mercoledì 17 agosto 2011

“È contro i nostri principi”


Quando lo stato vuole ficcare un sondino in gola a chi non vuole, piazzare un prete a sentinella di uteri ed ovaie, schierare motovedette in mare a difesa della razza, Marcello Pera non si sente o, se si sente, è per spiegarci che la vita è indisponibile, che l’ovocellula fecondata è persona e che il meticciato insidia l’occidente. Quando però “lo stato vuole mettere le mani nelle nostre tasche”, ecco che si sveglia il liberale e grida al tradimento: “È contro i nostri principi”, sottinteso: “principi liberali” (Libero, 17.8.2011). Sarà che arriva alla Facoltà di Filosofia dall’Istituto di Ragioneria, via banca e camera di commercio, sicché il liberalismo gli è venuto guercio.

Francesco Maria Colombo, musicologo


“Con la fecondazione e l’unione dei corredi cromosomici dei nuclei dei gameti maschili e femminili – scrive Francesco Maria Colombo, musicologo – si crea una cellula dotata di un corredo cromosomico completamente nuovo”, e questo è giusto. Poi aggiunge: “Prima non c’era, dalla meiosi in poi c’è”, e questa è una cazzata stratosferica, perché la meiosi non è il processo che porta alla formazione dello zigote, ma a quella dei gameti, cioè di ovocellule e spermatozoi. Non è una svista, perché si insiste: “Con la meiosi avviene un reset del corredo genetico e si genera un’identità nuova, distinta da qualunque altra”. E a fugare ogni dubbio sul fatto che il musicologo abbia le idee confuse sull’argomento, si arriva al punto in cui troviamo “lo zigote nel momento in cui la meiosi l’ha prodotto”. È come se un biologo affermasse che una semibiscroma ha un valore pari a 64 semibrevi.
Siamo sulla prima pagina de Il Foglio, che sull’embrione, dopo aver dato voce ai preti, adesso la dà ai critici musicali, poi probabilmente sarà la volta dei patiti di filatelia, degli arrotini o dei maestri di ikebana. Quello di Francesco Maria Colombo è presentato come un manifesto, ma in realtà è il solito temino scritto col sentimento, zeppo dei luoghi comuni cari ai nemici della legge 194, nel quale lo strafalcione sulla meiosi si incastona a meraviglia.
“Io, tu, tutti siamo stati uno zigote… Tutti noi abbiamo attraversato lo stadio blastemico… Tutti noi siamo stati, a un certo punto della nostra storia, un essere umano che poteva impunemente essere ucciso…”. E se non bastasse il repertorio delle strazianti suggestioni letterarie del narcisismo squisitamente retroproiettivo, che fonda la persona dove non ce ne sono i requisiti, ecco l’immancabile foto dei simpatici freak che “io, tu, tutti” potevamo essere, eugenetica permettendo: “due donne palesemente minorate e malformate”, by Diane Arbus.
Cose così, alla Ferrara. Quando vuole distrarci dai suoi imbarazzi, ci parla di aborto.




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Riflettere


La reazione di Nicola Zingaretti è stata pronta: “Non possiamo tacere sulle parole e sui paragoni sprezzanti rivolti dal leader della Lega nei confronti del senatore a vita e Premio Nobel, Rita Levi Montalcini, uno scienziato di valore internazionale, uno dei cervelli più acuti del mondo, una donna impegnata che tutti ci invidiano”. Reazione pronta, ma istintiva e del tutto immotivata, perché Umberto Bossi si era limitato a dire: “Fino a che c’era Fini era più facile governare, ma, quando si ha bisogno, ci si regge con quello che si può trovare, e allora è meglio Scilipoti che la Montalcini”. Solo enucleando l’ultima parte della frase abbiamo un “paragone sprezzante” che offende la Montalcini, mentre il contesto rende chiaro che l’offesa, peraltro involontaria, è indirizzata a Scilipoti, al quale va l’unica stima di tornare utile col suo voto di fiducia al governo.
Ora, senza dubbio Bossi è una bestia, ma qui è Zingaretti a ricavarci una figura da cane, di quelli utilizzati da Ivan Pavlov per i suoi esperimenti sul riflesso condizionato.



