martedì 30 marzo 2010

Diventa necessario un altro sforzo di ragione / Intermezzo

Non pensavo di ricevere tante email per una serie di post che ho buttato giù di getto, come parlottando tra me e me, giusto mettere un po’ di ordine, per non cedere allo stordimento. Quando dicevo: “Diventa necessario un altro sforzo di ragione”, esortavo solo me stesso, e questo ho dovuto premetterlo a chiunque ho già dato risposta.
È che scrivo su questa piattaforma solo da pochi giorni, scrivo un po’ più liberamente che di là, perché mi sento assai meno letto, e non è neanche male, ma questo mi fa mettere meno cura nel minimo della dovuta intelligibilità (e forse leggibilità). Ne chiedo scusa anche qui, dove cercherò di essere breve e chiaro – cercherò, dico – nell’affrontare le due o tre questioni che avrei lasciato fuori da questo ruminare a urne scrutinate, per dare una risposta a chi mi ha fatto notare che non le ho neanche sfiorate: Di Pietro, Grillo e l’Udc.

È che, senza sottovalutare il peso elettorale di queste formazioni, le ritengo irrilevanti nel processo del superamento di ciò che ho chiamato “gentismo”, anzi, possono solo farvi ostacolo. Più di un’analisi post elettorale – ancora presto per tutti, ci vorranno due o tre settimane – volevo solo ipotizzare un cambiamento di metodo che possa superare ogni analisi che fondi su un’antinomia berlusconismo-antiberlusconismo, senza finire in terzismo.
È che Di Pietro e Grillo mirano a essere riconosciuti come probi viri del centrosinistra: non possono pretendere di più (privi di un progetto culturale e politico che non si esaurisca nelle premesse della predetta antinomia: superata quella, superati loro), ma nemmeno possono mirare a meno (pena il dichiarare estinta la loro ragione sociale): zavorre, di natura “gentista”, i fuochi del concavo cui aderiscono i convessi del leghismo e del tremontismo.
Un Pd che pure voglia farsi alternativo al “gentismo” berlusconiano non può liberarsene troppo in fretta, ma di pari passo al liberarsi di quello.

Sull’Udc non ho niente da dire: s’è messo fuori da ogni gioco, neppure il Vaticano lo può aiutare.



[continua]

La gabbia delle iene

Christian Rocca non ha aperto bocca per tutta la durata della campagna elettorale, perché era troppo preso dal suo passatempo preferito (la conta dei morti fatti dai missili di Obama), sicché solo adesso trova tempo per buttare giù due righe: “C’è una cosa buona, in questo risultato elettorale devastante per il centrosinistra, ci siamo liberati dei radicali e del mito di Emma Bonino…”. In trasparenza quel suo sorriso obliquo e viscido che, almeno nella gabbia delle iene, da accessorio trendy è diventato un must.

Diventa necessario un altro sforzo di ragione / 3


Il “gentismo” continua a produrre “miracoli”, dunque. Prendiamo l’ultimo, la vittoria a queste elezioni regionali, e cerchiamo guardarlo senza la meraviglia che lo rende tale agli occhi di chi disperava potesse accadere e agli occhi di chi sperava non potesse accadere. Cominciamo col considerare la meraviglia, che abbiamo scartato come artefatto dell’improbabilità di un possibile: la meraviglia si rivela come la sorpresa di un conto fatto male.
È un conto fatto male sulla base di calcoli che ora si rivelano errati, ma, guardando bene, l’errore era comune a chi disperava potesse accadere (desiderandolo), come a chi sperava non potesse accadere (temendolo): è da qui – credo – che si comincia a non farsi più concavi di quel convesso, a non rincorrere l’avversario nel suo campo, a non pensare che l’alternativa stia un “gentismo” alternativo al suo. L’alternativa all’avversario è posta negli strumenti che sappiano rivelare l’ineluttabilità del fallimento che è in ogni populismo: saremo immunizzati dal berlusconismo da anche dai populismi di certa becera sinistra.
Se dunque si dovrà ancora, in futuro, far cenno ancora al fascismo come metafora del berlusconismo, per esempio, avvenga solo per indicare il fallimento storico del fascismo e dei costi che tale fallimento ha preteso (non esclusi quelli pagati per ciò che del fascismo restava dopo la chiusura della sua esperienza): mai più paragoni tra Berlusconi e il Mussolini di Piazza Venezia, anche laddove il paragone sia artatamente posto per essere evocato; mai più paragoni tra Berlusconi e il Mussolini di Piazzale Loreto, anche laddove l’evocazione sia artatamente posta per sollevare un paragone, e usarlo come leva del vittimismo aggressivo che è connotato di ogni populismo autoritario.
Se il paradigma del populismo dovrà essere ancora sollevato, sia fatto nei modi che rendano prioritaria una urgenza di pietas che quanto resta di una “nazione” sente per la sua “gente”.

