Sulla cosiddetta rottamazione ho letto un bel po’ di sciocchezze in questi ultimi giorni. In primo luogo, che sarebbe un termine violento, addirittura «fascistoide», comunque poco rispettoso della dignità dei cosiddetti rottamandi, perché «si rottamano le cose, non le persone», ecc. Cazzate. La politica vive di metafore violente, perché è guerra che si serve di armi non cruente, ma sempre guerra è, sicché le immagini che ne riproducono l’impiego e l’effetto non possono fare a meno del gergo militare, eventualmente di quello sportivo, perché anche l’agone atletico è sublimazione della pratica bellica. Ora, è vero, possiamo andar fieri del fatto che i conflitti tra opposti interessi, e tra le opposte fazioni che ne sono il portato, abbiano trovato modo, lungo la storia, di consumarsi senza spargimento di sangue, ma pretendere che siano svuotati della loro sostanza, perdano la tensione che è propria dei conflitti, e al punto da riuscire a fare a meno delle immagini che ne rappresentano la topica, beh, mi pare sia pretender troppo. E tuttavia l’ipocrisia s’è fatta colma quando nel lamentare la durezza del termine s’è cimentato anche chi ha sempre fatto sfoggio di ben più truce idioletto.
Un’altra corbelleria che ho visto raccogliere molto consenso in questi ultimi giorni è quella che dà corpo all’opinione che i rottamandi si dovrebbero rottamare da soli. Sarebbe questione di buon gusto, pare. A me, invece, pare una stronzata, perché anche se spogliassimo un professionista della politica di tutti i privilegi di cui solitamente gode in qualità di parlamentare o dirigente di partito o amministratore della cosa pubblica – ammesso sia possibile, voglio dire – dalla carica che riveste, dal ruolo che interpreta, dalla funzione che svolge non riusciremmo mai a strappare l’elemento di gratificazione psicologica, assai forte in alcuni individui, che è dato dal rappresentare, per meriti individuali, un’entità sovraindividuale che il professionista della politica intende, a torto o a ragione, come proiettato del suo universo. Rinunciare a questa gratificazione significa rinunciare ad una considerazione di se stessi che spesso è stata lungamente coltivata, nutrita di vittorie e sconfitte, entusiasmi e delusioni che quasi sempre finiscono per embricarsi col vissuto personale del politico professionista: tanto più difficile rinunciare a questa gratificazione, se a vantaggio di chi non si stima o addirittura di chi si disprezza, perché di là dai benefici materiali ai quali il rottamando è chiamato a rinunciare – non voglio ignorarne il peso nella resistenza alla rottamazione, e tuttavia qui sto prendendo in considerazione l’ipotesi, tutta virtuale, che sia nullo – col rottamarsi o il farsi rottamare è in gioco un ridimensionamento della propria immagine. Difficile da farsi, tanto meno di buon grado, soprattutto se in mancanza di una gratificazione che si sia venuta a prospettare come più allettante.
Relativamente a questi due primi punti, insomma, direi che è lecito da parte di Renzi la volontà di rinnovare la classe dirigente che il Pd ha ereditato dalla Dc e dal Pci. È altresì lecito, da parte sua, ma anche di chiunque altro, l’uso del termine rottamare. Per il poco che conta, a me non piace: penso abbia l’innaturalità di certi tic retorici del gergo aziendale, sicché a «rottamare» finisco per preferire un assai più ruvido «far fuori».
Un’altra cazzata che ha tenuto banco in questi ultimi giorni, poi, è che la volontà di rottamare l’attuale classe dirigente del Pd abbia trovato un efficace strumento nella petulanza di Renzi, come se insistere nel chiedere a qualcuno di andare a casa – abbiamo visto rinunciando a cosa – basti ad ottenerlo. Fosse così, parte del merito del passo indietro fatto da Veltroni e da D’Alema, fatta la necessaria distinzione del perché e del come sono giunti alla stessa decisione di non ricandidarsi al Parlamento, spetterebbe anche a quanti, con Renzi, hanno cominciato a chiederlo da un lustro e più. Così non è, perché anche Renzi non è che l’epifenomeno di quel noto processo osmotico che non tollera il vuoto e lo riempie di qualsiasi cosa, non importa quanto rarefatta o densa: la forza che spinge Renzi non gli è dietro ma davanti, Renzi non avanza per pulsione ma per trazione, non si fa largo ma lo trova.
In altri termini, Renzi va ad occupare parte dello spazio che è lasciato libero anche a Grillo dal collasso della massa flottante sullo zoccolo duro dei consensi al Pd. Ma Renzi ormai può crescere ancora solo spostando a destra il baricentro del Pd, però causando in questo modo una inevitabile scissione del partito: così non avrà «rottamato» la «vecchia» classe dirigente del partito, ma il partito. Tenuto conto del fallimento del progetto che portò democristiani e comunisti ad inverare l’ibrida chimera di Moro e Berlinguer, non ne sarebbe che il momento catalitico, ma non sarebbe quello che ha voluto o almeno ha fin qui dichiarato di volere.
Vorrei segnalare un’ultima cazzata, prima di tentare una spiegazione del perché tutte abbiamo così facilmente acquisito credito: Renzi sarebbe un democristiano. Oppure: sarebbe un liberista. Penso siano attribuzioni più che arrischiate: Renzi è un populista, è l’altra faccia del populismo di Grillo. Prima era un tutt’uno in Berlusconi: poi il nastro di Moebius si è rotto e si è ricomposto in due facce,
l’una becera e l’altra piaciona. Grillo e Renzi insieme fanno il Berlusconi che fino a ieri incarnava un blocco sociale in fieri. L’operazione non è riuscita.
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