martedì 16 agosto 2011

Ferragosto


Devo correggere un inestetismo nel quale sono incorso in uno dei post qui sotto, scrivendo “ferie di Ferragosto”. Si tratta – insieme – di un pleonasmo e di un bisticcio, perché Ferragosto ha già in sé l’essere feriae, per la precisione feriae Augusti, perché istituite appunto da Cesare Augusto, quasi mezzo secolo prima che Cristo pronunciasse la famosa frase: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, un’altra delle ambigue sue, quasi tutte escogitate per salvare il culo dai severi custodi del Tempio (fatica sovrumana e alla fin fine inutile). Festa eminentemente laica, dunque, ma alla quale i cristiani, per il loro malvezzo di parassitare tutto il parassitabile, hanno voluto sovrapporre la Festa dell’Assunta, che celebra peraltro il più cretino dei dogmi, l’ultimo in ordine cronologico, che vuole sia accettata per fede l’assunzione in cielo di Maria, viva, in carne e ossa, priva di capsula depressurizzata, e tuttavia non esplosa in aria intorno agli ottomila piedi.
Me lo rammenta il cardinal Ravasi che con la sua immarcescibile faccia di cazzo, dalla Domenica de Il Sole-24 Ore (via Luca Massaro), se ne esce con una robetta del tipo: “Si preferisce la terminologia più neutra [*] di  «Ferragosto», ma un po’ tutti sanno che il calendario reca domani la titolatura «Assunzione della Beata Vergine Maria», e via col suo consueto scacazzare citazioni dotte, come è tipico dei preti che hanno urgenza di segnalarsi al di sopra della infima e nota media.
Il dogma che scippa a Cesare quel che non è Dio è del 1950 e come gli ultimi (l’infallibilità del papa, nel 1870, e l’immacolata concezione nel 1854) viene nei momenti in cui la Chiesa è in difficoltà col mondo che le cambia d’intorno: lì la Grande Meretrice sente l’irresistibile bisogno di arroccarsi nell’assurdo e di chiamare alla prova chi ha paura di restare scoperto dalle sue natiche. Accadde pure del 1950. Finita la guerra, il mondo riprese il gusto di andare a rilassarsi al mare. I costumi da bagno diventavano succinti... 


[*]  “Più neutra”, un cazzo: è la terminologia originaria, Eminenza.

 

Erano promesse da marinaio


Di fronte all’impossibilità di onorare gli impegni assunti col programma che ha sottoposto all’approvazione degli elettori, ottenendola, un governo dovrebbe dimettersi. A maggior ragione, dovrebbe dimettersi di fronte all’eventualità di essere costretto a fare tutto il contrario di quanto fosse negli impegni presi, vuoi per congiuntura non prevista, che a posteriori è prova della debolezza del programma, vuoi per forza maggiore, che a priori è prova della debolezza del governo: in entrambi i casi sarebbero venute le premesse sulle quali fondava il patto tra rappresentati e rappresentanti, che dunque andrebbe rinnovato. Naturalmente questa regola non vale quando il programma elettorale è poco più un depliant pubblicitario.
Quello che il Pdl presentò nel 2008 agli elettori prometteva “meno tasse sulla famiglia, sul lavoro, sulle imprese”, “più consumi, più produzione, più posti di lavoro”, “più entrate nelle casse dello Stato per aiutare chi ha bisogno, per realizzare le infrastrutture, per diminuire il debito pubblico”. Era quanto Silvio Berlusconi prometteva dal 1994 senza mai essere stato in grado di mantenere, probabilmente senza neanche averne l’intenzione: il patto tra elettori e governo era far finta di crederci sapendo che non sarebbe stato ragionevole aspettarsi troppo. E dunque non ha senso chiedere le dimissioni di Silvio Berlusconi, forse neanche è giusto, tanto più che alternative di governo non sono oggi immaginabili più di quanto fossero alla caduta del governo Prodi. È la mancanza di una credibile alternativa a questo governo che obbliga a non tener conto della patente contraddizione tra il programma presentato agli elettori nel 2008 e le decisioni prese dal Consiglio dei Ministri in questi giorni.
Sarà penoso e senza dubbio superfluo, ma occorre ribadire che ogni paese ha il governo che si dà e che in fondo merita. Poi, però, c’è chi pretende di strafare.

