giovedì 15 aprile 2010

Pre-bozze


Riformare, riformare, questa maggioranza ne ha una grande smania. Fisco, giustizia, istituzioni, gli stessi connotati dello Stato, l’Italia dovrebbe uscirne tutta riformata. Questo dovrebbe dare per scontato che questa maggioranza – o almeno chi la guida – abbia un progetto di società, un disegno che la rappresenti, e che progetto e disegno siano tanto chiari da produrre una visione, sia pure virtuale, chessò, due righe, uno schemino…
Macché, sulle riforme da fare urgentemente – Cetto Laqualunque aggiungerebbe “comunquemente” – questa maggioranza non ha uno straccio di traccia. Cioè, detto col garbo del notista politico di classe: “Sarebbe imprudente ignorare che per ora non esiste un progetto della maggioranza. Anzi, a sentire il ministro Ignazio La Russa, «siamo alle pre-bozze» della riforma” (Corriere della Sera, 15.4.2010).

Cosa siano le pre-bozze, non so. A volte, ascoltando gli uomini di questa maggioranza, avverto in loro la smania di riformare pure il dizionario. E tuttavia, a naso, pre-bozza dovrebbe significare al massimo due righe, forse pure sprovviste di schemino. E allora mi pare evidente che queste patetiche macchiette, pericolose come tutte le iperboli della miseria umana, vadano nutrendo smanie di riforme senza neanche sapere un cazzo del come. È un impietoso squarcio di luce su una classe politica di merda.
Il progetto di società di questo centrodestra non sa che esprimere pre-bozze, e siamo all’ora X, mica al ruminamento convegnistico. Al confronto, le riformucce della Prima Repubblica appaiono costruzioni titaniche, i ritocchetti allo statu quo degli anni ’60 e ’70 appaiono ardite rivoluzioni, il Piano di rinascita democratica di Gelli appare un affascinante trattato di filosofia politica.

Persi nello slip di un bambino, manco danno più una ripassatina ai vangeli


La vicenda relativa alla mensa scolastica di Adro prende una piega interessante. Finora, infatti, offriva spunto solo a una questione che in senso lato è politica, e cioè se fosse adeguatamente motivato e opportuno applicare il no meal is for free di Milton Friedman nella sospensione dei pasti ai figli di quanti in arretrato nel pagamento della retta.
Questione politica, ma anche sentimentale, e a ragione, perché anche il più selvaggio dei liberisti non può rigettare l’impegno della collettività nell’assicurare ad ogni individuo, e almeno nei servizi essenziali, una parità “in partenza”. Sentimentale, dunque, non già (e non solo) perché c’erano di mezzo dei ragazzini e la loro vulnerabilità psicologica, ma anche, e a priori, per il patente consumarsi di un abuso dei confronto di individui discriminati “in partenza”.

Ridotto l’elemento emotivo al piano della ragione, possiamo riconoscere meglio quali fossero le opinioni in campo: da un lato, il familismo, che in un figlio non sa vedere altro che il membro di una famiglia, destinato al benessere (fino al lusso) o al malessere (fino alla fame) che dipendono dai mezzi materiali che sono nella disponibilità di quella famiglia; dall’altro, molto sentimentalismo. Voglio dire: non ho sentito una sola voce liberale – se mi è sfuggita, faccio ammenda – che argomentasse contro la decisione del sindaco di Adro, in quanto liberale, e cioè contrario a porre disparità “in partenza” tra individuo e individuo. Qualche sedicente liberale ha parlato, sì, ma solo per dire che il liberismo deve saper essere anche compassionevole. Liberali dei miei coglioni.
Sempre meglio del grugnito leghista, tuttavia.

Sarà che sono distratti da guai grossi, ma stavolta i vescovi italiani non hanno rotto molto il cazzo su questa questione, che – abbiamo detto – è politica. Non c’è stata troppa ingerenza, diciamo. E sì che avrebbero legittimamente potuto urlare dai tetti che Cristo ha detto di dare da mangiare agli affamati, eccetera, quale laicista avrebbe potuto far più che arricciare il naso?
Voci sparse, anche autorevoli, ma non quel coro ben orchestrato che abbiamo udito in altre occasioni. Nemmeno in relazione alla piega interessante che ha preso la vicenda. È accaduto, infatti, che un benefattore si sia offerto di pagare la retta della mensa scolastica ai bambini cui il sindaco di Adro aveva sospeso i pasti, e questo ha scatenato le reazioni dei genitori che erano in regola coi pagamenti: “Non è giusto. Paghi la retta anche per noi”.

