giovedì 23 maggio 2013

Panorama, 14 dicembre 1967


Al momento ritengo inutile parlare di questo pontificato: leggo, annoto, scuoto la testa. Quante volte la Chiesa ci è sembrata pronta alla riforma? Quante volte pareva volesse stupirci?


[...]

Giusto sessantasei anni fa, il 23 maggio 1947, l’Assemblea Costituente discuteva di quello che nel testo provvisorio redatto dalla Commissione per la Costituzione era il secondo comma dell’art. 50 (nella stesura definitiva sarebbe diventato l’art. 54), che così recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Superfluo dire che il comma fu soppresso, ma è interessante riandare all’argomento che in quella sede fu vincente in tal senso, e che in buona sostanza si riassume nell’intervento tenuto da Pietro Mastino: «Se è concepibile, sotto un punto di vista non solo dottrinario, il diritto alla resistenza e alla ribellione dell’individuo, è veramente audace fissare in una Costituzione, come diritto costituzionale, quello della resistenza e della ribellione collettiva. […] Concetti del genere sorsero sempre dopo periodi di rivoluzione, quando il popolo credette di potere trionfalmente affermare la propria vittoria. […] È ben naturale che oggi, dopo che l’Italia è risorta dal travaglio, dai sacrifici e dalla barbarie del periodo fascista, un concetto del genere riappaia anche nella nostra Costituzione. […] L’importante però è che noi questo concetto vogliamo affermarlo come diritto di resistenza politica. E io dico che dobbiamo affermarlo, ma sotto un’altra forma, e precisamente in quella che mi pare chiaramente espressa nell’emendamento che ho presentato, e cioè: “Ogni cittadino ha l’obbligo di difendere contro ogni violazione le libertà fondamentali, i diritti garantiti dalla Costituzione e l’ordinamento dello Stato”. Non è tanto un diritto, quanto un dovere; non è tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività. Soprattutto questo, onorevoli colleghi, porta ad una conseguenza pratica molto chiara, della quale dobbiamo sommamente preoccuparci: evitare la possibilità che sotto il pretesto della violazione delle libertà fondamentali e dei diritti garantiti dalla Costituzione si pretenda di sovvertire lo Stato, intendendo per Stato la Repubblica».
Ora, ciò che il secondo comma contemplava come diritto del cittadino non era l’insurrezione antirepubblicana, ma la resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, laddove essi fossero responsabili del tradimento dei principi costituzionali: in altri termini, chiamava il cittadino all’esercizio attivo di una sorveglianza sul rispetto della Costituzione da parte dei rappresentanti dei poteri pubblici, ma non eludeva affatto il concetto che tale esercizio, per usare le parole di Pietro Mastino,«non [fosse] tanto un diritto accordato nell’interesse dell’individuo, quanto un dovere imposto nell’interesse della collettività». Non è difficile cogliere, dunque, ciò che parve «audace» in quel comma: vi era contemplata l’eventualità che il rispetto della Costituzione potesse venir meno da parte di chi aveva la possibilità materiale di violarne le norme o di disattenderne le indicazioni grazie al potere che gli era stato democraticamente conferito. Cosa possibile, ma difficile da mettere nero su bianco, e per ovvie implicazioni.
Le esplicitò Fracesco Colitto: «Non vi è dubbio che la norma si riferisce anzitutto al potere esecutivo. Ora certamente il cittadino ha sempre il diritto di opporsi al pubblico funzionario che, travalicando i limiti segnati dalla legge, conculchi il diritto del cittadino. […] Ma pubblici poteri sono anche il potere giudiziario ed il potere legislativo. Ora, in che cosa consiste il diritto di resistenza, allorché il pubblico potere è il potere giudiziario o quello legislativo? Il cittadino, secondo la norma di cui ci stiamo occupando, avrebbe non solo il diritto, ma addirittura il dovere di opporsi ad essi ove egli ritenesse di trovarsi di fronte ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione? […] Contro la sentenza del magistrato io non vedo che i gravami tassativamente indicati dalla legge e contro la legge non so concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è, a mio modesto avviso, che l’obbedienza. […] Cosa significa che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge? Può egli mai diventare il giudice del legislatore ed agire di conseguenza? […] Che interpretazione bisogna dare della norma, quando la si considera in relazione a quei particolari diritti, pure consacrati nella Costituzione? Si pensi al diritto al lavoro riconosciuto dalla Repubblica a tutti i cittadini; all’impegno, assunto dalla Repubblica, di assicurare alla famiglia le condizioni economiche necessarie, non solo alla sua formazione, ma al suo sviluppo; al diritto riconosciuto agli inabili al lavoro, sprovvisti dei mezzi necessari alla vita, di avere il mantenimento e l’assistenza sociale. Ora, nell’ipotesi in cui la Repubblica non abbia la possibilità di mantenere questi impegni, non abbia, cioè, la possibilità di pagare tante cambiali firmate in bianco, il cittadino avrà il diritto e il dovere, come dice la norma, di insorgere contro i pubblici poteri? Potrà insorgere contro il Parlamento, perché non fa le leggi, o contro il Governo, perché non le attua? A tutti questi interrogativi non avendo saputo trovare risposta convincente, noi abbiamo affermato, occupandoci di questo articolo, che ci sembra che esso consacri il diritto alla ribellione. Ed ecco perché ne chiediamo la soppressione. La sua applicazione pratica, nella realtà della vita, che è quella che è, e non quella che dovrebbe essere, potrebbe dar luogo a tali inconvenienti, a così strane ed impensate applicazioni, che certamente ne deriverebbe danno per la compagine sociale, che la Costituzione mira, invece, in ogni momento a salvaguardare».

