E lo va a dire a Bergoglio, che ha più vipere tra i
piedi di quante ne abbia in testa la Medusa. Dev’essere stata ironia, non c’è
dubbio.
venerdì 15 novembre 2013
lunedì 11 novembre 2013
Dubbi da cronopio
Dubbi
da cronopio, caro Julio. Quando la compressa è effervescente, la sua
disgregazione avviene nel bicchiere invece che nello stomaco, dunque il
principio attivo è assunto in soluzione, con assorbimento agevolato e
attenuazione dell’eventuale effetto aggressivo ai danni della mucosa gastrica, grazie alla diluizione. Nulla va perso del principio attivo nelle bollicine se
non i gas prodotti dal processo di disgregazione della compressa, che sono solo
il prodotto della reazione chimica tra l’acqua e gli eccipienti responsabili
dell’effervescenza.
[Julio
Cortázar, Carte inaspettate, Einaudi 2012 (pag. 276)]
[...]
La
vicenda personale di Silvio Berlusconi scuote violentemente il partito che si
identifica nella sua persona, mettendone a rischio l’integrità, tra il rischio
di scissione e quello di dissoluzione. Siamo dinanzi al paradigma del movimento
politico che lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader,
poco importa se fin dalla fondazione, com’è in questo caso, o per sopravvenuta mutazione.
I motivi perché questo accade e i modi in cui questo si realizza possono essere
analizzati col metro psicologico, con quello sociologico o con quello che integra
entrambi nel metodo scientifico che è proprio della psicologia sociale. Quale
che sia lo strumento di analisi, tuttavia, ciò che porta un movimento politico a
ritenere vantaggioso investire tutto se stesso in un solo uomo rimane un bel rompicapo, sicché ciascuna
delle espressioni fin qui usate per significare questa scelta («si identifica
nella sua persona», «lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del
proprio leader», «investe tutto se stesso in un solo uomo») ne danno conto solo
in un aspetto, che non la risolve interamente.
In realtà, siamo dinanzi ad una scelta che è
– insieme – di totale investimento, piena identificazione e indissolubile
legame, ma anche di un di più, che è quanto questa scelta produce in
ordine alla struttura del movimento politico, alle relazioni tra i suoi membri,
tra i suoi membri e il leader, e alla percezione che essi sono indotti ad avere
di ciò che è «dentro» e di ciò che è «fuori» il perimetro della «pars» fatta «partito».
Anche così caratterizzata nella sua natura, tuttavia, la scelta non svela ancora
le sue ragioni, rimandandole però ad una condizione di necessità che
sembrerebbe renderle cogenti. In pratica, ciò che porta un movimento politico a
fare del proprio leader la ragion sufficiente della propria esistenza non sarebbe
neppure una «scelta», ma una decisione necessitata dalla inadeguatezza delle
opzioni alternative.
Qui ritorna la questione che prima abbiamo in qualche modo
accantonato dichiarando legittima l’analisi del fenomeno sia sul piano psicologico,
sia su quello sociologico, sia su quello di intersecazione dei due piani: la
condizione di necessità è posta da fattori esterni, da fattori interni o dalla
combinazione di fattori esterni e interni? Per meglio dire: nel fare del
proprio leader l’intestatario unico ed esclusivo di un dominio che coincide con
la «pars» nella quale si decide l’inclusione, si risponde a una necessità che è
nell’individuo, eventualmente in ciò che fa dell’individuo un polo relazionale,
o a una forza maggiore posta da una determinata struttura della relazione?
Ancora meglio, cioè prendendo a esempio proprio il caso di specie: cos’è che
porta a ritenere naturale, se non giusto, che il destino di un movimento
politico sia indissolubilmente vincolato a quello del suo leader? Dipende dalla
«pulsione gregaria» che costituisce la caratteristica indispensabile per poter
essere reclutati in movimenti politici di questo genere o si tratta piuttosto
di un effetto collaterale della cosiddetta «personalizzazione della politica» dopo
la crisi dei partiti a forte impronta ideologica?