La disparità di trattamento era considerata motivata e opportuna, evidentemente: quando è venuta meno per il generoso intervento di un compassionevole, i paganti si sono sentiti vittime di una discriminazione, subito sentita immotivata e inopportuna. Su questo sarà meglio ch’io non mi esprima, perché risulterei sgradevole.
Ma qui, proprio a questo punto, la voce della Cei sarebbe stata necessaria fino all’indispensabile, perché la Parabola dei lavoratori della vigna (Mt 20, 1-16) parla chiaro: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”.
Sarebbe stata una grande lezione di morale cristiana agli invidiosi della bontà. E invece niente. Persi nello slip di un bambino, manco danno una ripassatina ai vangeli. Cristiani dei miei coglioni.

mercoledì 14 aprile 2010

Riassuntino semplice semplice per non perdere di vista il contesto



Perché la Santa Sede cavalca un argomento zoppo?


Sergio Romano ha illuminato assai bene, alcuni anni fa, le ragioni che hanno spinto e spingono la Santa Sede a cavalcare l’argomento zoppo di una correlazione tra omosessualità e pedofilia per sottrarsi alle accuse di correità negli abusi sessuali su minori da parte di tanti suoi preti:

“Ero negli Stati Uniti quando scoppiò nell’arcidiocesi di Boston lo scandalo dei preti pedofili. Capii che la vicenda stava indignando l’opinione pubblica e constatai che si stava mettendo in moto un ingranaggio tipicamente americano. L’episodio risvegliò in alcune vittime, ormai invecchiate, il desiderio di saldare i conti con il loro passato. Gli avvocati fiutarono l’affare e si misero a caccia di potenziali clienti. I giornalisti investigativi disseppellirono alcune vecchie vicende e andarono in giro per il paese a raccogliere testimonianze piccanti. Qualche uomo politico saltò sul treno dell’indignazione popolare. Quello che maggiormente mi colpì al ritorno in Italia fu la grande lentezza con cui la Chiesa stava reagendo alle notizie che provenivano dall’America. L’arcivescovo di Boston fu rimosso, il problema venne messo allo studio, ma sembrò evidente che la Santa Sede era imbarazzata, impacciata e si muoveva in questa vicenda con grande difficoltà. Ora sembra che stia prendendo qualche provvedimento e che uno di questi consista per l’appunto nella decisione di evitare, per quanto possibile, che l’accesso ai seminari sia consentito a coloro che hanno tendenze omosessuali. La Chiesa sa che tra omosessualità e pedofilia corre una considerevole differenza, ma pensa che gli omosessuali possano più facilmente cadere in tentazione” (Corriere della Sera, 8.12.2005).

Non vale neanche la pena di prendere in considerazione l’autorevolezza dei “molti sociologi e psichiatri” che sellano l’argomento oggi cavalcato pure dal cardinal Tarcisio Bertone: siamo ai livelli di un monsignor Tony Anatrella, psichiatra, accusato di abusi sessuali su due ragazzi, suoi pazienti. Vale la pena, piuttosto, di considerare come viene costruita la correlazione.
E qui può tornarci utile monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, che così argomentava non più di qualche mese fa:

“La maggior parte del clero cattolico che ha commesso questi atti, non è rappresentata da pedofili, bensì da omosessuali attratti da maschi adolescenti. Di tutti i preti coinvolti negli abusi dall’80 al 90% appartenevano a questo orientamento sessuale minoritario, impegnati sessualmente con ragazzi adolescenti fra gli undici e i diciassette anni. Solo l’1,5-5% del clero cattolico è stato coinvolto in storie di abusi sessuali su bambini. E siccome la chiesa cattolica è stata impegnata a ripulire la propria casa [qui Sua Eccellenza si riferisce alla caccia al ricchione che Benedetto XVI ha ordinato nei seminari], sarebbe bene se altre istituzioni o autorità, dove avviene la maggior parte degli abusi, facessero lo stesso, informandone i media”.