La Costituzione è bella ma non sempre è applicabile, e poi  la vita è quella che è, vogliamo autorizzare il cittadino a prendersela con i poteri pubblici? Non sia mai detto. Non stupisce, dunque, giusto  sessantasei anni dopo, l’affermazione di Giuliano Pisapia («La violenza non è, non può mai essere di sinistra» –  la Repubblica, 23.5.2013): è sindaco, e a nessun sindaco piace affacciarsi al balcone e trovarci sotto una folla in subbuglio, meno che mai se il sindaco si dice di sinistra, e la folla pure. D’altronde non è il primo degli ultimi comunisti a ripudiare il subbuglio: «Oggi il massimo di radicalità si può esprimere solo con la nonviolenza – diceva Fausto Bertinotti – altrimenti […] diventa la fine della politica» (Nonviolenza, Fazi Editore 2004). Quell’«oggi»  ci aveva tanto intenerito: era una foglia di fico sulla tradizione marxista-leninista della violenza come «levatrice della storia». Poi, sentendolo dire che la nonviolenza non era solo possibile ma addirittura necessaria, perché, «se oggi dovessimo accettare la violenza, essa ammazzerebbe soprattutto noi», la foglia di fico era caduta: è che al marxismo-leninismo era diventato molto piccolo.
«I poteri pubblici violano le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione»? Che resta da fare a chi pensava di essere di sinistra, ma scopre che il diritto di resistenza all’oppressione dei pubblici poteri, per essere di sinistra, può essere solo nonviolenta, e, quando nonviolenta, è inefficace? «Cosa significa che il cittadino ha il diritto di resistere alla legge»? E a quale legge, eventualmente? E come?

La legge – la norma, la regola – ha due soli modi per venire al mondo: scendere dall’alto, in forma di precetto, o salire dal basso, in forma di convenzione. Nel primo caso, viene al mondo indicando un modello al quale è necessario adeguarsi perché espressione di un Vero, di un Giusto e di un Bello che sono superiori e antecedenti all’uomo, eterni, immutabili, indiscutibili. Nel secondo caso, invece, nasce come patto per rendere possibile la convivenza tra individui che differiscono tra loro, anche sensibilmente, per ciò che ritengono vero, giusto e bello. Nel primo caso, dunque, la legge avrà per fine una reductio ad unum: tenderà a omologare indoli, gusti e opinioni. Nel secondo caso, lascerà che gli individui conservino la loro individualità, salvo che quanto espresso da quella di ciascuno non sia di nocumento a quella altrui.
Non è difficile capire che tipo di società sia quella che si regge sulla legge come precetto, d’altronde è quella che conosciamo meglio. Solo da pochi secoli, infatti, si va facendo largo, e a fatica, l’idea che il Vero, il Giusto e il Bello altro non siano che il vero, il giusto e il bello secondo l’indole, il gusto e l’opinione di un’oligarchia, e che il modello al quale sarebbe necessario adeguarsi per rispettarli altro non è che l’espediente per consentire a chi vi appartiene di non perdere i propri privilegi. È per questo che la legge come convenzione trova enormi resistenze, né è detto che riuscirà a vincerle, perché l’interesse del più forte trova spesso un ottimo aiuto nella soggezione del più debole, premiata per millenni dalla legge come precetto.
Siamo capitati nel bel mezzo di questo scontro, noi contemporanei: da un lato, la strenua resistenza di un’oligarchia che non sembra affatto intenzionata a rinunciare ai propri privilegi, anzi, disposta in apparenza a rinunciare a tutti i propri privilegi tranne che a quello di decidere cosa sia il Vero, il Giusto e il Bello, perché in fondo è da questo privilegio che discendono tutti gli altri; dall’altro, la sempre meno timida offensiva delle moltitudini che hanno scoperto che la democrazia è stata tradita.

mercoledì 22 maggio 2013

Performance isterica col botto


Ignoravo l’esistenza di Dominique Venner, ho recuperato leggendo i 146 post del suo blog, in gran parte editoriali e articoli pubblicati su La Nouvelle Revue d’Histoire, di cui era il direttore. Tutto in poche ore, troppo poco ovviamente per poter esprimere un giudizio articolato sulla sua persona, e tuttavia, dovendo abbozzarne uno, direi che le sue idee non fossero poi tanto diverse da quelle che in Italia hanno trovato megafono ne Il Foglio di Giuliano Ferrara (non escluse le simpatie per il cattolicesimo come ultimo saldo baluardo all’avanzare di un mondo «tout pourris»). Era un conservatore in patente disagio nei confronti della modernità, convinto della possibilità di una «révolution conservatrice» in grado di fermare la «contagion de chaos», ma questo, a mio modesto avviso, non spiega il suo suicidio come forma di protesta all’approvazione della legge che da poco autorizza in Francia i matrimoni gay, neanche a voler prendere per buona quella necessità «des geste nouveaux, spectaculaires et symboliques pour ébranler les somnolences, secouer les consciences anesthésiées et réveiller la mémoire de nos origines», ai quali faceva cenno nel suo ultimo post. D’altra parte è stato proprio il suo editore, Pierre-Guillaume de Roux, a dichiarare: «Je ne crois pas que l’on puisse lier son suicide à cette affaire de mariage, cela va bien au-delà». Senza dubbio odiava quella legge, ma il suicidio non è stato deciso come protesta estrema alla sua entrata in vigore: pensava ci fosse di meglio («Une loi infâme, une fois votée, peut toujours être abrogée»).
E allora? Com’è da interpretare il suo atto estremo senza che entri in contraddizione con l’imperativo vitalistico che lo animava («Pas un instant je n’oublie les luttes du moment. Pas un instant je n’oublie les luttes du passé qui nous ont fait ce que nous sommes. Pas un instant je n’oublie qu’exister c’est se vouer et se dévouer, mais aussi lutter»)? Penso debba leggersi come gesto – insieme – estetico e politico: una rappresentazione plastica di rifiuto, una performance isterica col botto. A parte, poi, sarebbe opportuno interrogarsi – ma tutto sommato è superfluo, perché facilmente intuibile – cosa abbia reso mediaticamente suggestivo, dunque obbligato, almeno qui da noi, in Italia, il collegamento col matrimonio gay.   

martedì 21 maggio 2013

«Per ovvie ragioni di opportunità»