Non sto proponendo in altra forma l’abusato esercizio dell’odioso (“antipatico”, direbbe Ricolfi) primato morale della sinistra, tutt’altro, e a scanso di equivoci tratteggio un prospetto.
Tu voti il centrodestra perché risponde a certe tue esigenze (non già “perché tu credi erroneamente che risponda, ecc.”): bene, vediamo quali sono, vediamo in quale misura siano poste da ciò che sei o da ciò che si inscrive nella dinamica del fallimento di una “nazione”, come bisogno indotto.
Io voto il centrosinistra perché forse erroneamente credo che possa rispondere a certe mie esigenze che tu adesso proverai a dimostrarmi indotte. Vediamo da cosa muovono, secondo te, questi bisogni; vediamo se possiamo liberarli da quella esaltata celebrazione del senso comune che ci appiattisce tra concavo e convesso (in altri termini: cominciamo col liberare il populismo dal “gentismo”); poi, vediamo quanto c’è di conformismo e di buonsenso in questo senso comune che ci dovrebbe essere giocoforza così poco comune; ancora, vediamo quanto autocompiacimento c’è nella presunta ineluttabilità del fallimento che dovrebbe valere la difesa di un presunto carattere identitario (di appartenenza a una fazione, la tua, la mia).
Nel fare questo – strada lunga, occorre muoversi da subito, perché tre anni sono un soffio – avremo fatto insieme – ripeto: insieme – e a ritroso – la via a ritroso dal “gentismo” all’autocoscienza di “nazione”.

Il berlusconismo sarà ancora lì, naturalmente, ma avremo individuato quanto ce n’è in chi pure si dichiara nemico giurato di Berlusconi, e gli è indispensabile e inconsapevole complice. Il suo genio (che a questo punto – se sono riuscito a spiegarmi un poco – sarà superfluo definire criminale) si rivelerà chimera proiettata su una platea di clientes, e a tanti che finora l’hanno assunta a bisogno apparirà finalmente per ciò che è. Avremo delineato le aree refrattarie e quelle entro le quali c’è ancora spazio per un confronto (sia pure in termini di contrapposione politica).
Non è escluso che qualcuno a quel punto,  invece di una miniatura del Duomo di Milano, gli scagli finalmente addosso un “dentro sei il povero che mi fa paura di essere, dentro sei il cafone che talvolta ho il sospetto di essere”: l’odio avrà lisi in pietas e l’invidia che c’è nei suoi confronti (ma, contrariamente a ciò che gli piace ripetere, innanzitutto da parte di chi se lo pone a modello) non potrà più tradursi in consenso. O almeno non si tratterà più di un consenso che sia domanda drammaticamente emotiva ad una offerta drammaticamente emotiva.

[continua]

Diventa necessario un altro sforzo di ragione / 2


Dinanzi a una sconfitta tanto grave occorre innanzitutto evitare di cedere alla tentazione di lasciarsi andare alla rassegnazione o alla rabbia, perché entrambe fiaccano la ragione che qui è chiamata – dicevamo – a uno sforzo titanico.
Nessuna arrendevolezza: ogni sorte può essere ribaltata. Nessuna stizza: è normale che il vincitore esulti, è cosa abbastanza comune che maramaldeggi, è del tutto naturale che questo faccia male a chi ha perso. Ma bisogna iniziare proprio da questo: resistere al piangersi addosso, resistere al vomitare bile. Anzi, è necessario cominciare proprio dal decostruire rassegnazione e rabbia, individuando in esse ciò che le fa irresistibili come tentazione alla fuga dalla realtà, lasciando il campo al libero dilagare del vincitore.
Per far questo bisogna essere spietati con se stessi, imporsi la necessaria sofferenza di un rapido ritorno alla realtà, possibilmente leggeri di ogni zavorra di vittimismo e risentimento. Per farlo non c’è niente di meglio che guardare la propria sconfitta dal suo rovescio, e cioè dal giudizio (implicito o esplicito) che ne dà chi ha vinto. Per far questo bisogna mettere da parte l’istinto.
Prenderò in considerazione solo il Lazio, dove la sconfitta del centrosinistra ha una valenza che si carica di emblematico per le ragioni cui ho accennato nel post precedente, e mi intratterrò solo sui giudizi relativi alla vittoria di Renata Polverini espressi a caldo da chi a vario titolo desiderava che vincesse, con un carotaggio che dalla superficie (gli estemporanei festeggiamenti in Piazza del Popolo) scende lungo gli strati del blocco sociale che la sosteneva.

In Piazza del Popolo si esulta e si parla della vittoria come di un “miracolo”. Il centrodestra non era affatto certo di vincere, solo la Polverini dice di averne sempre avuto la certezza, e rivela che Alemanno disperasse, non diversamente da molti dei suoi più stretti collaboratori. Tutti nel centrodestra laziale disperavano, e proprio per ciò che invece lasciava sperare il centrosinistra: la mancata presentazione della lista del Pdl, l’autorevolezza della sfidante, la percentuale di astenuti, la largamente dimostrata inconsistenza di un voto cattolico univocamente indirizzato, una riconquistata voglia di vincere del centrosinistra. Erano tutti elementi insufficienti a vincere, evidentemente, sicché alla Polverini può scappare una frase notevole: “Nessuno osi più sfidare la gente”.
La “gente”, qui, diventa parte per il tutto: è il centrodestra che se ne sente (e dunque se ne proclama) unico rappresentante, il centrosinistra rappresenterebbe individui, persone, un pezzo della società, ma non la “gente”.
Qui devo rammentare che circa un anno fa ho proposto il termine di “gentismo” per questa particolare forma di populismo che nutre i suoi clientes di una mistificazione ulteriore rispetto a quelle che i populismi offrono alle masse che si prefiggono di sedurre: l’essere in comunione con quella “gente” che ha pieno diritto di dirsi “gente”, contro chi ne usurperebbe il titolo.
Il “gentismo” è populismo + esaltazione del senso comune (dove il senso comune è da intendere come conformismo + buonsenso, e dove il conformismo è fissità di una somma di caratteri identitari + autocompiacimento).
Il blocco sociale che ha da tempo scelto questo centrodestra come sua espressione affonda le sue radici in questo particolare sentimento identitario che è la traduzione di un autocompiacimento che trova sempre modo di spiegare e giustificare chi offre occasioni di orgoglio a chi altrimenti non ne avrebbe. Gli italiani del 2010 hanno bisogno di ragioni autoassolutorie, lenitive, consolatorie, per quanto false e illusorie siano: vogliono un leader che strizzi l’occhio con fare complice, fornendo loro buone ragioni per non disprezzarsi troppo, anzi, di spiegarsi e giustificarsi (se non allo specchio, davanti alle pagine di una storia tutta ancora da scrivere: vogliono illudersi di poterci mettere mano per poter lasciare una parolina buona sui loro vizi).