C’è chi pretende di rinsaldare il patto tra paese e governo sul mancato rispetto del programma elettorale. “Crediamoci ancora”, esorta Alessandro Sallusti (il Giornale, 14.8.2011). Ma è sempre possibile far meglio (o peggio, secondo i gusti) e allora ecco Giuliano Ferrara, l’intelligentissimo, che non cede alla constatazione della congiuntura non prevista o dell’evenienza di forza maggiore. Via, siete italiani, siete della pasta di Silvio Berlusconi, anche voi fate promesse in quasi buona fede, dovendo crederci per darlo a credere. Siate indulgenti, dunque. Prim’ancora che verso il governo, verso voi stessi: il patto sia rinnovato sulla necessità della menzogna e dell’inganno.
“È un imbroglio ideologico dire che il governo si è accanito sul ceto medio, mettendo le mani nelle tasche degli italiani contrariamente alle promesse fatte da Berlusconi… Era una promessa da marinaio escludere, appunto «tassativamente», che il governo Berlusconi potesse mai prelevare quattrini dalle nostre tasche a fronte del debito pubblico al 120 per cento e in circostanze di crisi finanziaria generale particolarmente pericolose per l’Italia. Temeraria la promessa, enfatica e grossolanamente demagogica la delusione… Date le circostanze, probabilmente non si poteva agire altrimenti, e Padoa Schioppa o Bersani non avrebbero fatto niente di diverso da quello che hanno fatto Tremonti e soci…” (Il Foglio, 15.8.2011).
La constatazione che Silvio Berlusconi abbia chiesto voti nel 2008 proprio per “agire altrimenti” sarebbe recriminazione “ideologica”, e la pretesa che il patto tra rappresentati e rappresentanti sia espresso da un programma di impegni sarebbe “demagogica”. Ecco che ad essere “demagogica è la democrazia, e il demagogo è un povero cristo non diverso da voi, come potete impiccarlo alle sue promesse? Erano promesse da marinaio, i navigati non potevano non saperlo. Gli altri? Dei poveri stronzi. Vi conviene non essere fra questi ultimi e non dar luogo a delusioni enfatiche. Avete votato il Pdl? Il programma era un elenco di promesse impossibili da realizzare, dite che lo sapevate, così non avrete bisogno nemmeno di sforzarvi nel “crederci ancora”. Farete un figurone.

domenica 14 agosto 2011

Cucù

Se c’erano guardie del corpo a proteggerla, non erano riconoscibili. Aveva un tailleur nero, forse antracite, che sembrava preso ai grandi magazzini, e anche a dieci metri di distanza mostrava tutte le sue rughe e due grosse borse sotto gli occhi color cenere. Nell’insieme dava l’impressione di una preside e tuttavia, sforzandosi, si doveva riconoscere in lei il Cancelliere della Germania, la donna che qualche giorno fa ha potuto annunciare ai tedeschi un’ulteriore riduzione del deficit e un significativo taglio delle imposte, robe che da queste parti non si promettono, ma – appunto – si annunciano. Sarà stata l’occasione – si commemorava la costruzione del Muro di Berlino, stamane, in Bernauerstrasse – ma Angela Merkel aveva un sorriso sospeso in un indugio, come trattenuto, e forse nemmeno era un sorriso.
Da italiano fuggito dall’Italia con la scusa delle ferie di Ferragosto, non ho potuto fare a meno di pensare che era la donna alla quale, non più di qualche anno fa, Silvio Berlusconi faceva cucù. Settanta chili di merda insaccati in un Caraceni, la quintessenza del cretino di successo, il furbo che ora annaspa nel suo bavoso sentimentalismo, faceva cucù questa opaca democristianona che guida la prima economia d’Europa. Dio, fammi morire qui.

venerdì 12 agosto 2011

giovedì 11 agosto 2011

La cosiddetta rivolta



In relazione ai disordini che hanno funestato il Regno Unito in questi giorni, si dovrebbe innanzitutto evitare l’uso del termine rivolta. Si è trattato senza dubbio di violenza collettiva, ma ad essa mancava l’unità di causa e di fine che nel moto rivoltoso è una costante. In quanti danno vita a una rivolta, infatti, potremo riscontrare quasi sempre ragioni diverse, variamente articolate, addirittura contraddittorie, e scopi differenti, differentemente espressi anche quando comuni, e anche qui contraddittori, ma che sono sempre componenti di un vettore univoco: date tutte le variabili, la rivolta ha sempre causa e fine nel potere costituito (o in una sua rappresentazione) che intende mettere in discussione.
È per questo che una rivolta ha sempre una parola d’ordine che mira a reclutare forze, anche quando è solo implicita nei simboli che produce. Anche quando è velleitaria, la rivolta si dà come mezzo. Anche quando degenera in follia collettiva e si esaurisce nella drammatizzazione di basse pulsioni istintuali, la rivolta non perde mai di vista, o almeno mai del tutto, l’interlocuzione col potere costituito (o una sua componente).
Tutto questo non è accaduto nel Regno Unito, anzi, tutto ciò che ha sembrato giustificare l’uso del termine rivolta – la protesta contro un presunto abuso delle forze dell’ordine – si è da subito rivelato inconsistente, buono tutt’al più a offrirsi come pretesto. Nel Regno Unito non è accaduto altro che quanto abbiamo visto a New York, col black out del 1977.
E anche stavolta è stato fatto lo stesso errore di analisi, per fretta, pigrizia intellettuale, cedevolezza a suggestioni di comodo, secondo questo o quel comodo. Così abbiamo sentito madornali paragoni con le rivolte di Tunisia, Egitto, Libia e Siria, perfino con gli indignados di Madrid. Giacché il teatro dei disordini erano i suburbs, c’è chi ha pensato di poter vedere un analogo con le banlieues. E naturalmente c’è chi ha visto Londra stretta nel tristo nodo di “multiculturalismo”, “relativismo” e “islamismo” (Roger Scruton – Il Foglio, 10.8.2011). Non c’è stato nulla che autorizzasse tali congetture: i teppisti erano bianchi, neri e asiatici; indigenti, ma non solo; ragazzini, ma anche quarantenni; in gang, ma anche individualmente; miravano al saccheggio di beni di lusso, non erano espressione della “rabbia sacrosanta” dei morti di fame (Paolo Flores d’Arcais – Il Fatto Quotidiano, 10.8.2011), né erano parte del fronte di “un fenomeno di portata continentale” (Nichi Vendola – il manifesto, 10.8.2011).