Tra un cattolico che obbedisce al Papa e un cattolico che obbedisce alla propria coscienza – è distinzione che s’è venuta a creare da quando il modernismo ha illuso certi cattolici che sia possibile pensare con la propria testa rimanendo cattolici – io preferisco il primo, senza alcun dubbio. È bello vederlo arrampicarsi sugli specchi per dare un senso a quell’obbedienza che non di rado è costretta a zigzagare da papato a papato, oggi a calcare l’accento sulla verità e domani sulla carità, l’altrieri sull’evangelizzazione come progetto culturale e dopodomani come testimonianza disarmata, sempre affannato ma sempre molto motivato, come uno stercorario che per nessuna ragione al mondo molla la sua pallina di merda. Il cattolico cosiddetto adulto, invece, mi fa pena. Dovrebbe sapere bene che non conta un cazzo, che al dunque è costretto a scegliere tra l’eresia o il ficcarsi la lingua in culo, e tuttavia ci prova: è convinto di poter decidere per sé, anzi, spesso pretende di spiegare al Papa come si fa il Papa. È che ha studiato, poverino, e ha maturato opinioni in campo teologico che quasi sempre hanno il verme dentro; spontaneamente – e spesso, ahilui, incoercibilmente – gli spuntano in testa progetti di ecclesiologia che fanno orripilare le gerarchie; soprattutto – ed è il peggio – ha quasi sempre la mania dell’autonomia dei cattolici in politica, che è come dire a quelli della Segreteria di Stato Vaticano: «Silete theologi in munere alieno». Più che naturale si ritrovi con le tibie rotte. Dossetti, per esempio. Se non fosse stato cattolico, avrebbe potuto con profitto applicare il metodo leninista all’azionismo, e avrebbe fatto la sua porca figura, tra Evola e Bordiga, sull’album delle nostre patrie figurine. E invece gli andò male, com’era ovvio. Con la coda tra le gambe, via, in convento. Tutto il contrario di Andreotti, che però partiva avvantaggiato dall’avere tutte le ambizioni tranne quella di millantare una coscienza tutta sua, poi maturò del tutto con la lezione di cosa accade a un De Gasperi quando si azzarda a dire no a Pio XII.

Tornando a Dossetti. È arrivato in libreria da qualche mese un delizioso libricino di Alberto Melloni (Dossetti e l’indicibile, Donzelli Editore 2013), appassionato studio di un cattolico adulto su un cattolico adulto, indagine sul numero di Cronache sociali che doveva uscire alla vigilia dell’elezioni politiche del 1948, e non uscì mai. Sarebbe stato dirompente, pare. Avrebbe posto «in maniera tagliente» – assicura Melloni – «il nodo teologico, canonico e politico dell’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica». Puf, scomparso, c’è voluto lo scavo del Melloni per riportare alla luce una decina degli articoli che avrebbero dovuto essere su quel numero. Come mai quel numero di Cronache sociali non vide mai la luce?



Melloni non sa dare una risposta, si limita a dire che  «chi oggi legga quel quaderno» non può fare a meno di avvertire l«indicibile pressione [che quegli scritti esercitavano] sul sistema ecclesiastico». Può darsi. Di fatto, in un’antologia della rivista (Cronache sociali 1947-1951, Landi Editore 1961) trovo a pag. 1073 (vol. II) una nota della curatrice, Marcella Glisenti, figlia di quel Giuseppe Glisenti che ne fu il direttore, e che proprio a quel fascicolo fa riferimento.


Così pare che l’«indicibile pressione sul sistema ecclesiastico» causò una prudentissima autocensura: timore di premere troppo, probabilmente. O paura di ritrovarsi spremuti? 



lunedì 20 maggio 2013

[...]



Chissà se andrà davvero come prevede Grillo (La Stampa, 16.5.2013), di certo c’è soltanto che fin qui il Pd ha fatto tutto il possibile perché la previsione si realizzi, e proprio in questi termini, con la scelta obbligata tra due opzioni alternative di deriva populista: se le prossime elezioni politiche, tra sei mesi o un anno, si risolveranno nella sfida tra due demagoghi, infatti, sarà per gli errori del Pd. Tanti: rimandare il voto, dopo la caduta del governo Berlusconi nel novembre del 2011, per consentire la nascita del governo Monti, al quale rinnovare la fiducia su tutte le iniziative più impopolari; cominciare a dichiararsene insoddisfatto solo quando era ormai chiaro che il Pdl fosse prossimo a farlo cadere per prendersene il merito dinanzi a quei due terzi d’Italia che non vedeva l’ora cadesse; affrontare una campagna elettorale all’insegna del cambiamento schierando in campo gli avanzi stracotti di un partito nato vecchio, per giunta in disaccordo su tutto; trasformare una mezza vittoria in una doppia sconfitta, senza riuscire a trovare il coraggio di ritornare alle urne, senza essere in grado di impegnare il M5S in un’intesa tattica, senza altra idea in testa che mettere un proprio uomo a Palazzo Chigi, a qualsiasi prezzo. Un agire tanto dissennato da autorizzare il malpensante a sospettare che il fine ultimo fosse davvero resuscitare Berlusconi e associarselo in un Monti bis, per rafforzare Grillo, farlo diventare lunica opposizione: in pratica, mettere gli italiani dinanzi alla scelta tra i due, rendendo sostanzialmente inutile un voto al Pd. Questo è il contributo del Pd a quel bipolarismo per il quale pareva essere nato: il suicidio. Per lasciare sgombro il campo alla sfida tra due contendenti che sono fin troppo simili, e in questo senso, come incarnazione di due diversi profili dello stesso plebeismo, sono davvero alternativi. 

venerdì 17 maggio 2013

La figlia


Quando leggo un’intervista a uno dei suoi figli – stavolta mi capita con quella a Marina, sull’ultimo numero di Panorama (LI/22 – pagg. 64-69) – penso a tutte le volte che Silvio Berlusconi ha giurato sulla loro testa: tralascio la volta che ha giurato di non aver «mai guadagnato un dollaro con Putin» (se il guadagno è stato in rubli, non si tratterebbe di spergiuro), quella in cui ha giurato di non aver «mai avuto rapporti piccanti con minorenni» (aspetto la sentenza), ma mi limito a considerare la volta che giurò di non aver «mai corrotto nessuno», e allora penso ai casi in cui la corruzione è stata accertata, anche se il reato è andato prescritto, o a quella in cui il giuramento era sullimpegno di ricostruire L’Aquila «com’era prima del terremoto», e basta andarci per verificare. Stavolta leggo cosa dice la sua primogenita, quella che dei cinque figli gli somiglia tanto che non ti stupiresti se le venisse il cancro alla prostata. Ed è una bella intervista, calda, appassionata, parole di cui ogni padre andrebbe fiero, sia si trattasse di un povero cristo perseguitato dalla magistratura, sia si trattasse di un pezzo di merda coi mezzi per farla sempre franca. Bello il finale, soprattutto, dove sta l’apice del climax: «Parla così perché è sua figlia», dice l’intervistatore; e lei, fiera e solenne: «No, quello che dico è la pura verità». Splendido. Perfetto. Però, volendo, si poteva chiudere anche meglio: con un bel «giuro sulla testa di papà». 

