Un editoriale di Carlo Cardia (L’infanticidio nel deserto del nichilismo - Avvenire, 6.3.2012) mi dà occasione di dare finalmente una risposta a quanti mi hanno scritto, la scorsa settimana, per segnalarmi l’articolo di Alberto Giubilini e Francesca Minerva (After-birth abortion: why should the baby live? - Journal of Medical Ethics), che ha provocato pronte e vivaci proteste da parte di alcuni organi di stampa cattolici, giornale della Cei in testa. La tesi esposta nell’articolo, che oggi, dopo essere stato difeso dal direttore della rivista, è irreperibile sul sito della rivista (è scomparso anche l’abstract), è zoppa nella formulazione (“aborto post-natale” è contraddizione in termini) e nell’argomentazione (dirò perché): tutto, in pratica, poggia sull’assunto che il neonato non sia persona, come non lo è l’embrione, sicché le ragioni che giustificano l’aborto giustificherebbero anche l’infanticidio. Non c’è bisogno di essere volpini per capire che si tratta dello stesso argomentare di chi è contrario all’aborto, sempre, perché si tratterebbe di “infanticidio in utero” (altra contraddizione in termini).
In entrambi i casi siamo dinanzi a tizi che non riescono a scorgere nessun evento notevole nel nascere: per gli oltranzisti che sono contrari all’aborto la nascita sta già nel concepimento, per Giubilini e Minerva si nasce solo due, quattro o otto mesi dopo il parto. Superfluo dire che si tratta di due forzature inammissibili, almeno a mio parere.
Nel primo caso, infatti, l’ovocellula fecondata avrebbe già statuto di persona e dovrebbe essere considerata soggetto giuridico: voglia o no, una gravida sarebbe tenuta a portare a termine la gravidanza, anche se il frutto del concepimento è conseguenza di uno stupro, anche se la gestazione mette a rischio la sua salute fisica o psichica. Nel secondo caso, invece, il neonato non avrebbe alcun diritto: li maturerebbe tutti successivamente (i due autori dell’articolo non sono molto chiari sul quando). È evidente che in entrambi i casi si preferisca guardare un problema estremamente complesso da un lato solo.
Devo perciò deludere chi ha pensato che la tesi di Giubilini e Minerva fosse anche la mia. Per tutti, cito Giovanni Fontana, che mi ha scritto: “Credo tu sia d’accordo con l’articolo, al di là di una sostanziale rozzezza delle argomentazioni (comunque ben più sofisticate delle repliche avute dal grande pubblico), come lo sono io”. No, non sono affatto d’accordo con l’articolo. Le argomentazioni sono rozze, ma la tesi è palesemente insostenibile.
Agli altri – cito, tra tutti, Nicola Bergonzi, che mi ha fatto la cortesia di linkarmi tutto il necessario per questo post – dico che a mio parere il discrimine deve essere posto intorno all’epoca gestazionale oltre il quale il feto ha possibilità di vita autonoma (20-22 settimane). Non vorrei ripetermi: rimando alla polemica che si è consumata su queste pagine tra me e Francesco Maria Colombo, l’anno scorso.
Ma veniamo all’editoriale di Carlo Cardia, il quale pensa di poter approfittare di un articolo infelice, ancor più infelicemente argomentato, per poter mettere in discussione il diritto di una donna di interrompere una gravidanza, quando questa metta a rischio la propria salute e quando il feto non è ancora in grado di vivere fuori dall’utero.
“Credo si debba riflettere ancora sul terreno di coltura che ha favorito l’affermazione di tesi che prima neanche affioravano nel pensiero umano (se non in segmenti di estremismo votati all’irrilevanza), e sulle loro conseguenze. Il terreno di coltura è quello proprio del nichilismo, nel quale l’uomo si trova per caso a vivere e vive seguendo il caso, perdendo coscienza della propria umanità. In questo deserto non esiste verità alcuna, che ci parli e ci interroghi, da ricercarsi con fatica e gioia, diventi criterio di comportamento che avvicina gli uomini, li rende solidali, li fa crescere insieme. Esistono solo opinioni, tante quante sono le persone, tutte burocraticamente eguali, e ogni gerarchia di valore e giudizio è azzerata. L’uomo è abbandonato a se stesso, la sua possibilità di dominio è dilatata fino a comprendervi ogni cosa, a cancellare il concetto di bene e di male, scendendo nel declivio che porta al male assoluto, da consumarsi anche nel privato. Il male è spogliato della sua tragicità, esposto come merce da prendere o lasciare, teoria da accettare o rifiutare, nel silenzio della coscienza”. Cazzate. La tesi esposta nell’articolo di Giubilini e Minerva era espressamente un esercizio di logica applicato alla morale. Non aveva alcuna pretesa di normare, né avanzava proposta in tal senso. [Uso l’imperfetto perché il Journal of Medical Ethics ha ritirato l’articolo, convincendosi infine che fosse indifendibile.]
Altrettanto assurda quanto quella di negare a una donna una gravidanza libera e responsabile, la tesi di Giubilini e Minerva almeno aveva l’attenuante di non porgersi al legislatore come istanza irrinunciabile, tentazione sempre irrefrenabile per i cattolici, che, potendo, manderebbero in galera pure chi si fa le seghe.
Ovviamente è chiaro che Cardia e Avvenire abbiano il diritto di pensare ciò che vogliono e di scriverlo, ma il fatto che la rivista abbia rinunciato allo stesso diritto non dimostra affatto che l’ovocellula fecondata sia persona, ma è questo che Cardia vuol farci intendere: “Il velo teorico che appanna questi concetti fa crescere la vertigine in chi li legge nella loro realtà corporea, e fa riflettere”. Pensando di aver trovato prova provata della sua tesi nella resipiscenza del Journal of Medical Ethics, Cardia esagera e inciampa: “Si pensa alle parole di Fëdor Dostoevskij sul male che si reca ai più piccoli, come alla colpa più grave che esista al mondo”, e così sembra non aver mai letto I fratelli Karamazov, dove per la sofferenza dei piccoli innocenti Ivan chiama Dio a imputato, che trova in Alyosha un avvocato difensore in grave difficoltà. “Inizia un cammino a ritroso nella storia, e si dà corpo a ipotesi che sembrano appartenere alla fantasia corrotta del marchese De Sade”, dimenticando il Dio che stermina gli innocenti primogeniti degli egiziani per fare un favore al suo popolo eletto e che chiede ad Abramo di sacrificargli Isacco. Conviene andare a ritroso?