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mercoledì 10 agosto 2011

“Guardate come ce l’ha piccolo! Guardate come ce l’ha moscio!”



Non so se conoscete quella dell’avvocato che difende un novantenne accusato di stupro. Storiella scema, ma oggi può tornarci utile. E dunque, l’avvocato fa abbassare i pantaloni al suo cliente, gli prende in mano il pene grinzo e flaccido, lo mostra alla giuria e chiede: “Ma vi pare che con un pene simile si possa commettere uno stupro?”. Qui, avendo colto sui volti dei giurati l’effetto desiderato, già certo dell’assoluzione dell’imputato, si accalora nell’arringa: “Guardate come ce l’ha piccolo! Guardate come ce l’ha moscio!”, e accalorandosi scuote e strapazza il pene del suo assistito. Fino a quando quello gli sussurra in un orecchio: “Avvocato, io direi di smetterla, sennò perdiamo la causa”.

Bene, con Ferrara che difende Verdini, ci troviamo in situazione analoga: Verdini avrebbe dovuto attenersi a un codice di prudenza, di riservatezza e di astensione da pressioni e richieste di informazioni che le intercettazioni, unico riscontro probatorio in campo, segnalano. Ma tutto questo cos’è? E’ un processo serio per associazione a delinquere, basato su reati accertati, cose realizzate, ipotesi chiare di concussione o di ostruzione della giustizia? […] C’è per Verdini qualcosa di diverso da una eticamente discutibile propensione a mescolare politica e lobbismo? C’è un reato? Occuparsi del lodo Alfano, cercare di sapere in anticipo gli orientamenti della Corte, dare spazio a qualche più o meno goffo o sinistro maneggione che assicura di essere in possesso di contatti utili, è reato? Il familismo amorale, in un caso, e la spregiudicatezza nel raccogliere informazioni sensibili intorno al contenuto decisivo della politica contemporanea, e cioè l’orientamento delle Corti in fatti di alta politica istituzionale, sono comportamenti criminali, integrano il reato associativo, già di per sé molto discutibile, con le severe conseguenze del caso? Promuovere l’eolico con un paio di telefonate di raccomandazione a un presidente di regione del tuo partito e un invito a pranzo di piccoli uomini d’affari, senza peraltro realizzare alcunché, è roba da benefattori dell’umanità o roba da gangster?” (Il Foglio, 10.8.2011).

“Basta così, Giulia’, basta così – sembra di udire il povero Denis sennò conviene andare a patteggiamento”.


Chessò, una proctite acuta

Benedetto XVI non viaggia a spese sue – abitudine da parassita, ma ormai tanto inveterata da sembrare un onore concesso al parassitato – e il viaggio che tra qualche giorno lo porterà in Spagna costerà 60 milioni di euro: a un paese che di certo non naviga in buone acque. Dopo aver faticosamente spiegato agli spagnoli che dalla crisi economica non si esce senza i consistenti tagli al welfare decisi dal governo su pressione dei partner europei, non sarà facile trovare una spiegazione decente a questo indecente sperpero di denaro pubblico. Quelle spagnole sono state le proteste più pacifiche finora viste in Europa a fronte di analoghi provvedimenti di “macelleria sociale”, e a tutt’oggi sembrano in gran parte sopite, per stanchezza o rassegnazione: il viaggio di Benedetto XVI potrebbe risvegliarle e stavolta renderle assai più agguerrite, condannabili, se vogliamo, ma comprensibili, perché dopo l’indignazione viene quasi sempre la rabbia.
Ecco, io mi permetterei di suggerire a Sua Santità di dare una prova di somma saggezza: trovi una scusa – chessò, una proctite acuta – e annulli il viaggio. Potrà comunque assicurare la sua presenza alla Giornata Mondiale della Gioventù, ma in videocollegamento: la vocina da proctite acuta ce l’ha già di suo, di bugie non sarebbe la prima e certo non arrossirebbe. Insomma, potrebbe funzionare, e comunque non sarebbe meno credibile del solito. Eviterebbe di prestarsi a pietra di un enorme scandalo e potrebbe addirittura conquistarsi la simpatia di qualche indignato.

martedì 9 agosto 2011

“Una multinazionale sicuramente onesta”.


