuali», e voilà l’omofobia.
Ricostruzione che non regge. Non bisogna aspettare il IV secolo perché alle donne sia imposta una condizione subalterna («L’uomo non ebbe origine dalla donna, ma fu la donna ad esser tratta dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo»I Cor 11, 9-10) o perché sia precluso loro il ruolo sacerdotale («Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge; se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea»I Cor 14, 34-35). Né bisogna aspettare che si chiuda il Rinascimento per trovare tracce di omofobia cristiana: basti rammentare i molti passi nelle Lettere di Paolo nei quali la condanna dell’omosessualità assume toni severissimi (Rom 1, 26-32; I Cor 6, 10; I Tm 1, 10) o scorrere il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani, che è del 1049, sorvolando su Agostino, Giovanni Crisostomo, Eustazio, Clemente Alessandrino, ecc. Sono note, daltra parte, le sanzioni che nel Levitico e nelle Ecclesiaste vengono prescritte a chi incorra in pratiche omosessuali ed è altrettanto nota la posizione di Gesù riguardo alla tradizione («Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge» Mt 5, 17): salva una prostituta dalla lapidazione raccomandandole di non peccare più, tutta qui la sua riforma. Né sul piano civile le cose vanno meglio di quanto vadano sul piano teologico, in questo arco temporale che Dario Fo ritiene neutro, se non tollerante, verso lomosessualità: nel VI secolo, con Giustiniano, agli omosessuali è inflitta la pena capitale; nel VII secolo, in Spagna, la pena è appena più mite (gli omosessuali vengono castrati)...
Non è la prima volta che Dario Fo piega la storia del cristianesimo alla tesi di un «Vangelo tradito», ignorando che Gesù è quel tale che non lascia alternative all’«ut unum sint» e non fa mistero del suo «qui non est mecum contra me est». Il richiamo alla primordiale purezza del messaggio evangelico è d’altronde una costante di tutti gli anticlericali che «non possono non dirsi cristiani» e che sono costretti a una lettura diagonale dei Vangeli. Non sorprende, dunque, che Dario Fo abbia dimenticato di citare il solo passo che nei Vangeli potrebbe dare un pur esile appiglio alla sua tesi: la guarigione del servo del centurione in Lc 7, 1-10.