Quello di Silvio Berlusconi sembrerebbe
offrirsi come caso di scuola a dimostrare la validità della seconda ipotesi,
come d’altronde è per gli altri movimenti politici che hanno mosso i passi dopo
la «morte dell’ideologia»: quale miglior esempio di Forza Italia per la
dimostrazione dell’assunto che, al venir meno di un saldo sistema ideologico di
riferimento, un movimento politico sia in qualche modo costretto a investire tutto
su un nome, una faccia, una storia personale? Non bastasse questo esempio, si
pensi alla crisi in cui l’Italia dei Valori è precipitata dopo l’infortunio televisivo
che ha del tutto rovinato la già malferma reputazione di Antonio Di Pietro, o a
quella, seppur meno drammatica, cui irreversibilmente pare andare incontro la
Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Sennò si pensi a un movimento che pure pare
in buona salute, com’è il M5S, ma che nessuno riesce a immaginare integro ad un’eventuale
uscita di scena di Beppe Grillo.
Trattandosi di movimenti politici che sono
nati tutti dopo la crisi del partito che trovava la propria ragion d’essere (o
almeno la sua intestazione nominale) in un’ideologia (o almeno in una
tradizione ideologica) di riferimento (nel caso della Lega Nord, possiamo dire
che sia nata in questa crisi), parrebbe di poter ragionevolmente concludere che
il fenomeno sia possibile solo alle condizioni poste da un contesto che
favorisca (come in realtà ha favorito) la trasformazione della fidelizzazione
ideologica in un eterogenea e spuria serie di fattori che concorrono al
reclutamento di fan sotto un’insegna di cui è titolare un leader carismatico.
In parte è vero, ma solo in parte, perché il «partito» che nel culto della
personalità del proprio leader vede un momento indispensabile del farsi «pars»
non è un oggetto nuovo, anzi, è la forma più ancestrale di appartenenza a un
gruppo della specie umana.
In tal senso, nell’appartenenza ad un movimento
politico che fa del proprio leader – insieme – capo indiscutibile ed entità
totemica possiamo riconoscere un momento di regressione della vita di gruppo alle
forme claniche e tribali. Da ciò, tuttavia, non è lecito inferire che il
partito a forte impronta ideologica sia esente da tali forme di regressione,
basti pensare alle esperienze totalitaristiche del secolo scorso.
In buona
sostanza, sembrerebbe che il fattore esterno (la «personalizzazione della
politica») sia solo in grado di potenziare quello interno (la «pulsione
gregaria»), semplicemente latente anche quando sembri assente. Ce n’è di che
mettere da parte tanta inutile discussione politica per una più proficua
riflessione sulla psicopatologia dei gruppi. Il fatto è che abbondiamo di notisti, opinionisti e retroscenisti, e difettiamo di esperti delle patologie relazionali.
domenica 10 novembre 2013
Cécile Kyenge? E Yara Gambirasio, allora?
Rinviato
a giudizio per le offese rivolte a Cécile Kyenge, Roberto Calderoli solleva due
obiezioni.
La prima è relativa al giudizio immediato, chiesto dal pm e concesso
dal gip: «Generalmente celerità fa rima con efficienza, ma in materia di
giustizia penso abbia una certa rilevanza anche il rispetto delle procedure.
Adesso inoltrerò una richiesta perché il Ministro della Giustizia attivi un’ispezione
al Tribunale di Bergamo affinché venga appurato se ci sono state irregolarità
in questa vicenda».
Non gli sta bene che la faccenda sia risolta in tempi brevi,
è evidente, ma appellarsi al rispetto delle procedure è scelta infelice, nel
merito e nel metodo. Nel merito: «Quando la prova appare evidente [e in questo
caso c’è tanto di video che prova l’offesa rivolta Roberto Calderoli a Cécile
Kyenge], salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini [e in questo non si
capisce come potrebbe], il pubblico ministero chiede il giudizio immediato se
la persona sottoposta alle indagini è stata interrogata sui fatti dai quali
emerge l’evidenza della prova [e in questo caso così è stato]» (art. 453
c.p.p.); «Entro novanta giorni dall’iscrizione della notizia di reato nel
registro previsto dall’art. 335, il pubblico ministero trasmette la richiesta
di giudizio immediato alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari
[e così è stato in questo caso]» (art. 454 c.p.p.); «Il giudice, entro cinque
giorni, emette decreto con il quale dispone il giudizio immediato [come ha
legittimamente disposto in questo caso] ovvero rigetta la richiesta» (art. 455
c.p.p.). Dove sarebbe venuto meno il rispetto delle procedure?
E qui veniamo al
metodo: che senso ha – per meglio dire: che senso cerca – il chiedere al
Ministro della Giustizia un’ispezione al Tribunale di Bergamo, quando basta sfogliare le pagine del
Codice di Procedura Penale? Pare evidente che l’appello non sia alla Giustizia,
ma al Ministro, anzi, a questo Ministro della Giustizia, e da Senatore, anzi, da
Vicepresidente del Senato.