“All’ammalato sembra amaro ciò che mangia, mentre per chi è sano
è ed appare il contrario. Non bisogna considerare nessuno dei due
più sapiente dell’altro, né si deve affermare che l’ammalato è ignorante
perché ha tale opinione, o che il sano è sapiente perché ne ha una diversa…
Ciò che il medico fa con i farmaci, il sofista fa con i discorsi”

Teeteto, 166E-167A  

Protagora, il sofista, avrebbe trovato assai ficcanti le meditazioni di Ivo Silvestro sull’omeopatia. Almeno a quanto Platone ci illustra nel Teeteto, infatti, sull’omeopatia Protagora sarebbe stato altrettanto indulgente. Prendendo le difese di un Boiron – i sofisti erano filosofi, ma anche un po’ avvocati, quasi sempre difensori di imbroglioni – Protagora avrebbe cominciato col minare il pilastro dell’accusa: “L’omeopatia è un imbroglio?”, avrebbe chiesto, e infatti così chiede Ivo Silvestro, aprendo il post.
Certo, l’omeopatia è un imbroglio – imbroglio è la teoria che tenta di conferirle dignità di terapia, imbroglio è la pratica che della terapia non ha niente – ma un bravo avvocato, filosofo per giunta, sofista nella fattispecie, non potrà e non dovrà capitolare dinanzi all’evidenza: cos’è, in fondo, un imbroglio? Meglio: siamo poi sicuri che – in fondo, in fondo, in fondo – il paziente non voglia proprio essere imbrogliato affidandosi all’omeopatia? Ma un imbroglio voluto da chi poi si fa effettivamente imbrogliare, che imbroglio è?
La regola che Protagora – pardon, Ivo Silvestro – ritiene sia alla base del rapporto omeopata-paziente starebbe proprio in questo voler essere imbrogliato del paziente e in questo imbrogliare dell’omeopata: né il primo deve sospettare sia un imbroglio, né il secondo deve rivelarlo tale, sennò la terapia non funziona. Si tratta di un genere di medicina che è tanto più efficace quanto più somiglia alla truffa che il truffato non riesce a riconoscer tale.
Per dire: pretendere che un flacone di pilloline omeopatiche rechi la scritta “truffa” sarebbe come pretendere la scritta “placebo” su una confezione di placebo. E il costo? Com’è che un preparato omeopatico costa in media 50 volte più di un placebo? Domanda alla quale un sofista vi risponde con un sorriso carico di pena: più è truffa, più funziona, e in fondo non c’è un sacco di gente disposta a credere e a spendere? Vorrete mica spezzare il mirabile equilibrio sul quale è costruito l’impero di Boiron, il benessere di chi sta da Dio a mandar giù costose pillole di niente, e il bell’argomentare del sofista? Sì? E in nome di cosa? Della trasparenza del prodotto alla quale sottoponete un qualsiasi altro farmaco? Ma leggete il Teeteto, stupidini, e senza dubbio capirete, e cambierete idea: ciò che Boiron fa con i suoi preparati omeopatici, Protagora fa coi suoi discorsi, e Ivo Silvestro col suo post. La smetterete di rompere il cazzo a “una multinazionale sicuramente onesta”.

Le tasse sono impopolari




Siamo con l’acqua alla gola, saprete, e c’è bisogno di misure straordinarie: nuove tasse o altri tagli? Il giornale di Giuliano Ferrara non ha dubbi: Elettoralmente, così come economicamente, le tasse sono impopolari: i tagli, invece, sono bellissimi”. Cominciamo da quei 3.745.345,44 euro di finanziamento pubblico che Il Foglio si pappa ogni anno? No? E allora ficcarsi la proboscide in culo e star zitto?



domenica 7 agosto 2011

“Siamo alla vigilia di una grande svolta”



“Io non credo alla depressione di Vasco... Quello cui stiamo assistendo
è il brontolio di un vulcano che sta per eruttare... Certo è che il ruolo
di rockstar ora gli va stretto... Siamo alla vigilia di una grande svolta,
impensabile per chiunque... Io credo di sapere cosa ha in mente, ma taccio”

Gaetano Curreri, Corriere della Sera, 7.8.2011


Lo sfogo che Vasco Rossi ha affidato ieri sera alla sua pagina di Facebook ha gettato i suoi fan nell’angoscia. Reazioni esagerate, almeno a detta di chi lo conosce bene. In realtà, lo stato di prostrazione lamentato dal Genio di Zocca non sarebbe altro che il sofferto processo che precede una “grande svolta”. Quale? Non ci è dato indizio, tranne il fatto che si tratterebbe di qualcosa oggi “impensabile”. Sembra niente, ma è abbastanza per fare alcune ipotesi.