La correlazione tra omosessualità e pedofilia è indispensabile per traslare il problema dai preti pedofili ai preti efebofili, cioè a preti omosessuali con predilezione per fasce di età medio-basse ma non bassissime, e dunque spostare il problema dalla Chiesa alla omosessualità. Di modo che, dopo aver dimostrato che la Chiesa combatte l’omosessualità dei suoi preti, sarebbe dimostrato che sulla pedofilia ha fatto quanto le spettava: adesso toccherebbe ai laici stanare la pedofilia tra gli omosessuali che inquinano la società. Se serve, la Chiesa offre la preziosa consulenza del suo Tony Anatrella.

martedì 13 aprile 2010

[...]


Un anonimo mi invia una email che in mezzo a molti insulti e alcune minacce mi porge l’invito a rettificare l’errore nel quale sarei ripetutamente incorso nell’affermare che con la De delictis gravioribus (18.5.2001) Joseph Ratzinger ha riconfermato l’obbligo al silenzio sugli abusi sessuali su minori commessi da preti, che già era imposto dalla Crimen sollicitationis (16.3.1962).
Per ciò che attiene agli insulti e alle minacce rimando alle comunicazioni che la Polizia postale gli farà quando dall’IP si risalirà al suo nominativo. Declino l’invito, invece, rimandando a ciò che nella De delictis gravioribus fu scritto dal miserabile: “Questi delitti sono riservati alla competenza esclusiva della Congregazione per la Dottrina della Fede”.

“Competenza esclusiva”, signor anonimo-ancora-per-poco.

Civettino


C’è un buco da riempire nella storia che Antonio Socci ci racconta oggi su Libero, ed è il buco tra il 1353, anno in cui Goffredo di Charny dona ai canonici della collegiata di Lirey la sindone oggi in ostensione a Torino, e il 1451, anno in cui una discendente di Goffredo, Margherita di Charny, se ne riappropria: 98 anni, quasi un secolo di silenzio, mentre invece in questo secolo avvengono cose molto interessanti a questo telo, che pure per Antonio Socci “avvolse il corpo di Gesù”. Avviene, per esempio, che il 6 gennaio 1390 papa Clemente VII emana una bolla nella quale si ordina che ad ogni futura ostensione del telo si debbano avvisare i fedeli “ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero sudario di N.S. Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del sudario”.
Riempito il buco lasciato da Antonio Socci, diciamo che papa Clemente VII ci torna utile come paradigma. E dunque, sì, “altre priorità incalzano” (così Massimo Bordin nel chiudere il suo rapido commento all’articolo su Libero); e davvero l’interrogazione parlamentare firmata dai radicali Perduca e Poretti (se la sindone appartenga alla Chiesa o allo Stato) è da stigmatizzare come cosa futile, se non superflua; e tuttavia, senza l’interrogazione dei due e senza l’articolo di Antonio Socci, non saremmo arrivati al “paradigma di Clemente VII”.

Avviso il mio lettore – se un lettore arriva al secondo capoverso di uno dei miei post, prolisso come sono, posso ragionevolmente dirlo mio – che col “paradigma di Clemente VII” non voglio tornare all’eterna ragione della mia polemicuzza sul cattolicesimo come fabbrica di mistificazione, e dunque non voglio parlare della sindone. Anzi, se il mio lettore avrà la pazienza di arrivare al terzo capoverso, capirà che voglio utilizzarlo per tutt’altro, e cioè per offrire una chiave di lettura su un elemento costante e parallelo alla mistificazione, lungo tutta la storia del Papato, fino ad innervarla come sua ragione: il traffico di favori in cambio di denaro, e viceversa.
Infatti, mi proverò ad applicare il “paradigma di Clemente VII” a vicende recenti – la scoperta dell’enorme flusso di denaro che padre Marcial Maciel Degollado avrebbe fatto arrivare nelle tasche di Giovanni Paolo II e indirettamente alla Segreteria di Stato e a strategici settori della Curia per comprare silenzio sul suo variegato campionario di peccati e reati – e a persone viventi – il cardinale Angelo Sodano, suo nipote Andrea, il suo socio in affari Raffaello Follieri… Ma prima parliamo del “paradigma di Clemente VII”.
Clemente VII emana la bolla del 6 gennaio 1390 in forza di ciò che gli è stato fatto noto da Pierre d’Arcis, vescovo di Troyes, che sul telo ha fatto delle indagini scoprendo che si tratta di un falso e riuscendo ad ottenere anche la confessione dal falsario. Tutto qui? Magari, sarebbe troppo semplice, e nulla è troppo semplice nella storia della Chiesa, perché per portare davanti alla sindone milioni di fedeli, non già avvisandoli “ad alta voce” che si tratta di un falso, ma sussurrando loro che, chissà, potrebbe trattarsi pure del telo che “avvolse il corpo di Gesù” – per fare questo, spremendo lucrosamente la devozione – c’è bisogno di mistificare, coprire, nascondere, insabbiare… E niente più del denaro serve allo scopo.
L’enorme flusso di denaro che la sindone poteva far arrivare a Roma – così promette casa Charny – fa emettere una nuova bolla a Clemente VII, sei mesi dopo: ora la sindone è sicuramente “impronta o immagine di N.S. Gesù Cristo”, degna di “venerazione”. La verità è finalmente sepolta nella mistificazione, “ogni frode” è lecita.