Oltre il primo strato del campione estratto da un terreno così antropologicamente dissestato, c’è quello che è ben sintetizzato in un breve e derisorio post di Christian Rocca: “Lasciate stare le giustificazioni ridicole, ha vinto Berlusconi”. Dove tutto diventa ridicolo di fronte alla vittoria: chi vince – dicevamo – non ha sempre ragione?
Ancor più nel profondo, quanto è in bella sintesi in un commento lasciato in un post qui sotto da un affezionato lettore di vecchia data, una roba a metà tra un ciellino e un doroteo: “Come godo! Quasi quanto il 13 giugno 2005”. Dove il maramaldeggiare è un evidente scarico della tensione accumulata in attesa del “miracolo”.
Ma su questi due strati del “gentismo” berlusconiamo sarà il caso di parlare a parte: insieme caratterizzano un aspetto rilevante del “miracolo” che porta alla vittoria la “gente”.



[continua]

Diventa necessario un altro sforzo di ragione


Il centrosinistra perde la Calabria, la Campania, il Lazio e forse il Piemonte [1]. Le guadagna il centrodestra, nel quale la Lega acquista una forza mai avuta. Visto che queste elezioni regionali sono state caricate di una straordinaria valenza politica da entrambi gli schieramenti, possiamo dire – dobbiamo dire – che il governo Berlusconi ne esce rafforzato nei confronti dei suoi oppositori, anche se caricandosi di un incalcolabile potenziale di instabilità interna, che però non è destinato a dare effetti a breve [2]. Di più: visto che la politica è diventata mera liturgia che celebra l’incarnazione di un leader nella sua gente (dove l’aggettivo possessivo indica proprio possesso), possiamo dire – dobbiamo dire – che ha vinto Berlusconi.
È una vittoria di numeri e di simboli, tanto più convessa se si guarda al concavo di chi ha perso. Il centrosinistra aveva nutrito speranze che ora è facile definire esagerate [3], ma che, se rivelatesi velleitarie al giudizio degli elettori, almeno delineavano due o tre progetti di alternativa. Solo quello frontista in Puglia s’è dimostrato vincente, ma per peculiarità che lo rendono improponibile come modello nazionale. Bocciato il progetto Bonino, quello di una federazione delle forze laiche, socialiste e cristiano-sociali, con spruzzatina di azionismo. Bocciata pure la soluzione dell’alleanza variabile Udc/Idv.
All’Italia – alla maggioranza degli italiani – non pare esserci miglior proposta che quella di Berlusconi: un populismo autoritario, dai tratti fortemente (e sempre più) demagogici e paternalistici, che da queste elezioni esce di fatto autorizzato a sentirsi legittimato. Mi pare non sia esagerato dire che queste elezioni legittimino Berlusconi a portare avanti il suo disegno, qualunque sia, anche se è già abbastanza chiaro, e se potrà subire modifiche in corso d’opera solo per suo capriccio o per eventi oggi imprevedibili: per ciò che attiene al consenso, salvo a dover dar conto a Bossi [4], Berlusconi è da stasera – di fatto – padrone del paese. Più di prima, intendo dire. Molto più di prima [5].

Sia dato lo stretto necessario allo scoramento [6]: diventa necessario un altro sforzo di ragione – titanico quasi – a chi ritiene tutto ciò sciagura da evitare.


[continua]





[1] Inizio a scrivere alle 23.50, quando tra Cota e Bresso c’è poco più di un punto percentuale di distacco, ma ancora mancano oltre 500 sezioni, quasi tutte della provincia di Torino, dove il centrosinistra è forte: la Bresso potrebbe ancora farcela.
[2] L’esperienza insegna che quando la Lega ottiene un vantaggio – in questo caso la presidenza del Veneto e un formidabile incremento di consensi, in assoluto e rispetto al suo alleato – per un po’ se ne sta buona: alza il prezzo, ma paga pure grosse garanzie. Fratture tra Pdl e Lega non sono a vista, ma la molla è molto carica. Zaia non sarà l’innesco: le sue prime dichiarazioni dopo la vittoria fanno capire che è sennatamente disposto a lasciare il dicastero che ha fin qui guidato, sono riusciti a convincerlo. L’impressione è che il ministero rimarrà alla Lega, e forse questo s’è ottenuto proprio grazie a Zaia che ha tenuto il punto a lungo sull’eventuale cumulo di cariche: un bluff giocato benissimo.
[3] Chi perde ha sempre torto, non si dice così?
[4] Ma è uomo che sa baciare la mano a chi può fargli un favore, Gheddafi o Ratzinger che sia, che difficoltà avrebbe nel baciarla anche a Bossi?
[5] Un’occhiata al sito del Viminale, dove anche per Bresso vanno sfumando le residue speranze, consente di dire: molto, ma molto di più.
[6] Limiterò il mio all'intervallo tra questo post e il suo seguito.