Conversione Quello che a molti parve un manifesto nichilista (“voglio trovare un senso a questa vita / anche se questa vita un senso non ce l’ha”) era in realtà una drammatica richiesta di aiuto, che non rimase inascoltata. Dal 2005 – già dal 2004, secondo alcuni – il cantante intratterrebbe un fittissimo carteggio con monsignor Rino Fisichella, e gli psicofarmaci avrebbero facilitato il suo riaccostarsi alla fede. La sua vita artistica non potrà che risentirne positivamente e pare che nel cassetto abbia già una dozzina di inediti, distanti anni-luce dalle atmosfere grevi che caratterizzano la sua produzione antecedente, che peraltro il Blasco avrebbe intenzione di rieditare cambiando i testi, raccogliendola in un megacofanetto di 16 cd dal titolo C’è chi dice sì. L’annuncio ufficiale della conversione dovrebbe essere dato con la sua partecipazione a sorpresa alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù. Si mormora che canterà la sua nuova versione di Siamo solo noi (“… che andiamo a letto dopo il rosario / e siamo consci del peccato originario / siamo solo noi / che abbiamo vita regolare / e ci sappiamo limitare /siamo solo noi…”).

Discesa in campo Negli ultimi tour, davanti alle folle sterminate dei suoi fedelissimi, Vasco Rossi ha sentito che il ruolo di rockstar gli stava stretto e ha cominciato a meditare sull’eventualità di darsi alla politica. Col Partito Radicale al quale è scritto da anni e anni? Con l’intenzione di candidarsi a leader del centrosinistra? Non sarebbe del tutto “impensabile”. La “grande svolta” potrebbe consistere in una discesa in campo a sorpresa, con l’idea, neanche tanto balzana, di sfidare i politici del centrodestra sul loro terreno: ragazze, cocaina e farfugliamenti sconnessi. Pare che la voce stia seminando il panico nel Pdl, ma non mancano i favorevoli, anche autorevoli, e perfino qualche entusiasta, fra i quali Giuliano Ferrara, che stava annoiandosi a morte dietro un Cav. sempre più moscio, e in Vasco Rossi vede una straordinaria “icona pop”.

Transgender Il malessere del Blasco sarebbe dovuto esclusivamente al disagio di impersonare un ruolo che ormai gli pesa. Nei panni del maschio perennemente a caccia di sbarbine non si sente più a suo agio e da tempo sta meditando la “grande svolta” che ai più oggi pare “impensabile”. Costole fratturate? Macché, si è fatto impiantare delle protesi mammarie. Psicofarmaci? Si fa per dire, in realtà si tratta di estrogeni. Non sappiamo ancora quanto ci vorrà per il definitivo taglio con un passato di macho fascinosamente cipiglioso, al momento è uno stillicidio d’ansia che a goccia a goccia cade in quella che prima o poi sarà una piena Vasca.