L’enorme flusso di denaro che padre Maciel fa arrivare all’Obolo di San Pietro, cioè a Giovanni Paolo II, spiega da solo il silenzio comprato sui suoi peccati e sui suoi reati? Così dicono i gesuiti d’Oltreoceano, mica Richard Dawkins. Fu così che per anni il fondatori dei Legionari di Cristo poté consumare abusi su seminaristi, donne, bambini. Pare fosse sadico e morfinomane, e questo non lo sostengono i militanti dello Uaar, ma i suoi più stretti collaboratori. E tuttavia il “paradigma di Clemente VII” ci induce a cercare altri beneficiari del denaro di padre Maciel, perché i Charny non unsero direttamente il papa: si limitarono a fargli capire che la sindone avrebbe potuto fruttare al Papato anche nel 2010.
E come fecero? Creando il clima di necessità di insabbiamento che si leggono nelle parole del cardinal Joseph Ratzinger quando un vescovo messicano gli segnala il curriculum di criminale e di peccatore di padre Maciel: “Si tratta di materia molto delicata, dato che padre Maciel ha fatto molto per la Chiesa e in più è molto amico del papa”.
Chi ha le carte in regola per mettere in buona luce un mostro di quel genere agli occhi di Giovanni Paolo II? Bravi, avete intuito: il suo Segretario di Stato.
Un suo nipote – quando si dice nepotismo – è ingegnere e imprenditore, ed è a lui che arriva il pacco di soldi che padre Maciel investe a Roma per la costruzione dell’università dei Legionari di Cristo. Andrea Sodano non è solo il nipote del cardinal Sodano ma è anche il socio in affari di quel Raffaello Follieri, oggi in carcere negli Usa per aver…

Ma questo post – come nel titolo – voleva essere solo il civettino di un articolo che l’ottimo Alessandro D’Amato dovrebbe star scrivendo in questo momento.
Per Giornalettismo.com, a breve.
Mi permetto di segnalarvelo anche senza averlo ancora letto.



Aggiornamento (h. 0.15)
Ne ho letto la prima stesura ed è già un pezzo eccezionale.

Fanculo a Ippocrate, stavolta


I malati sono tutti uguali anche quando talebani, dev’essere questo il principio cui si sono ispirati i medici di Emergency, e non si fa neanche troppa fatica a capire da dove l’abbiano trovato: sta nel giuramento di Ippocrate, che impegna a curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica. Si tratta di quello stesso Ippocrate che Il Foglio non manca di rammentarci quando ha da massacrare i coglioni ai medici che praticano l’aborto.
Bene, c’è qualcuno che ha preso le difese di Emergency tirando in ballo Ippocrate, citandolo senza citarlo nel punto in cui dice che i malati sono tutti uguali anche quando talebani. Con ciò – scrive Il Foglio“assolutizzando le vittime”. E che vuol dire “assolutizzare le vittime”? Vederle vittime di là da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica.
Bene, fanculo a Ippocrate, stavolta.

Non si capisce più un cazzo





a Rainbow,
cui ho promesso di non usare più don Camillo

lunedì 12 aprile 2010

Su Giornalettismo, 12.4.2010


La Santa Sede pensa di poter predere per il culo il mondo. Un mio commento alle linee guida che la Santa Sede ha reso note oggi.

Leggo: “Al Regina Coeli, ieri, Benedetto XVI ha detto…”.


Solo per un attimo non ho pensato alla tradizionale antifona mariana ma al noto carcere romano.