lunedì 29 marzo 2010

22.50


La Bonino dovrebbe aver perso, la Bresso non è detto. Il centrosinistra perde in ogni caso la Calabria e la Campania.

Il libero pensiero della Chiesa e il complotto pluto-massonico ai suoi danni


Anche Renato Schifani pensa che ci sia un complotto contro la Chiesa cattolica e si dice convinto che, dietro l’ondata di scandali che sempre più la rivelano habitat ottimale per pedofili, ci sarebbe un disegno: “Vogliono minacciare il libero pensiero della Chiesa”. Come se il pensiero della Chiesa stesse sulla punta del pisello di ogni suo prete.

Più circostanziato, invece, Maurizio Ronconi (Udc): “Non è da oggi che circoli nordeuropei ed anglosassoni cercano di indebolire i cattolici e la loro guida. L’azione iniziò nel Parlamento europeo quando si negarono le radici cristiane dell’Europa e si impedì al cattolico Buttiglione di fare il Commissario europeo con una evidente azione da parte di circoli pluto-massonici. Questi attacchi sono indirizzati ad indebolire i Paesi a prevalenza cattolica in una ottica prevalentemente finanziaria ed affaristica. Difendere la Chiesa e il papa da oggi significa anche difendere anche il nostro Paese”. Le sorti patrie sono appese ai piselli dei preti.

Il cosiddetto “odio anticristiano”


Preziosa memoria del novantacinquenne Ersilio Tonini, cardinale, in un’intervista concessa a Marina Corradi: “L’odio contro la Chiesa c’è sempre stato. Ne ho ben memoria io, che sono stato bambino in Romagna negli anni Venti. Mi ricordo quando cominciavo a servire messa e nei campi un vecchio bracciante mi disse in dialetto: «Ragazzo, ma non vorrai mica andare prete? Guarda che son tutte bugie quelle dei preti, quelli badano solo a mantenere la loro bottega». L’odio anticristiano c’è sempre stato” (Avvenire, 28.3.2010).

Povero bracciante, la sua bonaria dissuasione è rubricata alla voce “odio anticristiano”. E senza neanche aver lasciato cicatrici da forcone al chierichetto.

Ancora un piccolo sforzo, Jimmomo!


Devo segnalare un post di Jimmomo largheggiando in virgolettato, perché è davvero un post importante, di quelli che secondo me promuovono un blogger a opinionista d’area, vedremo quale.

Jimmomo parla di astensione e dice che “non è difficile intuire chi colpirà: il centrodestra”. “È ovvio – aggiunge – che un astensionismo di tali proporzioni è più di un campanello d’allarme per il governo e le forze di maggioranza che lo sostengono, verso cui l’elettorato mostra disaffezione e disillusione”. Le cause? “Il caos liste, quindi la battaglia a colpi di ricorsi, carte bollate, decreti e piazze piene, la solita giostra di intercettazioni e le solite inchieste ad orologeria, che tra qualche settimana si riveleranno infondate, le pretestuose polemiche sui talk show Rai, hanno occupato i tre quarti della campagna elettorale, avvelenato il clima e quindi dissolto ogni interesse, già scarso, degli elettori per la competizione elettorale e per candidati già deboli di per sé”.
Tutto vero, ma non siamo ancora alle cause prime. Chi ha generato il “caos liste”? Chi s’è speso maggiormente nella “battaglia a colpi di ricorsi”? Chi è ricorso a “decreti e piazze piene”? Chi s’è messo al telefono per chiudere la bocca ad ogni voce critica? Chi ha scelto quei “candidati già deboli di per sé”? Vuoi vedere – uno si chiede mentre legge – che adesso, da analista serio e onesto, Jimmomo arriva a dire che tutto questo firma un fallimento politico di Berlusconi e del Pdl?
Macché, Jimmomo arriva a questo: “È in corso un pericoloso e spregiudicato gioco al massacro, che approfittando della debolezza della politica, avvalendosi di ordini dello Stato fuori controllo e poteri esterni non democratici, e dando sfogo a pulsioni populiste, mette a rischio la democrazia stessa nel nostro Paese. Prima di oggi Berlusconi, con il grande consenso di cui godeva, era l’unico argine. Ma domani?”.

Delineato il profilo di opinionista, configurata l’area di riferimento, come negare che si tratti di un ottimo livello? Altro che il Velino – vien da dire – Jimmomo ha levatura da editorialista de il Giornale.
Ma c’è un motivo se Vittorio Feltri lo lascia in mano a Daniele Capezzone: Jimmomo non ha ancora troppo pelo sullo stomaco. Infatti scrive: “Sarà ancora più difficile per il governo reagire nel solo modo in cui dovrebbe – e avrebbe dovuto – potuto reagire anche prima: riforme, riforme, riforme”. Con uno stomaco appena un po’ più peloso, Jimmomo avrebbe messo il pilota automatico elencando gli strabilianti meriti del governo.
È per questo – solo per questo – che per il Giornale è ancora presto.