Missione all'Onu

Suppongo siate stati in ansia riguardo agli esiti della missione di Marco Pannella all’Onu, no? Come? Manco sapevate fosse in missione? Vergogna, fatevelo dire. Perché è vero che il regime lo censura senza pietà negandogli le prime pagine dei quotidiani, le aperture dei tg e i talk show che meriterebbe sette volte a settimana, però pure voi, teste di cazzo, potreste interessarvene un pochino invece di star lì a perdere tutto il vostro tempo su recessione, tasso di disoccupazione e amenità del genere che la partitocrazia vi scodella in tavola al solo scopo di distrarvi dalle sue eroiche iniziative: non accampate scuse, c’è Radio Radicale, non l’ascoltate? Solo Stampa & Regime? Immaginavo. Non ci fosse Massimo Bordin, la mattina, lo Stato butterebbe al cesso 13 milioni di euro all’anno. Vabbe’, fa niente, ora vi ragguaglio io. La scorsa domenica, conversando con Valter Vecellio, che vi consiglio di osservare bene nel suo sovrumano sforzo di comprendere...




Capito? Poco? È perché siete delle teste di cazzo, ve lho detto. Probabilmente manco sapete chi sono gli uiguri. Vabbe’, fa niente, ora vi semplifico. In pratica, la missione era concepita in questo modo: partenza da Roma, arrivo a New York, di corsa in taxi al palazzone dell’Onu, toc-toc all’uscio dellambasciatore cinese e come quello apriva: «Ciao, ambasciato’, so venuto a dìtte che, se date un po d’autonomia a li tibetani e a li uiguri, ve do la parola mia – parola de Pannella, do you know? – che quelli nun napprofitteno e nun ve mettono li piedi sur collo. Famo er federalismo, nun vattizza? Pensatece bene prima de dino, sinnò me costringete ar satiagrà e poi so cazzi vostri».
Non vi precipitate a dare giudizi azzardati: sembra arteriosclerosi, ma è nonviolenza pannelliana, quella che, male che vada, ci scappa un soggiorno a New York. Chi paga aereo, albergo e ristorante alla Madonna pellegrina e ai quattro o cinque devoti che la portano in spalla? Domanda triviale, chi volete che paghi? Tutto alla voce «iniziative transnazionali», cosa pensate state finanziando quando date lobolo ai radicali?
Ma queste sono questioni marginali, meglio andare al sodo: come è andata? Beh, non è proprio tutto chiaro, ma pare che non gli abbiano nemmeno consentito di far toc-toc, ’sti stronzi di cinesi. Peggio per loro, ovviamente.



«Mussolini era uno che ci sapeva fare»


   
Nell’episodio narrato da Giovanni Ferrara ne Il fratello comunista (Garzanti, 2007 – pag. 87), e che risale ai primi anni ’70, suo nipote appare tal qual è oggi. Non deve scandalizzare, dunque, quando afferma che «Mussolini era uno che ci sapeva fare» (Agorà – Raitre, 17.5.2013): era cretino già allora. 


mercoledì 15 maggio 2013

Volerlo, deciderlo, farlo


Chi ha un certa consuetudine con queste pagine di diario pubblico sa bene che, pur essendo medico, ho sempre evitato di impancarmi a esperto in materia, e il più delle volte, quando ho trattato un tema di natura clinica (per lo più è accaduto in ordine a questioni di natura bioetica), mi sono sempre limitato ad argomentare sulla base di elementi che non implicassero speciali competenze: il metodo che mi sono imposto è stato quello di applicare un minimo di logica a dati che chiunque potesse aver modo di verificare, anche senza avere una laurea in medicina o una pratica clinica. Anche per questo non sono mai ricorso alla casistica personale, tanto meno in quella forma aneddotica che ho sempre considerato più scorretta, perché più insidiosa, dell’assunzione di autorità: la casistica personale, infatti, supplisce alla inaffidabilità dei piccoli numeri con la suggestione della narrazione didascalica e fa subdolamente, anche quando involontariamente, cattiva didattica. Io ho sempre voluto evitare la didattica, anche quando in piena onestà di coscienza potevo ritenerla buona, e non ho mai pensato che un procedere secondo logica necessitasse d’altro che strumenti logici.
Non verrò meno a questa regola neppure oggi, dunque mi intratterrò sul caso di Angelina Jolie evitando ogni considerazione di tipo specialistico, trascurando del tutto gli elementi di pertinenza genetica, oncologica, epidemiologica, ecc. Sulla base delle mie conoscenze e della mia esperienza ritengo che la scelta della signora non sia affatto folle, anzi, mi pare ampiamente motivata, ma vorrei trattare la questione sotto un altro punto di vista, che da quanto ho letto a firma di espertoni, espertucci e nient’affatto esperti mi sembra sia stato del tutto trascurato. Questo punto di vista rende irrilevante il fatto che io sia specializzato in ostetricia e ginecologia e che da più di trent’anni il mio lavoro consista anche nella diagnosi di carcinomi mammari: «ritengo che la scelta della signora non sia affatto folle, anzi, mi pare ampiamente motivata», fate finta l’abbia detto un agronomo o un imbianchino.
E dunque, a rischio di apparire rozzo al mio lettore: a chi appartiene il corpo di Angelina Jolie? Voglio dire: quand’anche il rischio dello sviluppo di un carcinoma mammario avesse ragion d’essere solo in una sua fobia, quand’anche l’intervento al quale si è sottoposta non sia soluzione congrua per un rischio reale, o addirittura fosse sostanzialmente inutile, chi avrebbe potuto impedirle di fare del suo corpo quello che voleva? E in forza di quale diritto che annullasse quello di disporne liberamente? Per motivi religiosi o igienici ci si può amputare il prepuzio. Ci si può liberare di pene e testicoli se ci sente femmina imprigionata in un corpo maschile. C’è qualche parte del mio corpo che mi è vietato sottoporre a piercing o tatuaggio? Potrei continuare all’infinito, perché le pratiche di intervento cruento sul corpo umano, anche di là da indicazioni poste da specifiche condizioni cliniche, sono infinite, e in buona parte praticate fin dalla notte dei tempi. Escluse quelle che vengono effettuate su soggetti che le subiscono in mancanza di piena libertà e responsabilità, quali sarebbero quelle da vietare, o da condannare moralmente, o da biasimare come pericoloso cattivo esempio, e perché?
Io ritengo che il polverone sollevato dalla confessione di Angelina Jolie sia quasi del tutto dovuto all’elevata valenza simbolica che ha il seno femminile. Avesse deciso di farsi asportare la milza per ragioni analoghe a quelle che l’hanno portata alla mastectomia bilaterale, la confessione non avrebbe suscitato tanto scalpore. In più, alla mastectomia bilaterale è seguito l’impianto di protesi mammarie, che non alterano la fisionomia del soggetto sottoposto a quel tipo di intervento demolitore, e che per giunta è scelta sempre più spesso adottata da chi abbia subito una mastectomia per un carcinoma mammario già sviluppato. E dunque? Cos’è successo di così sconvolgente con la decisione di Angelina Jolie? Non è neanche la prima ad adottare questa decisione a fronte di un alto rischio genetico per lo sviluppo di un carcinoma mammario. La cosa sconvolgente – per chi ne è stato sconvolto – è stata la ratio che ha guidato verso la decisione: estromettere da un progetto di vita, per quanto fosse possibile, un rischio; farlo con determinazione, estromettendo anche tutto ciò che è il fatalistico mettersi nelle mani della provvidenza; elevare la femminilità al di sopra dello stereotipo che allega il genere al proiettato fantasmatico di una cultura maschilista. Un po’ come scegliere il taglio cesareo anche quando il parto potrebbe essere spontaneo: per il semplice volerlo, deciderlo, farlo. Beh, sì, non c’è dubbio, c’è chi può rimanerne sconvolto.