"Il vuoto d'informazione chiara e comprensibile è diventato norma non trasgredibile"

Come fai a dargli torto?

Ripetersi è penoso, ma spesso è necessario


Un blogger papista (neanche lo cito tanto mi fa schifo) scrive che senza il cristianesimo “la pratica della schiavitù forse continuerebbe anche adesso”.
Urge rammentargli che 150 anni fa un papa scriveva: “La schiavitù, in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla schiavitù e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento. […] Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato , scambiato o regalato” (Pio IX, Instruzioni, 20.6.1866).

Era il 1866 e Abramo Lincoln era morto l’anno prima.

Il post perfetto


[Questo post è il primo di una serie che ha come fine una piccola antologia della blogosfera italiana.]


Camillo

Obama prende posizione su Calciopoli spendendo una parola buona in favore di Moggi e facendo intendere chiaramente che l’amministrazione Bush avrebbe ugualmente stigmatizzato quei ladri dell’Inter, forse anche un pochino di più (notizia dal Washington Post, commento al commento di Jack Cocozza su The Politico: se non sapete chi sia Jack Cocozza, vergogna!), poi citazione da Paul Wolfowitz sul primato giusnaturalistico della Juve, e tocco finale: “È il calcio, bellezza!”, con eco di risatina bitonale (nasale e gutturale).

Comunicazione di servizio



Premessa

Ieri ho riportato su queste pagine la frase che m’è scappata quando ho letto: “È morta l’élite del nostro paese” (Lech Walesa sul disastro aereo a Smolensk, ansa.it), e la cosa è parsa “coraggiosa”, ma a me è sembrato che si volesse dire “ardita”. Avevo scritto: “Che culo, questi polacchi!”
Valeria ha scritto fra i commenti: “È quello che ho pensato anch’io, ma non ho avuto il coraggio di scriverlo, ché poi le amiche si preoccupano”. Sul blog di Antonio Vergara leggo: “Plaudo al coraggio di Malvino e Axell che hanno avuto il fegato di scrivere ciò che in molti pensano ma non dicono” (in realtà il suo plauso andava esteso anche ad Astenio). Attestati a metà tra l’ammirazione (Vergara parla addirittura di “invidia”) e una sottile riprovazione, come a dire che un tal genere di considerazione è pesante.
Solo oggi leggo che a Staino è scappato qualcosa di analogo. E che Daniele Capezzone ha così commentato: “Non solo si ride sui 96 morti polacchi, ma ci si duole perché non è ancora successo altrettanto qui da noi. C’è da rimanere allibiti dinanzi a una simile caduta di gusto. Quando l’odio contro Berlusconi raggiunge questi livelli, non ci sono neppure parole adeguate per commentare”. E che Staino c’è rimasto un po’ male, non dico pentito, ma quasi.
Giacché anche le pulci hanno la tosse, vorrei premunirmi da una eventuale e analoga critica, se dovesse personalmente raggiungermi: mando a cagare Daniele Capezzone, e valga come paradigma.


Comunicazione di servizio

Danie’, va’ a cagare. Nessuno ha riso per i polacchi morti, semmai s’è pianto sarcasmo sugli italiani vivi, quelli che il tuo padrone mortifica.
E per pulirti il culo usa il tuo sussiego.

Il presidente e il feticcio


Due vecchi libri - Di una riforma costituzionale in senso presidenzialista si parla da quasi mezzo secolo. Sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta cominciò Pacciardi, ma qualche accenno vi era già stato in Valiani e in Calamandrei; una decina d’anni dopo ne parlò Sogno; poi fu Gelli, nel suo Piano di rinascita democratica, scritto a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta; poi ne parlarono Almirante, Craxi, Miglio, Segni, Fini, D’Alema…

[Ecco, per dichiarare da subito donde nasce questo post, dico che, fra i tanti, è in Gianfranco Miglio (Come cambiare, Mondadori 1992) che si trova il nodo che si ripropone qui e ora. Ma di questo, poi.]

Oggi è Berlusconi che torna a parlarne e, ancora una volta, com’è sempre stato, si pone la questione del modello che, levata la tara, può essere – pare – solo francese o americano (centralista o federalista). E qui, per l’attuale quadro politico italiano, mi pare si pongano difficoltà non inferiori a quello del tabù dell’intangibilità della Costituzione, che ha sempre fatto abortire l’idea. Perché non c’è dubbio che Berlusconi abbia in testa un presidenzialismo di tipo gollista, mentre la Lega (senza la quale ormai non si può mettere mano alla Costituzione) fa chiaramente intendere che non è intenzionata ad appoggiare quel modello.