ASTENSIONE = CAZZI AMARI


Il sito web di Avvenire mostra un particolare interesse – meglio dire: un interesse particolare – alla percentuale di astensione al voto in questa tornata elettorale: “Il voto più atteso è quello del Lazio, dove si è registrato alle 22 il più consistente calo di affluenza, meno 12%, dove il centrodestra candida Renata Polverini e il centrosinistra Emma Bonino”.
In quell’“atteso” c’è un’ansia che il giornale dei vescovi non può permettersi di scaricare in un bel fervorino sull’astensione come grave disimpegno civico: non è passato troppo tempo dall’invito ad astenersi al referendum sulla legge 40, e le pecore son tonte, ma fino a un certo punto. “Il voto più atteso è quello del Lazio”, mandano a dire i vescovi, e chi ha orecchie per intendere intenda (Mc 4, 9).
Anch’essi, poveracci, come dei comunissimi cicchitti, sono preda di quella sgradevole tensione tutta secolare che si esprime nella formula algebrica A = CA.

Lo dicevo, io


I miei sospetti erano fondati: Tommaso Debenedetti s’è inventato pure l’intervista a John Grisham (Il Giorno, 21.1.2010), oltre quella a Philip Roth (Libero, 22.11.2009).

La scena ha qualcosa di nobile che la riscatta: Gheddafi si strofina subito il dorso della mano




Fino a quando mentiranno, io continuerò a segnalarlo


Ho cercato di dimostrare (qui) che dentro il Codice di diritto canonico ci sono le prove della complicità omertosa che la Chiesa cattolica offre ai suoi preti: ho cercato di dimostrare che, se “nulla nel diritto canonico proibisce o impedisce di riferire i reati [commessi da preti] alla polizia” (come afferma monsignor Vincent Nichols), un bel mucchio di canoni – di fatto – lo dichiara sconsigliabile, perché tra il superfluo e l’inopportuno.
Solo ora leggo un’obiezione a questo mio argomento, che però è cronologicamente antecedente (un editoriale di Giuseppe Della Torre sul numero di Avvenire che era già in edicola mentre scrivevo). E qui mi si obietta: “È almeno dal XIX secolo che gli Stati hanno rivendicato a sé la competenza a giudicare dei reati commessi da chierici. Non c’è più da tempo quello che una volta si chiamava il «privilegio del foro»: oggi è il giudice statale competente a giudicare penalmente, a norma della legge penale statale, e a condannare se c’è il reato, chiunque commetta il crimine di abusi sessuali nei confronti dei minori, anche se sacerdote o religioso. La Chiesa riconosce serenamente questa competenza”.

Si tratta di un’obiezione capziosa. Il «privilegio del foro» persiste nell’imposizione del segreto pontificio su ciò che è stato accertato riguardo ai crimini commessi da un prete: nell’imposizione del segreto pontificio su ogni elemento accertato nel foro ecclesiastico, e quindi pure nelle indagini che sono prerogativa dell’ordinario della diocesi in fase istruttoria, c’è l’effettivo (effettuale) persistere del «privilegio del foro», che di fatto consiste nella sottrazione di elementi di prova della colpevolezza del reo all’autorità civile, sia pure in forma dilatoria o attenuativa.
Ciò che aggiunge Giuseppe Della Torre, dunque, si presta all’autofagia: “Se c’è un aspetto che lascia perplessi delle recenti polemiche, sul quale non si è rivolta l’attenzione, è che a fronte dei casi proposti e riproposti, molti dei quali risalenti a decenni addietro, pochissimi sono quelli giunti al giudizio dell’autorità giudiziaria civile. È da domandarsi se del contestato «silenzio» si debba fare carico solo alla istituzione ecclesiastica”. Il fatto che i casi giunti al giudizio dell’autorità giudiziaria civile siano (stati fino a qualche tempo fa) “pochissimi”, infatti, è la prova dell’efficacia di ciò che nel Codice di diritto canonico è posto a protezione del reo: (fino a qualche tempo fa) l’imposizione del segreto ha maturato effetto. Ora non più: i casi che erano “pochissimi” ora sono calcolabili in percentuali da far drizzare i capelli in testa ai laici e i peli in culo ai chierici.
Che è successo? È soltanto venuto meno – in più di un punto – il primato dell’obbedienza al papa rispetto all’obbedienza alla propria coscienza. Come dire, la Chiesa si è secolarizzata.

A segnalarmi l’editoriale di Giuseppe Della Torre è stato un lettore che gli metteva a margine: “Anche lui, come il tuo Nichols, dice che nel Codice di diritto canonico «non c’è alcun divieto di denuncia all’autorità civile». Dice che bisogna «comprendere che le pene canoniche hanno eminentemente una finalità medicinale». Che gli rispondiamo?”.
Gli rispondiamo che senza dubbio sarà medicinale per il criminale, non per la sua vittima. Anzi, la medicina che giova al criminale nuoce sempre, e ulteriormente, alla sua vittima. Il Codice di diritto canonico – gli diciamo – è una vergogna, è un vero schifo.