Seconda
obiezione: «Auspico – ha detto Roberto Calderoli – la medesima solerzia ed
efficienza anche per la risoluzione del caso di Yara Gambirasio. Parenti e
amici attendono giustizia da quasi tre anni per lei, anche se capisco bene che
una frase detta in un comizio sia molto più grave dell’omicidio di una
tredicenne innocente».
Un vero e
proprio delirio, in apparenza. Che per giunta si concede pure il lusso dell’ironia. Su quale
piano, infatti, si può proporre un’interpolazione tra un caso come quello che
vede vittima Cécile Kyenge e un caso come quello che vede vittima Yara
Gambirasio? Non su quello logico, perché sappiamo bene chi ha dato dell’«orango»
a Cécile Kyenge, ma ancora non abbiamo un presunto colpevole dell’assassinio di
Yara Gambirasio. Né su quello giudiziario, perché nel primo caso è in questione
la decisione del giudice, nel secondo il lavoro dell’inquirente. Dovremmo
concludere che a Roberto Calderoli manchi una rotella, ma sarebbe conclusione
affrettata e, tutto sommato, ingenerosa.
Con la prima
obiezione, infatti, si attua il tentativo di coinvolgimento di Anna Maria
Cancellieri, che dopo il caso Ligresti non può più respingerne alcuno. Può
disporre un’ispezione al Tribunale di Bergamo? Senza dubbio. Ma qui ce ne sono
gli estremi? Domanda irrilevante: se è prevalso il momento «umanitario» su
quello «legaritario» nel caso Ligresti, perché non dovrebbe prevalere nel caso
Calderoli? So bene che anche questa interpolazione non regge sul piano giudiziario,
ma regge su quello della stessa logica che giustifica, con la seconda obiezione
sollevata, il tentativo di coinvolgere la pancia di chi, fermato dalla Polizia
Stradale per aver superato i limiti di velocità, si lamenti della multa elevata
a suo carico, perché «intanto i responsabili della strage di Ustica sono ancora
impuniti».
[...]
«Parrebbe
che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti,
avessero più amor proprio degli altri e più stima di sé, e i timidi meno. Tutto
il contrario. I timidi, per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che
fanno di sé, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o
desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi
agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio
amore, e, occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio e non si
ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario per la contraria cagione,
cioè per aver poca cura o concetto di sé, o desiderio della stima degli altri
(che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura o per
abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano
di offendere l’amor proprio degli altri, e n’hanno poca cura, per poco amor di
se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e
non impetrano mai da se stessi non che di lederlo nemomamente, ma di porsene a
rischio benché leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale
parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello
degli altri. E così, per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar
dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente
non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima,
anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di
perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al
merito di coloro»
Giacomo Leopardi, Zibaldone (4037-4038)
Filottete
Ricordati
di vivere (Bompiani, 2013) si presenta come un libro di memorie: «Se mi decido
a scrivere non è per rivendicare meriti o per riscattare torti, non sono spinto
da risentimenti e neppure da nostalgia… Scrivo per sottoporre la mia esistenza
a un esame…» (pag. 7). A leggerlo come autoesame, però, ci si distrae: tutta l’attenzione
va nel cogliere gli istanti di contraddizione tra come ce la ricordavamo noi e
come ce la racconta Claudio Martelli, e ci si perde la dimensione più autentica
del libro, che è quella lirica, anzi, epica. D’altronde non ha indice dei nomi
e, giunti in fondo, si sente che la trama era un pretesto. Abbandonato sull’isola
di Lemno, Filottete ripete: «Io so poche cose, ma le ricordo benissimo» (pag.
594).
venerdì 8 novembre 2013
Domanda
Mettete
conto che io dica a un architetto: «Non ti sei mai laureato, non hai mai
sostenuto l’esame di abilitazione professionale, eserciti abusivamente»; che
quello, offeso, mi metta sotto il muso un regolare certificato di laurea e il
tesserino d’iscrizione all’Ordine degli Architetti, esigendo che mi scusi; e che
allora io gli dica: «Niente scuse, era solo per verificare se eri in regola».
Domanda: se quello mi afferra la testa e me la fracassa sul tecnigrafo – sarà permalosetto,
non ci piove – ma ha torto?