[Potremmo rintracciare tracce un elemento storico di questa ostilità leghista ad un presidenzialismo di tipo centralista in un altro volume, stavolta di Umberto Bossi: “Berlusconi è la materializzazione di un sogno antico, accarezzato da quel tale Licio Gelli. Andate a rileggervi il Piano di rinascita...” (Tutta la verità, Sperling & Kupfer 1995). E tuttavia l’Italia non è paese nel quale un libro possa impegnare chi l’ha scritto.]

Siamo ai preliminari - Ancora siamo ai preliminari, in quella fase in cui tutti – anche una consistente parte delle opposizioni – si dicono disposti a parlare di presidenzialismo senza pregiudizi, con pragmatismo aperto a innovazioni sostanziali, in realtà per non consegnarsi ad una mortifera irrilevanza. E però già si profilano linee di tendenza che, salvo colpi di mano, dovrebbero portare ancora una volta all’accantonamento della questione, per lasciare a Berlusconi quel presidenzialismo che i suoi alleati leghisti sono disposti a concedergli di fatto (come già è avvenuto in molte occasioni), ma non sulla carta, dove sarebbe impegnativo oltre Berlusconi (e soprattutto dopo Berlusconi).
È ancora presto per parlarne, ma è inevitabile che se ne parli, perché parlare della partita nel mentre si dispongono i pezzi sulla scacchiera fa pretattica, saggi gli umori e serve a riscaldare i giocatori. E tuttavia, levata la tara, ad impedire una riforma costituzionale in senso presidenzialista, o a farne passare una che non è affatto quella che Berlusconi ha in testa (naturalmente mettendo a rischio il governo), pare possa essere solo la Lega (naturalmente mettendo a rischio il governo), con l’ennesimo bizzarro paradosso della politica italiana: chi parte per destabilizzare finisce per stabilizzare (“bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale”).

[Paradosso solo apparente, perché se il leghismo fotografa una mutazione nella cultura e nel costume prim’ancora che nella politica, gli italiani restano italiani, anche quando si fanno chiamare padani: sono animati da un elemento identitario che non può essere nazionale, e che dunque non si può identificare in un potere prevalente che si ponga (anche se con legittimità costituzionale, in qualsivoglia modo si cerchi di bilanciarlo) al di sopra delle parti, per rappresentarle tutte in una sola figura istituzionale. L’Italia non è mai stata una, probabilmente non lo sarà mai.]

E dunque? - Senza una riforma del sistema elettorale non ha alcun senso riscrivere la Costituzione in senso presidenzialista. Il bilanciamento ai poteri del presidente sarebbe in realtà nullo da parte di parlamentari che con la “porcata” vigente sono scelti dallo stesso presidente: gli bilanciano un beneamato cazzo, e scusate il colore.
Faccio fatica a immaginare una riforma costituzionale tanto profonda senza nuove elezioni con sistema proporzionale e senza una proporzionata costituente a deciderla. Possiamo (e forse dobbiamo) rivedere la Costituzione, ma a sbagliare il metodo non si fa nulla o ne esce un pericolosissimo pastrocchio, fotografia di un’Italia che non è mai stata una, e probabilmente non lo sarà mai, ma che è a un passo dal dissolversi, da sempre.
Tante distinte identità, tutte di forte impronta familistico-tribale, possono essere rappresentate da uno o più feticci del potere, non già da un presidente americano o da un De Gaulle. Vedrete, anche stavolta se ne farà a meno. Al momento, il feticcio non manca. Poi si vedrà.

[Può darsi che questo post sia stato eccessivamente influenzato da un’intera notte passata a rileggere Giuseppe Prezzolini.]

Grazie




domenica 11 aprile 2010

Guareschi 2010



La morale dell'accattone


Stern ha scritto che padre Marcial Maciel Degollado “inviava flussi di denari dentro la curia romana con lo scopo di comprare il sostegno per il suo ordine e difendersi dalle accuse degli abusi”, ma Paolo Rodari ci informa che non è vero.
Fonte che smentisce le affermazioni di Stern? Il National catholic register, il quale assicura – e Paolo Rodari (1) dice che possiamo fidarci – che “i Legionari hanno sì mandato del denaro in Vaticano ma, come tutti gli ordini e le congregazioni religiose, l’hanno inviato per contribuire all’Obolo di San Pietro”, che poi sarebbe offerta personale al papa.