[...]


“Non mi riconosco molto nei pareri espressi o nelle interpretazioni, ma questo è di irrilevante importanza”

Mina (La Stampa, 26.3.2010)

domenica 28 marzo 2010

“Le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”



ad A. B.

1. Intendo dimostrare che c’è una grande disonestà nel dire che “nulla nel diritto canonico proibisce o impedisce di riferire i reati [commessi da preti] alla polizia”, affermazione che monsignor Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, fa in un articolo apparso su The Times (26.3.2010), sul sito web della sua diocesi (26.3.2010) e su L’Osservatore Romano (28.3.2010). La disonestà sta nel fatto che questa proibizione non è esplicita nel Codice di diritto canonico, ma è posta di fatto dal combinato disposto di molti obblighi procedurali.
Il post sarà giocoforza lungo e di lettura non agevole, come sempre quando di mezzo ci sono testi legislativi, sicché vorrei iniziare in modo leggero, segnalando le differenze fra le tre versioni dell’incipit.
Su The Times si legge: “The child abuse committed within the Roman Catholic Church and its concealment is deeply shocking and totally unacceptable. I am ashamed of what happened, and understand the outrage and anger it has provoked”; su rcdow.org.uk, invece: “The child abuse committed within the Catholic Church and its concealment is deeply shocking and totally unacceptable. I am ashamed of what has happened” (salta la comprensione per l’oltraggio e per la rabbia); su L’Osservatore Romano: “Gli abusi su minori commessi nella Chiesa cattolica e i loro occultamenti colpiscono profondamente e sono del tutto inaccettabili” (salta pure la vergogna di Sua Eccellenza).
Quale buona fede può esservi nell’argomento di monsignor Nichols, se introdotto con tali differenze secondo chi lo debba soppesare? E tuttavia diamo per scontato che Sua Eccellenza sia in buona fede quando afferma che “nulla nel diritto canonico proibisce o impedisce di riferire i reati [commessi da preti] alla polizia”; diamo per scontato che sia vero – come aggiunge – che “dal 2001 la Santa Sede, attraverso la Congregazione per la Dottrina della Fede, [abbia] incoraggiato questo tipo di azione nelle diocesi che hanno ricevuto le prove di reati di abuso su bambini”; e consideriamo che questo sia accaduto “poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore […] doveva essere riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici” (Joseph Ratzinger, De delictis gravioribus, 18.5.2001). Ma i nuovi codici canonici incoraggiano a denunciare il prete presso la giustizia civile? E allora perché – ancora nel 2001 (e il nuovo Codice di diritto canonico è del 1984) – Ratzinger continua a raccomandare che “le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”?

2. Il post sarà giocoforza lungo, dicevo, e di lettura non agevole.
Dobbiamo cominciare col dire che la Chiesa dichiara di avere “il diritto nativo e proprio di costringere con sanzioni penali i fedeli che [abbiano] commesso delitti” (Can. 1311), le quali si dividono in censure (sospensione, interdizione e scomunica) ed espiazioni (proibizione o ingiunzione di dimorare in un determinato luogo, privazioni di potestà, ufficio, incarico, privilegio, facoltà, grazia, titolo, ecc., e dimissione dallo stato clericale). Il fatto è che il Codice di diritto canonico prescrive che “per una trasgressione occulta non s’imponga mai una penitenza pubblica” (Can. 1340). Inoltre, “la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene [deve essere avviata dall’Ordinario] solo quando [questi] abbia constatato che né con l’ammonizione fraterna né con la riprensione né per altre vie dettate dalla sollecitudine pastorale è possibile ottenere sufficientemente la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia, l’emendamento del reo” (Can. 1341).
A un prete che abbia commesso abusi su minori, già qui, sono offerte due ottime occasioni per non essere denunciato alla giustizia civile. Ma quando pure il reato fosse stato giudicato tale dinanzi a un tribunale ecclesiastico, e punito con censura o espiazione, “le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”, così scrive Ratzinger ancora nel 2001, perché “a coloro che sono chiamati al servizio del popolo di Dio vengono confidate alcune cose da custodire sotto segreto, e cioè quelle che, se rivelate o se rivelate in tempo o modo inopportuno, nuocciono all’edificazione della Chiesa o sovvertono il bene pubblico oppure infine offendono i diritti inviolabili di privati e di comunità” e “tutto questo obbliga sempre la coscienza” (Segreteria di Stato, 4.2.1974).
La violazione del segreto pontificio – ricordiamolo – è sanzionato in modo severo, fino alla scomunica. Questo incoraggerebbe a denunciare un prete? Non il contrario, al contrario?