Un’altra escort


Francamente incomprensibili, le dichiarazioni del dottor Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che s’è lamentato del video girato da Giuliano Ferrara in parrucca rossa (non metto il link per decenza): mirava a screditare la dottoressa Ilda Boccassini, ha detto. In realtà, se pure fosse stato questo, l’intento, non si capisce come sperasse di raggiungerlo. Si tratta di una patetica buffonata che scredita, se ancora fosse stato necessario, chi l’ha ideata e chi l’ha realizzata, questo sì, ma non c’è da stupirsene, tenuto conto che, al punto in cui è giunto il processo a carico di Silvio Berlusconi, ai suoi lacchè non resta altro. Tanto meno è il caso di dolersene, perché il vero senso di quel video è di natura esorcistica: con la parodia del pm si è tentato di attenuare la schiacciante mole delle prove che ha prodotto a sostegno della sua tesi accusatoria. Esorcismo ad uso interno, buono a stemperare l’ansia dei cortigiani e dei servi in attesa della sentenza che molto probabilmente sarà di condanna. Uno spettacolino di corte, direi. A giudicare dalla fattura, aggiungerei che non siamo troppo lontano dai gusti del principe: non c’era già un’altra escort che si travestiva da Ilda Boccassini ai festini in casa Berlusconi? 

martedì 14 maggio 2013

Aspettiamo la sentenza


Della signora Karima El Marough, in arte Ruby Rubacuori, ha detto che ha una «furbizia orientale». Più che un pregiudizio razziale mi pare un luogo comune salgariano, d’altra parte il Marocco è più a occidente di Milano.
Poi ha detto: «La Procura condanna…», invece di dire: «La Procura chiede la condanna…». Un lapsus, senza dubbio, e i lapsus rivelano gli intimi desideri di chi vi incorre, ma cosa c’è di strano nel fatto che un pm desideri la condanna dell’imputato che ritiene colpevole?

E poi? Quale altra pecca si rimprovera alla dottoressa Ilda Boccassini? Ma, soprattutto, tra coloro che straparlano di queste due sbavature come se fossero i punti sui quali crolla tutto l’impianto accusatorio, quanti hanno ascoltato tutte le cinque ore e un quarto della requisitoria?
Io l’ho fatto e la mole di prove dirette e indirette portate a supporto della tesi di colpevolezza mi sembrano più che sufficienti a dimostrare che Silvio Berlusconi è davvero responsabile di quanto gli è attribuito nella formulazione d’accusa.

Non parlo di ciò che qualche moralista può rinfacciargli sul piano umano o di ciò che qualche cultore del galateo istituzionale può rimproverargli sul piano del decoro e dello stile: parlo del reato di sfruttamento della prostituzione minorile, un reato per il quale egli stesso si è speso perché fossero inasprite le pene.
Aspettiamo la sentenza, d’intanto mi sembra di poter dire che il pm abbia lavorato bene. E mi sembra di trovarne conferma negli strepiti di chi oggi, dopo la requisitoria, afferma che è inconsistente, che Silvio Berlusconi non ha mai pagato una puttana in vita sua, tanto meno minorenne, e fino a ieri si affannava a trovargli attenuanti definendolo «utilizzatore finale». 

[...]