sabato 6 agosto 2011

Parliamo di islamofobia

Giovanni Fontana scrive che islamofobia è una parola fasulla perché cerca di accostare al razzismo il rifiuto di una religione” (Distanti saluti, 6.8.2011). Non sono d’accordo e penso che nell’esprimere tale opinione egli commetta un grave errore. Il suffisso -fobia, infatti, non esprime necessariamente un sentimento razzista, ma piuttosto – sia nel linguaggi clinico che in quello comune – quel combinato di paura, avversione e ripugnanza, quasi sempre istintive, immotivate e dunque patologiche, che il -fobico non indirizza necessariamente su un individuo di razza diversa dalla sua (perfino nella xenofobia la differenza di razza può non essere affatto l’elemento che scatena e sostiene la fobia), né necessariamente su un individuo, ma anche – e, anzi, più spesso – su animali, oggetti o situazioni.
D’altra parte, ho come l’impressione che questo errore sia voluto, quasi cercato da Giovanni Fontana, e sostenuto da una vera e propria fobia del termine islamofobia e/o di chi lo usa. Sarà il caso di fare chiarezza, dunque, e a tal fine possiamo cominciare proprio dal raccogliere il suo invito a “riflettere sul portato semantico e ideologico di quella parola”. Sul piano semantico, data la premessa, direi che per islamofobia si possa intendere il complesso variamente combinato di paura, avversione e ripugnanza, quasi sempre istintive, immotivate e dunque patologiche, che l’islamofobico indirizza sull’islam. È chiaro che, però, l’islam potrà suscitare paura, avversione e ripugnanza anche in chi non sia islamofobico: la differenza sarà nel fatto che tali sentimenti saranno motivabili sul piano razionale con argomenti in grado di supportare la critica e il rifiuto di ciò che l’islam rappresenta sul piano religioso, culturale, ecc. Differenza che non sarà affatto irrilevante nel caratterizzare il portato ideologico della critica e del rifiuto, a cominciare dalle modalità che questi assumeranno sul piano culturale e politico, sicché difficilmente l’islamofobico riuscirà ad esprimere una critica ben argomentata di ciò che rifiuta dell’islam, e in lui il rifiuto assumerà una configurazione di tipo coattivo, contrassegnata sul piano culturale da assunti raramente dimostrabili, quasi sempre pregiudiziali, ma senza che il pregiudizio sia necessariamente razziale, mentre sul piano politico si esprimerà in istanze di difesa identitaria, segnate non di rado da un’urgenza dal sapore paranoico. E tuttavia il razzismo potrà non essere in questione, e spesso infatti non lo è.
D’altronde, dando spazio alla contraddizione, è lo stesso Giovanni Fontana che concede: “Il razzismo contro l’islam non esiste, né esiste quello contro il cristianesimo, perché islam e cristianesimo non sono razze: sono sistemi di pensiero con cui ognuno di noi può decidere di essere d’accordo, oppure no”. Benissimo, ma non abbiamo cominciato a parlare di razzismo perché abbiamo voluto intravvederlo a tutti i costi in una parola che – come si è fin qui cercato di dimostrare – non lo implica? E allora, di che parliamo?
Possiamo concordare sul fatto che “essere contro l’islam non vuol dire essere «contro i musulmani», per la semplice ragione che – per fortuna – le persone sono molto più che una sola cosa: possiamo non essere d’accordo con le convinzioni politiche dei nostri amici, senza per questo rifiutarli del tutto. Tanto più che l’Islam è composto di almeno tre cose: la Sunna, quindi il Corano e gli Hadith; la tradizione della legge islamica, la Shari’a; e le persone che ci vivono dentro. Si possono considerare infondate, sessiste, violente, le idee espresse nelle prime due senza estendere questa valutazione a coloro che queste idee decidono di ignorarle”. Perfetto, perfettissimo. Proprio perciò il termine islamofobia può essere validamente usato: indica l’errore culturale e politico, indotto dal cedimento al pregiudizio (non necessariamente razzistico) che l’individuo si esaurisca nel complesso identitario di storia-religione-cultura che caratterizzano la comunità nella quale gli è capitato di nascere.
L’islamofobia esiste, ed è una malata reazione all’islam, che può essere criticato e rifiutato – in parte o in toto – senza alcun ricorso a procedure di natura fobica. Esiste anche la cristianofobia? Certo, ma non è quella di chi critica e rifiuta il cristianesimo con argomenti. In tal senso, l’uso che alcuni cristiani fanno del termine è specioso e strumentale nel tentativo di eludere gli argomenti di critica e le ragioni del rifiuto. I satanisti, per esempio, sono cristianofobi e, come gli islamofobi con l’islam, non hanno argomento contro il cristianesimo che la loro patologica e irrazionale avversione. E anche in questo caso il razzismo c’entra poco o niente.  

venerdì 5 agosto 2011

“Che galantuomo!”


Giulio Tremonti si è recato in Procura per chiarire il significato di quanto aveva dichiarato nel corso di un’intervista: “Ho accettato l’offerta di Milanese, perché in caserma non mi sentivo più tranquillo: ero spiato, controllato, pedinato” (la Repubblica, 28.7.2011). Ha detto che si trattava di una sensazione personale che non basava su alcun dato oggettivo, che quelle affermazioni riferivano di uno stato d’animo, e che il clamore da esse sollevato è stato frutto solo di una “forzatura giornalistica”.
Possiamo archiviare il caso, e con un bel sospiro di sollievo, perché l’idea di un Ministro dell’Economia spiato dalla Guardia di Finanza ci avrebbe tenuti a lungo in sospeso tra ansia e spasso. Resta solo da spiegarci perché “il ministro avrebbe donato al magistrato una copia del suo libro Lo stato criminogeno, edito nel 1997” (ansa.it, 4.8.2011), invece che una copia di una delle sue fatiche più recenti (Meno tasse più sviluppo, 1999; Guerre stellari, 2000; Rischi fatali, 2005) o, come sarebbe stato più naturale, dell’ultima (La paura e la speranza, 2008), che peraltro supera le posizioni de Lo stato criminogeno, correggendole. La risposta è semplice: in quel libro, che è l’unico nel quale Tremonti affronta il tema della giustizia, si offrono garanzie alla magistratura.
Si parla di Tangentopoli e di Mani pulite, e senza dubbio, come si legge fin dalla quarta di copertina, vi è contenuto un atto di accusa allo stato giacobino”, ma riconoscendo alla magistratura il merito di aver messo fine alla cleptocrazia politica” (pag. 127) con una rivoluzione legale” (pag. 128) resa ineluttabile da una classe politica responsabile di un deficit di democrazia che si era tradotto in una “democrazia del deficit(pag. 129). Può darsi che la funzione penale abbia mostrato aspetti poco garantisti, certo, ma la repressione è stata largamente inferiore rispetto alla enorme estensione dei crimini commessi” (pag. 129), sicché molti dei principali fattori criminogeni (la democrazia bloccata, la partitocrazia strutturata) sono scomparsi, ma non basta ancora” (pag. 131).
Non basta l’azione della magistratura, perché la giustizia da sola non è un potere sufficiente” (pag. 132), sicché Tremonti fa proprie le opinioni di Pier Camillo Davigo (Tempo per un nuovo inizio - Economia & Management, 2/1993): per ridurre ulteriormente la portata dei fattori criminogeni [è necessario] stabil[ire] un rapporto nuovo e più equilibrato tra stato e società” (pag. 157), e questo è possibile solo grazie ad una filosofia politica radicalmente diversa da quella finora dominante [...] filosofia che è sintetizzata nel manifesto posto a chiusura di questo libro” (pag. 131), dove Tremonti si mette in posa da homo novus, agli antipodi del politico che vive di mazzette. Un biglietto da visita che a un magistrato non può che far esclamare: Che galantuomo!”.
Possiamo esser certi che Tremonti non sia stato tanto sfacciato da offrire al Procuratore capo di Roma una copia corredata da sottolineature dei passi ai quali intendeva dare evidenza, ma non è difficile immaginare quali fossero.