3. Ma poi, che ha da aspettarsi un prete che abbia commesso abusi su minori, se scansa la giustizia civile? Cominciamo col dire che “l’autore della violazione non è esentato dalla pena stabilita dalla legge o dal precetto, ma la pena deve essere mitigata o sostituita con una penitenza, se il delitto fu commesso […] per grave impeto passionale” (Can. 1324), e chi vorrà negare che due chiappette morbide possano far perdere la testa ad un prete pedofilo?
Idem per lo stesso giudice del tribunale ecclesiastico, che può “differire l’inflizione della pena a tempo più opportuno, se da una punizione troppo affrettata si prevede che insorgeranno mali maggiori”, “astenersi dall’infliggere la pena, o infliggere una pena più mite o fare uso di una penitenza, se il reo si sia emendato ed abbia riparato lo scandalo, oppure se lo stesso sia stato sufficientemente punito dall’autorità civile o si preveda che sarà punito”, “sospendere l’obbligo di osservare una pena espiatoria al reo che abbia commesso delitto per la prima volta dopo aver vissuto onorevolmente e qualora non urga la necessità di riparare lo scandalo, a condizione tuttavia che, se il reo entro il tempo determinato dal giudice stesso commetta nuovamente un delitto, sconti la pena dovuta per entrambi i delitti, salvo che frattanto non sia decorso il tempo per la prescrizione dell’azione penale relativa al primo delitto” (Can. 1324).
In più, “ogniqualvolta il delinquente o aveva l’uso di ragione in maniera soltanto imperfetta o commise il delitto […] per impeto passionale […], il giudice può anche astenersi dall’infliggere qualunque punizione, se ritiene si possa meglio provvedere in altro modo al suo emendamento” (Can. 1345).
Stanti questi limiti posti alla stessa applicazione di una efficace sanzione ecclesiastica, come e quando ci sarebbe incoraggiamento alla denuncia presso la giustizia civile?

4. Il prete che abbia commesso abusi su minori “sia punito con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale”, ma solo se “il caso lo comporti” (Can. 1395). Non si ha notizia, però, di preti dimessi prima che i loro reati fossero giudicati da un tribunale laico.
Per il resto, “i giudici e gli aiutanti del tribunale [ecclesiastico] sono tenuti a mantenere il segreto d’ufficio, nel giudizio penale sempre, nel contenzioso poi se dalla rivelazione di qualche atto processuale possa derivare pregiudizio alle parti. […] Anzi ogniqualvolta la causa o le prove siano di tal natura che dalla divulgazione degli atti o delle prove sia messa in pericolo la fama altrui, o si dia occasione a dissidi, o sorga scandalo o altri simili inconvenienti, il giudice può vincolare con il giuramento di mantenere il segreto i testi, i periti, le parti e i loro avvocati o procuratori” (Can. 1455). Di fatto questo consiste in un incoraggiamento alla denuncia del prete che abbia abusato di bambini o, invece, in una pressante consegna all’omertà?
E che dire del Can. 1550? Recita: “Non siano ammessi a fare da testimone i minori al di sotto dei quattordici anni”. Si rende facile o difficile la carriera del prete pedofilo quando le sue vittime non possano testimoniare su abusi commessi su loro coetanei?
“Gravi errori sono stati commessi in seno alla Chiesa cattolica”, dice monsignor Nichols, ma essi sono consentiti, addirittura favoriti, dal Codice di diritto canonico. “In tutto il mondo – dice – esiste all’interno della Chiesa cattolica un ordinamento giuridico che è il Codice di diritto canonico. È dovere di ogni vescovo diocesano amministrarlo. Alcuni reati gravi che violano questo ordinamento devono essere riferiti alla Santa Sede per garantire che venga amministrata una giustizia appropriata. Ciò è stato nuovamente ribadito nel 2001”. Ebbene, i vescovi che hanno coperto i preti pedofili operanti nelle loro diocesi non hanno mai tradito le consegne di questo Codice: è lì dentro che c’è abbastanza per spiegare tutto.

"Meglio un capitombolo che non provarci mai"


L'ateismo come "frutto di processi nevrotici"


“Se nella originaria visione psicoanalitica freudiana classica ogni conflitto morale risulta, in ultima analisi, di origine nevrotica, ed ogni credenza religiosa di tipo metafisico tout court illusoria se non delirante, tutta la critica successiva, a partire da Jung ne ha evidenziato l’eccessivo riduzionismo semplificatorio, mettendo in luce il possibile connubio tra sviluppo di una struttura psichica matura e adesione religiosa, fino a chi è arrivato ad individuare, al contrario, il comportamento ateistico stesso come frutto di processi nevrotici”.
Antonio Fasol (zenit.org, 27.3.2010) costruisce la graziosa suggestione di una singolare evoluzione della psicoanalisi: dal considerare la fede una psicopatologia si sarebbe passati a considerarla compatibile con un passabile equilibrio psichico fino a considerare patologico il non aver fede.
È presto rivelato dalla nota che rimanda a pie’ di pagina che questa suggestione può reggere solo dando a tal Leonardo Ancona lo stesso peso che si voglia dare a Freud e a Jung, qualunque sia. Al momento – certo ingiustamente – questo Ancona è un semisconosciuto, e lo stesso Fasol lo cita da fonte indiretta, dal volume di un tal Mario Aletti, ingiustamente semisconosciuto pure lui. Il Fasol, d’altra parte, chi cazzo è?

In altri termini: volendo tenerci aggiornati sull’evoluzione della psicoanalisi dopo Freud e dopo Jung, a chi stiamo porgendo orecchio?
Leonardo Ancona, professore emerito dell’Università cattolica del Sacro Cuore, è membro del Comitato medico internazionale addetto a certificare la genuinità dei miracoli di Lourdes, e il curriculum vitae ha poco altro di notevole, non si va più in là del Comitato etico della Facoltà di Medicina dell’Università cattolica.
Stesso sottobosco nel quale si incrocia Mario Aletti, che si laurea in Lettere moderne presso l’Università Cattolica di Milano, piglia il baccalaureato in Teologia presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, si specializza in psicologia della religione, con particolare attenzione alle sette, arrivando a collaborare col Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur) di Massimo Introvigne, che collabora col Gruppo di ricerca socioreligiosa (Gris), di cui il Fasol è responsabile a Verona.