Solo Napolitano poteva tenere a battesimo un governo come quello in carica, ed è per questo che chi nel Pd voleva un’alleanza con Berlusconi ha dovuto bruciare Marini e Prodi, escludendo a priori l’appoggio a Rodotà. L’idea è venuta appena il risultato elettorale ha fatto cadere il sogno di portare Bersani a Palazzo Chigi, ma forse era già in fieri da prima che si andasse al voto, da quando si era cominciato a capire che al Senato sarebbero mancati i numeri, però la speranza di rabberciare la maggioranza col voto di qualche transfuga del M5S non le dava ancora la forza che avrebbe acquistato il 26 febbraio. Lì si è deciso di darle corpo, e a qualsiasi prezzo. Il tradimento del mandato elettorale si sarebbe consumato in modo palese, la base del partito si sarebbe lacerata, l’alleanza con Sel sarebbe saltata: tutto questo si sapeva, ma lo stesso si è deciso di dar vita a un governo al quale Berlusconi avrebbe potuto staccare la spina in ogni momento, quando gli sarebbe tornato comodo, senza perdere neanche un voto. Non c’erano alternative? Più corretto dire che sono state scartate tutte: l’obiettivo era il governo che in campagna elettorale si era solennemente escluso potesse nascere. Quale logica ha sostenuto questa linea?  
Io penso che la regia dell’operazione abbia la chiara impronta di quella «destra comunista», già tutta in embrione nella «svolta di Salerno», che portò Togliatti all’alleanza con Badoglio e Casa Savoia. Il fatto che quella «svolta» rispondesse unicamente agli interessi di Stalin, e che Togliatti si sia limitato ad obbedire agli ordini partiti dal Cremlino, passa in secondo piano per Mario Pirani (la Repubblica, 14.5.2013), che pure risale a quel periodo per spiegarsi la logica che ha dato vita al governo Letta. Ora, è vero, la storia non concede controprove, ma sappiamo che Togliatti fu sempre supino ai voleri di Stalin: è azzardato immaginare che, se a Mosca fosse tornato comodo che il Pci imboccasse la via insurrezionale, Togliatti non avrebbe mai teorizzato alcuna «via italiana al socialismo», Secchia non avrebbe mai lasciato il posto ad Amendola al quarto piano del Bottegone, Napolitano e i miglioristi sarebbero stati strozzati in culla, ammesso e non concesso che avessero potuto emettere un vagito? Non ha senso discutere del passato ricorrendo ai «se», d’accordo, ma una cosa è certa: la «svolta di Salerno» fu la madre di tutti i successivi tentativi, riusciti o falliti, che il Pci mise in atto per arrivare nella mitica «stanza dei bottoni», e fu sempre evocata, in primo luogo dai suoi dirigenti, come una scelta coraggiosa di maturità politica contro ogni velleitarismo e ogni avventurismo. Non mancò mai, d’altronde, chi nella linea decisa da Togliatti nel 1944 vide la prima grande prova del suo cinismo, il primo dei tanti tradimenti che la dirigenza del Pci avrebbe consumato ai danni dei suoi militanti e dei suoi elettori. Tutto sommato, è un errore, perché già nel 1936, quando il regime fascista sembrava indistruttibile, Togliatti gli offriva collaborazione dalle pagine di Stato Operaio: «Noi tendiamo la mano ai fascisti, nostri fratelli… Siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919». 
Anche nel comunista più ripulito persiste incoercibile la tentazione al compromesso con quello che è indicato come peggior nemico del popolo fino a quando c’è speranza di sconfiggerlo e annientarlo. Naturalmente parlo del comunista che abbia responsabilità dirigenziali e che il crollo del muro di Berlino ha impreziosito con un «post»: parlo del post comunista che sta al Quirinale o in Largo del Nazareno. Fino a quando Berlusconi è stato con un piede nella fossa, la sua demonizzazione era uno strumento eccezionale per galvanizzare militanti ed elettori, per fare incetta di voti di quanti volevano sbarazzarsi della mostruosa atipia. Poi, quando sfuma il sogno di poterlo impiccare a testa in giù, ecco l’impellente bisogno di un governo di «coesione nazionale», di una «große Koalition», lamentando «il fatto – e qui cito Napolitano – che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse», «segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Di colpo, l’elettore che votava Pd per mero antiberlusconismo, convinto che quello fosse il voto utile, diventa un bruto, o come minino un incolto che nulla sa della politica come arte del possibile.
«Quando si ricordano queste cose agli odierni contestatori – scrive Pirani – essi obiettano che la coerenza di quegli anni era fattibile con un partito ferreamente disciplinato ed egemonizzato dal suo capo. Ma non era così. Come i pochi superstiti di quell’epoca possono testimoniare, la lotta per affermare la linea togliattiana di unità nazionale fu asperrima nel Pci e traversò, almeno fino al 1948, la sua trasformazione in “partito nuovo”. Quella fase fu accompagnata da polemiche dure per convincere alla “linea” le organizzazioni meridionali che risentivano del plebeismo rivoltoso della base cui faceva da contrappunto il settarismo di ascendenza partigiana nel centro nord. Solo un convinto, continuo, diffuso impegno pedagogico poteva avere la meglio sulle derive di sinistra e sulle resistenze dei vecchi quadri». Tutto vero, ma Pirani sorvola sulla natura di quell’«impegno pedagogico»: in sostanza consisteva nell’educare i quadri dirigenti a mentire ai militanti e i militanti ad adeguarsi ad ogni mutamento tattico senza farsi troppe domande. 

«Il suo decadimento è privo di valore estetico»


Philippe Daverio, L’arte di guardare l’arte, Giunti 2012 - pag. 56

lunedì 13 maggio 2013

Mission impossible

Ve lo dicevo: il narcisismo di Marco Pannella non tollererà a lungo la ferita che gli ha provocato la nomina di Emma Bonino alla Farnesina. Bene, è già in chiara sofferenza. Al momento, si contorce, smania...

The next day

Sono tra quanti hanno accolto con gioia l’uscita di un album di David Bowie dopo dieci anni di assenza e non sono rimasto deluso dall’ascolto dei 14 brani in esso contenuti, anzi, penso che tre o quattro siano decisamente belli: Dirty boys, I’d rather be high, Heat e, più di tutti, Where are we now?, un piccolo capolavoro che un clip diretto da Tony Oursler rende ancora più incisivo.
Ciò che invece mi ha fatto cadere le braccia è stato quello diretto da Floria Sigismondi per The next day, il brano che dà il titolo all’album. La regista c’entra fino a un certo punto perché David Bowie ha tenuto a render noto di aver scritto lui la sceneggiatura, segno che dev’esserne particolarmente fiero. Bene, penso si tratti di una delle cose più brutte viste negli ultimi anni. Mi risparmio di descriverlo, eccolo:


Un inqualificabile polpettone che può trovare ragione solo nell’intento di provocare la reazione di qualche associazione cattolica, come d’altronde è immancabilmente accaduto, per lucrarne un poco di pubblicità. Il problema non sta nella sensibilità che è stata ferita – allarte è consentito stressare ogni permalosità – ma nella sgangherata struttura concettuale del prodotto e nella deprimente soluzione formale che gli è stata data: siamo davanti a un plot che non ha alcuna consistenza, che scorre sciatto, senza alcuna logica a sostenerlo, tanto meno quella che muove il testo della canzone. Una vera cagata.  