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Il direttore di Pontifex arrestato per stalking



giovedì 4 agosto 2011

In questo punto critico

Se questo governo non arriva a fine legislatura, la pur lontana possibilità che Silvio Berlusconi rivinca le prossime elezioni politiche è irrimediabilmente persa, e con essa, per lui e i suoi alleati, per i sodali che hanno goduto della sua protezione, per i ruffiani che hanno affollato la sua corte, per chiunque abbia vissuto delle briciole che cadevano dalla sua tavola, tutto è perso. È comprensibile, dunque, che egli sia disperatamente aggrappato alla Presidenza del Consiglio e che a lui siano disperatamente aggrappati complici e famigli, dipendenti e clienti, troie e quaquaraquà. Per costoro, ovviamente, la questione non si pone.
La questione che riguarda tutti gli altri, anche chi ha votato Silvio Berlusconi nel 2008, è che questo governo è del tutto inadeguato a fronteggiare una crisi che volge alla catastrofe, prima di tutto perché non è capace di prenderne atto con l’indispensabile autocritica che sarebbe la premessa minima alla ricerca di una qualsivoglia soluzione. La negazione dell’evidenza e la distorsione della realtà sono tratti della personalità di Silvio Berlusconi che improntano la sua azione di governo, con una sottovalutazione dei problemi che ha intento ed efficacia di esorcismo e una sopravvalutazione delle proprie energie che arriva ad assumere forme deliranti, fino alla folle convinzione che i problemi si risolvano con l’ottimismo ad oltranza, spudoratamente esibita come filosofia politica e anima del programma.
Nessuno, a tutt’oggi, è stato capace di guarire Silvio Berlusconi da questa sua grave patologia o, in ogni caso, di dissuaderlo dal guardare alle prestazioni economiche del paese con la stessa indulgenza, la stessa esaltata soddisfazione, con la quale prende per credibili le lodi che gli vengono da lacchè e puttane. È un caso clinico senza speranza, un affetto da narcisismo maligno dalle straordinarie doti di impostore e manipolatore, con straordinari mezzi a disposizione per fare dell’impostura e della manipolazione le regole del mondo che è in grado di costruire attorno a lui.
Quando un mondo di questo tipo subisce crepe e le inevitabili infiltrazioni di realtà, il malato reagisce come aggredito dalla più letale delle minacce, e le sue reazioni diventano pericolosissime, per più ritorsive, sempre nel segno della proiezione, assumendo i caratteri allucinatori della legittima difesa. Attorno a un malato del genere, allora, tutto è a rischio, a cominciare da quanto, pur non appartenendogli, sia per tempo andato incontro a quel processo di assimilazione  che è una nota distintiva dei deliri di onnipotenza. In questo caso, parliamo della cosa pubblica, che in numerose occasioni Silvio Berlusconi non ha dato prova di saper più distinguere da quella privata, e che in tali situazioni diventa ciò che un pazzo del suo genere si sente autorizzato a sacrificare pur di difendersi.
Passando dalla psichiatria alla politica, siamo al punto in cui il paese ha in Silvio Berlusconi un pericolo mortale. Quando ancora non eravamo in questo punto critico, erano in molti ad augurarsi la sua morte come una delle possibili soluzioni per sbloccare il quadro politico. È davvero strano che, assai meno che prima, oggi nessuno la consideri come l’ultima rimasta. Forse siamo a tal punto irretiti dalla sua pazzia al punto da considerare anche noi sacrificabile la cosa pubblica alla sopravvivenza di uno, lui.