Ecco dov’è finita la psicoanalisi, ecco come ripensa i meccanismi che portano alla fede: è in questo ambientino che si vanno raccogliendo prove scientifiche – o almeno costruendo la teoria – che l’ateismo sia “frutto di processi nevrotici” e, già che ci si trova, si costruiscono carriere benedette dalle gerarchie ecclesiastiche.
Come può essere finita qui, la psicoanalisi? Non ha importanza, ma è da qui che sembrerebbe indirizzata a dire sano il credente e malato l’ateo.

sabato 27 marzo 2010

Ma pigliatevi a schiaffi da soli, pennivendoli


Per il pubblico al quale si rivolge e per il suo livello di diffusione, per la linea editoriale che esprime e per il campione di opinione pubblica che rappresenta, quale giornale italiano corrisponde al tedesco Der Spiegel?
Domanda oziosa, perché in Italia nessun giornale chiederebbe mai le dimissioni di Benedetto XVI, mentre Der Spiegel lo fa: questo prova che non ci può essere alcuna corrispondenza tra un giornale italiano e un giornale tedesco. Ancor più: tra un giornalista tedesco e un suo – diciamo così – collega italiano.

venerdì 26 marzo 2010

Con quale coraggio potete affidargli i vostri figli?


La puntata di Mi manda Raitre in onda venerdì 26 marzo affronta il caso dell’Istituto Provolo di Verona. Qui, per anni, sessanta bambini sordomuti subirono abusi sessuali da parte di molti religiosi – venticinque, pare – cui erano affidati, dei quali sette sono ancora in servizio presso la struttura. In studio ci sono tre di quei bambini, ormai adulti, e di fronte a loro c’è il portavoce della diocesi, cui evidentemente è stato dato incarico di essere accomodante. Tenta, poveraccio, ma gli è stato affidato un mandato ai limiti dell’impossibile e per lo più si limita a deglutire.
Qui a un bravo blogger non resterebbe che stendere la storia dell’Istituto Provolo, la storia sempre uguale di preti criminali e vescovi compiacenti, delle solite odiose molestie, dei soliti atroci stupri, ma almeno per stavolta mi chiamo fuori, perché in quei tre sessantenni mi è sembrato di intravvedere i tre bambini, di sei, sette, dieci anni, e sono ancora paralizzato tra compassione e rabbia.
Solo una considerazione: quando sono sordomuti, i bambini eccitano in particolar modo i preti, e non c’è troppo da indagare sul perché. Ma anche una domanda: con quale coraggio potete affidargli i vostri bambini?


“Per ottenere la riparazione dello scandalo e il ristabilimento della giustizia”


Marina Corradi (Avvenire, 26.3.2010) ci offre modo di capire quanto poco valga l’argomento col quale Ratzinger e Bertone respingono le accuse mosse loro da The New York Times (almeno per quanto attiene al caso di padre Lawrence Murphy, perché su quelle relative al caso di padre Peter Hullerman non ne hanno ancora prodotto alcuno).
In apparenza, e in buona sostanza, Marina Corradi non fa altro che prodursi in una delle tante variazioni sulla nota ufficiale della Santa Sede del 24 marzo, nella quale si pretende di dimostrare una retta condotta del prefetto e del segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede pigliando il Codice di Diritto Canonico a modello di rettezza, mentre ciò che è posto in discussione – da The New York Times e non solo – è proprio ciò di omertoso e oggettivamente complice passa nell’osservanza al Codice di Diritto Canonico.
Nessuno si è azzardato a dire che Ratzinger e Bertone non siano stati ligi alla regola, ma qui è proprio la regola ad essere in discussione per aver prodotto ancora ingiustizia attraverso la sua ligia applicazione: i due sono colpevoli di quello che la loro regola chiama discrezione e che di fatto è insabbiamento.

E infatti Marina Corradi pensa di poter affermare che i due non abbiano alcuna colpa perché sul caso Murphy diedero disposizione che si procedesse a norma del Canone 1341, “per ottenere la riparazione dello scandalo e il ristabilimento della giustizia”. Il fatto è che questo virgolettato è ritagliato in modo assai furbetto dal Codice di Diritto Canonico, perché il Canone recita: “L’Ordinario provveda ad avviare la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene solo quando abbia constatato che né con l’ammonizione fraterna né con la riprensione né per altre vie dettate dalla sollecitudine pastorale è possibile ottenere sufficientemente la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia, l’emendamento del reo”.
Che significa in pratica? Significa che, nel disporre che si procedesse a norma del Canone 1341, “per ottenere la riparazione dello scandalo e il ristabilimento della giustizia”, Ratzinger e Bertone disponevano che padre Murphy fosse ammonito e ripreso, non sollevato dal suo incarico, né ridotto allo stato laicale. E infatti morì prete, segno che non fu necessario “avviare la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene”.
La regola era stata recepita, Ratzinger e Bertone le avevano dato modo di perpetuarsi: il caso era insabbiato, almeno per il momento.