Nota Necessario rifarsi gli occhi, dopo un Bowie così infelice: «Space Oddity, uno dei successi di David Bowie, cantata nello spazio dall’astronauta canadese Chris Hadfield nel suo ultimo giorno al comando della ISS, a poche ore dal suo ritorno sulla Terra… Un videoclip del genere, “lontano sopra il mondo”, il Duca Bianco se lo sogna» (repubblica.it).
 

domenica 12 maggio 2013

«La mafia è l’essenza della Sicilia»

@ementana decide che non cinguetterà più, la polemica divampa fino a lambire i massimi sistemi e della scintilla che ha appiccato il fuoco – l’affermazione fatta da Giuliano Ferrara nel corso di una trasmissione condotta da Enrico Mentana: «La mafia è l’essenza della Sicilia» (La7, 7.5.2013) – non se ne parla, come se gli insulti piovuti via Twitter addosso ai due fossero del tutto gratuiti. A chiudere la questione su questo punto – a pensare di averla chiusa – è stato lo stesso Ferrara, che su Il Foglio di venerdì 10 maggio, rispondendo alle proteste di una lettrice siciliana, ha scritto: «Io parlavo dell’essenza. Legga “Cose di Cosa nostra”, il bel libro di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani. […] [Falcone] ha detto quel che io ho ripetuto». Vi risulta che qualcuno si sia preso il disturbo di andare a leggere cosa avesse davvero scritto Falcone? A me non risulta. Bene, ci ho pensato io.
Mi ha mosso innanzitutto l’incredulità nel fatto che Falcone potesse aver detto una tale scempiaggine, ma ad andare in libreria, a procurarmi il libro, a leggerlo dalla prima all’ultima riga delle sue 190 pagine mi ha spinto il fatto che Ferrara avesse aspettato 48 ore per dare quella risposta. Perché? Semplice: non poteva farlo prima, non aveva ancora trovato l’intoccabile al quale mettere in bocca quella stronzata. A trovarglielo è stato Salvatore Merlo che in un articolo pubblicato sullo stesso numero de Il Foglio riportava un brano di quel libro: avrebbe dovuto dimostrare che «anche Falcone ne faceva una questione di essenza». Leggiamolo: «Un giorno ho assistito a Palermo a una scena di strada estremamente significativa. Un tizio protesta contro un altro che ha parcheggiato di traverso, intralciando la circolazione. Si agita, urla. L’altro lo osserva indifferente e poi continua a parlare con un suo amico come se niente fosse. Il tizio non fa una piega e se ne va senza fiatare. Aveva capito, davanti all’atteggiamento sicuro dell’interlocutore, che, se avesse insistito, le cose avrebbero preso una brutta piega e lui sarebbe uscito perdente dallo scontro. Questa è la Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere».
Dimostra che «la mafia è l’essenza della Sicilia»? A me non pare affatto, d’altronde, se «essenza» è «quanto individua e definisce la realtà di un oggetto materiale o ideale» (Devoto-Oli), la sua «realtà propria e immutabile» (Treccani), in tutto il libro non v’è traccia di tale relazione tra mafia e Sicilia. In quanto al termine, poi, «essenza» è usato una sola volta, nell’avvertenza in avantesto a firma di Padovani, e senz’alcuna attinenza alla mafia o alla Sicilia.
Nel libro ci sono altri passaggi che implichino una relazione tra mafia e Sicilia che consenta a Ferrara di poter affermare che,  nel dire: «La mafia è l’essenza della Sicilia», ha ripetuto quel che Falcone ha detto? Tuttaltro. Ogni volta che Falcone mette in relazione una caratteristica del mafioso a un aspetto della sicilianità, tiene a sottilineare con forza che si tratta di una degenerazione che lo rende «parossismo» (cap. II), di una sua «sublimazione a livello criminale» (cap. III)altra cosa che «essenza».
E dunque? Cosa è accaduto? Nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Mentana, Ferrara si è fatto prendere la mano e ha fatto un’affermazione che probabilmente voleva essere provocatoria, ma che di fatto era stupida e offensiva, e che successivamente avrebbe messo in bocca a Falcone, che non si era mai sognato di affermare nulla di simile. Qualche siciliano si è risentito e ha reagito con offese alle offese. Senza dissociarsi dall’affermazione di Ferrara, Mentana si è lamentato delle offese indirizzate a Ferrara, e così se n’è procurate altre indizzate a lui. Qui s’è turbato, ha cinguettato un addio ed è volato via. 

Da incorniciare (Internazionale, 999/XX - pag. 3)


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Il consigliere del principe, il cortigiano leccaculo, la favorita, la plebe che si nutre delle briciole che cadono dal tavolo… Tutta gente miserabile, ma che almeno ti dà modo di sorridere, anche se amaro. Infinita tristezza, invece, pensando al cane da guardia.


venerdì 10 maggio 2013

@nonnodipanopoli


A quarantott’ore dal tweet col quale Enrico Mentana ha dato il suo «saluto finale a tutti», l’account @ementana non è stato ancora disattivato. Vuol conservare memoria della sua attività su Twitter? Potrebbe fare un copia/incolla e archiviare tutto in una cartella. Vuol continuare a seguire i suoi 134 following? Può aprire un altro account usando un nome di comodo per usarlo solo in lettura.  No, a mio modesto avviso, il fatto che l’account sia ancora attivo è segno che la decisione di non twittare più sia stata presa d’impulso e che inconsciamente, almeno fino ad ora, l’addio non sia sentito come definitivo. Con quel gesto, tuttavia, Mentana si è reso difficile il ritorno, perché un molestatore è annichilito solo dalla perfetta noncuranza, quando è possibile, sennò dagli strumenti che la legge offre a chi non sappia o non voglia opporre un muro di indifferenza alle sue molestie, mentre invece perde ogni freno quando la sua vittima gli offra prova della loro efficacia, che qui è stata data in modo pieno. D’altronde, finché l’account è attivo, cosa impedisce che Mentana sia fatto oggetto di altre molestie? Erano così intollerabili da costringerlo a smettere di twittare, ma non ha mai denunciato nessuno dei molestatori: da oggi in poi lo farebbe? «Non ho mai bannato nessuno», ha rivelato: comincerebbe a farlo adesso? Saremmo dinanzi a patenti incongruenze logiche che cadrebbero solo nel caso in cui l’account restasse attivo ma Mentana avesse deciso di non visitare più la sua homepage: e allora – ancora – perché tenerlo attivo?