Ora si dà il caso che, quando gli abusi di padre Maciel furono segnalati da un vescovo messicano, monsignor Ramírez, al prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, questi fece presente: “Si tratta di materia molto delicata, dato che padre Maciel ha fatto molto per la Chiesa e in più è molto amico del papa” (2). Uno che ti regala un gran bel pacco di soldi ogni anno, e precisa che il dono è fatto a te personalmente, puoi chiamarlo nemico?
A me pare che il cardinal Ratzinger si mettesse nei panni del papa prim’ancora d’esserlo, e consigliasse di chiudere un occhio sugli abusi di padre Maciel, come pensava che Giovanni Paolo II avrebbe gradito: il criminale è pur sempre un amico quando ti paga così bene l’amicizia (così è naturale che un papa ragioni, almeno secondo l’allora cardinale Ratzinger).

Ma Paolo Rodari ci dà anche altre informazioni, relative al destino dei Legionari di Cristo dopo che il loro fondatore è irreparabilmente smerdato per omnia saecula saeculorum. C’è chi ritiene che “la Legione debba sopravvivere al fondatore senza particolari scossoni ma semplicemente facendo cadere nella dimenticanza la sua figura e [chi ritiene invece] che vada dato un segnale forte [facendo] tabula rasa”.
E il papa? Che pensa, il papa? “Benedetto XVI non ha particolari preconcetti sui Legionari. Senz’altro nei loro confronti non subisce il fascino che era di Karol Wojtyla e soprattutto di don Stanislao Dziwisz. Ma nemmeno ha una visione negativa della congregazione. Del resto per la Legione parlano i numeri. Nonostante le malefatte del padre fondatore, sono poche le case di formazione nel mondo che possono vantare 800 sacerdoti e 2.500 seminaristi maggiori e minori”.
Se tanto mi dà tanto, il destino dei Legionari sta tutto nella capacità che avranno di affascinare Benedetto XVI al prossimo Obolo di San Pietro.

 



(1) Il Foglio, 8.4.2010
(2) Da un’intervista a monsignor Carlos Talavera Ramírez, in: Discepoli di Verità, Senza misericordia, Kaos Edizioni 2005.

Il dono della sintesi



“Ma come, io ti affido mio figlio, e tu me lo violenti? Non è carino, dai!”
Massimo Bordin,
Conversazione con Marco Pannella
(Radio Radicale, 11.4.2010)

Figurarsi



Non più di due settimane fa, sul Times del 26 marzo, monsignor Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, teneva a precisarmi che “nulla nel diritto canonico proibisce o impedisce di riferire alla polizia i reati commessi da un prete”. Con grande pazienza e molta buona educazione gli ho fatto notare che non è così: per quanto il divieto non sia esplicito, il combinato disposto dei canoni 1311, 1324, 1340, 1341, 1345, 1395, 1455 e 1550 rende praticamente impossibile (almeno a un cattolico come si deve, ovviamente) spifferare alla polizia ciò che si sia venuto a sapere dei crimini di un prete.
“Teneva a precisarmi”, “gli ho fatto notare”… Avrete capito che tra me e Sua Eccellenza s’è subito creato un feeling. Il che mi obbliga a un’ulteriore cura.

Vengo a sapere oggi che Sua Eccellenza è accusato di non aver mai denunciato alla giustizia civile gli abusi sessuali commessi da padre David Pearce ai danni di molti bambini fra quegli affidatigli nei 35 anni in cui fu preside della prestigiosissima St. Benedict’s School. Pare che il termine “mostro” sia riduttivo per padre Pearce, e pare che monsignor Nichols sapesse tutto, anche perché a capo per quasi un decennio, fino al 2008, del Catholic Office for the Protection of Children and Vulnerable Adults.
Ed io che, ingenuo, gli rammentato i canoni del Codice di Diritto Canonico in osservanza dei quali avrebbe potuto – anzi, dovuto – tacere, insabbiare, dimenticare. Sua Eccellenza li conosceva meglio di me, figurarsi.