A me pare evidente che a Enrico Mentana piacesse molto twittare (1.444 tweet in meno di un anno), ma che non avesse ben chiaro il rischio che ogni attività sul web comporta o che in ogni caso lo sottovalutasse. «Su Twitter – osserva Massimo Mantellini – [si] può lucchettare il profilo […] usare le liste […] leggere solo le persone che piacciano […] bloccare gli imbecilli. Esiste perfino un tasto apposito. […] Interessa tutto questo [a Mentana]? Ha tempo da dedicare a tutto questo? Non so, non mi pare. Nella sua testa è probabile che Internet dovrebbe adattarsi a lui, comprenderne ruolo ed intelligenza, sensibilità e diritti». È pretender troppo. Come mettersi a declamare in greco le Dionisiache di Nonno di Panopoli al mercato ittico e lamentarsi se arriva un pesce in faccia. Sia chiaro, tirare un pesce in faccia a qualcuno è reato, sicché si può denunciare il fatto e portare il pescivendolo in giudizio. Ma non farlo e lamentarsi quanto il mondo sia insensibile alla bellezza della poesia bizantina, se non da coglioni, è da sprovveduti.


Nota Per correttezza ho linkato questo post a @ementana. Al momento l’account era ancora attivo, ma i following erano stati eliminati: operazione che non aveva senso in vista di una disattivazione dell’account. Bene, ora l’account è stato disattivato. Mi pare, così, ci sia conferma di quanto ho scritto: «inconsciamente, l’addio non [era] sentito come definitivo».   

mercoledì 8 maggio 2013

Nessun mistero



Su Giulio Andreotti si è detto di tutto in questi giorni, ma mi pare che con la sua morte siano andate a ridimensionarsi notevolmente le estreme figure retoriche che in vita l’hanno rappresentato come genio del male o grande statista, e in mezzo, d’un tratto, s’è fatto spazio per un ritratto assai più rispondente alla povera realtà dei fatti: era un mediocre di gran successo che ha incarnato i peggiori vizi del paese, al mero scopo di durare, per il mero piacere di durare. Ciò non toglie nulla alla sua grandezza, sia chiaro, ma la ridefinisce, e per certi versi – finalmente – la depersonalizza: Giulio Andreotti non era un mistero, tanto meno era un uomo misterioso. Forse anche i tanti misteri, di cui per anni e anni si è ritenuto fosse depositario, altro non erano che dettagli irrilevanti: anche se fossero liberati dalla millanteria in cui egli li ha fatti diventare segreti di stato, quasi certamente non spiegherebbero molto. Direi che Giulio Andreotti fu capace di entrare nelle narrazioni di comodo che un popolo di merda veniva costruendo nel corso di lunghi decenni per trovare consolazione alle sue impotenze e alle sue viltà, e fu capace di entrarvi per andare a interpretare il ruolo che gli assicurasse il dover essere necessario a spiegarle o addirittura a giustificarle. Più che accanto a De Gasperi o a Moro, andrebbe messo accanto a Mike Bongiorno e ad Alberto Sordi. Più che accanto a Machiavelli, sta bene accanto a Guicciardini. Più del tragico gesuita che sa quanto il male possa tornar utile alla Provvidenza per realizzare il bene, era il salesiano intrallazzone che sa cavar sugo dalla pietra pomice.

Non mi pare sia stata segnalata la freddezza con la quale la sua morte è stata accolta da Avvenire e da L’Osservatore Romano: più algidi di Wikipedia, neanche un cenno – neppure di sponda – alle sue lunghe ed intime frequentazioni con cinque o sei pontefici e due o tre dozzine di cardinali. Come imbarazzati a farsi vedere ai funerali. Andreotti e il Vaticano si sono serviti a vicenda al massimo, ma adesso è meglio dimenticare, far finta si trattasse di cortesie. Faranno santi La Pira, De Gasperi, Moro, ma Andreotti, che fu il più servile, risulterà in futuro come la più inservibile memoria di fedeltà agli interessi vaticani.

Giulio Andreotti si è andato nascondendo sempre più nell’immagine che era necessaria ai suoi pochi complici e ai suoi tanti avversari, a quanti lo temevano e a quanti lo ammiravano, fino a diventare vivo solo nelle tante caricature, macabre o farsesche, che gli insufflavano vita. Il vero Giulio Andreotti era quello che Leo Longanesi ritraeva nei primi anni ’50: «Quella di un romano non si può mai chiamare vigliaccheria. I romani la sanno lunga sul modo di servire i padroni e, nello stesso tempo, i propri interessi e usano della loro apparente fierezza per far sembrare la viltà solo un adattamento. Loro si adattano a mille situazioni diverse e, per giustificarsi, attribuiscono ogni sbracata al loro cinismo, o meglio, alla loro indifferente superiorità secolare, di cui perfino Mussolini ha fatto le spese. Andreotti possiede questa specie di vigliaccheria e si adatterà, glielo dico io, quando sarà il momento giusto; si adatterà pur di non perdere niente, pur di restare. Ma lo farà con garbo perché è un giovanotto garbato. Non è un tipo da gesti clamorosi o volgari. È prete». Basta intendere per «garbo» l’affabilità di chi corteggia le altrui debolezze facendosene campione, e penso siamo alla migliore messa a fuoco di un personaggio che non ebbe mai bisogno di essere persona. Giulio Andreotti non conteneva alcun enigma: era anaffettività, pusillanimità, mediocrità e vanità, ma astratte da un quadro clinico o da un romanzo di formazione. Giulio Andreotti non si era venduto l’anima al Diavolo, se n’era sbarazzato a gratis perché gli dava impaccio.