Mi direte che ha ragione, ma che da quella passa al
torto, perché nulla giustifica mai la violenza. Ok, concesso, e allora consentite
una variante. Mettete conto che, invece di fracassarmi la testa sul tecnigrafo,
quello mi chieda: «Ma, scusa, se avevi qualche dubbio sulla regolarità dei miei
titoli di studio, non bastava consultare il Registro Nazionale degli Architetti? Non potevi chiedermi di mostrarti l’attestato di laurea?»; e che
allora io risponda: «Offenderti mi sembrava il sistema più sicuro». Domanda: se
non mi ha fracassato la testa prima, sbaglia a fracassarmela ora? Ok, ok, ho
capito, siete tipini miti, civilissimi, e «la violenza mai, in nessun caso».
Come non detto, ritiro la domanda e ve ne faccio un’altra.
Mettetevi nei panni
dell’architetto, e dite: quale reazione pensate sia la più giusta nei confronti di uno
stronzone della mia caratura? Mi date del matto e mi mandate a fare in culo? Mi
denunciate per diffamazione? Vi armate di tanta santa pazienza per spiegarmi che
agire come ho agito non è bello, e non sta bene, e non si fa? Oppure ritenete
che la cosa più giusta da fare sia niente? Se siete propensi a credere che
quest’ultima sia la migliore soluzione, vi avverto: sono uno stronzone di notevole
caratura e, dopo aver appurato che non esercitate abusivamente la professione di
architetto, mi sta prendendo l’irrefrenabile curiosità di sapere se vostra
madre, vostra sorella e vostra moglie siano davvero donne oneste e morigerate,
e per farmela passare sto per dirvi che sono tutte e tre delle grandissime
puttane, che a mio parere è «il sistema più sicuro» per accertarmi che non lo
siano. E dunque?
Forse
ho posto la questione nel modo sbagliato, vediamo se riesco a sistemarla nel modo
giusto. Usciamo dall’ipotesi e entriamo in un caso concreto.
Prendiamo Riccardo
Magi, al quale Marco Pannella ha dato del truffatore e del ladro: truffatore
per aver detto di aver raccolto 44.000 firme per Roma Sì Muove, quando le firme
– così Marco Pannella ha detto ai microfoni di Radio Radicale in almeno quattro
occasioni – non erano più di 26.000; ladro per aver sottratto le firme raccolte
dalla sede radicale di Via di Torre Argentina. Visto che le firme erano davvero
44.000 e che da Via di Torre Argentina erano state portate vie da Riccardo Magi
solo perché gli avevano detto fossero d’ingombro, possiamo dire si trattasse di
offese belle e buone? Marco Pannella dice di no. Dice che quello gli è sembrato
«il sistema più sicuro» per accertarsi se le cose stessero come affermava
Riccardo Magi.
Tutto questo è accaduto nel corso della direzione di Radicali
italiani del 2 novembre, e Riccardo Magi, che è un tipo mite, civilissimo, e
che fin lì non aveva sporto denuncia a
Marco Pannella, a questa spiegazione non gli ha rotto una sedia in testa, né l’ha
mandato a fare in culo, né ha ritenuto necessario dirgli almeno «guarda, Marco,
che ti sei comportato di merda». E qui non è il caso che riformuli la domanda.
[...]
Un altro argomento, e ottimo argomento, in sfavore di Anna Maria Cancellieri: «Se il
mondo finisse domani, sarebbe meglio dare un beneficio giusto a una persona
piuttosto che non darlo a nessuno, quale che sia il criterio. Il mondo però
continua. E questo tipo di scelte dovranno essere compiute mille altre volte.
Usare un criterio ingiusto pur di migliorare lo stato delle cose di oggi
potrebbe peggiorare lo stato delle cose di domani» (regcoffeeblog).
mercoledì 6 novembre 2013
Investimento a costo zero
A smorzare gli entusiasmi di chi alla vista di Bergoglio che liscia il poveretto zeppo di bozzi si è lanciato a peso morto in parallelismi sbilenchi col Gesù tra i lebbrosi, urge chiarire che la patologia di cui è affetto il lisciato è la neurofibromatosi di tipo 1, altrimenti detta morbo di Recklinghausen, niente affatto contagioso. Insomma, si è trattato di un investimento a costo zero.
martedì 5 novembre 2013
Si troveranno quattro o cinque volontari?
Da come
paiono mettersi le cose a Palazzo Madama, Anna Maria Cancellieri non sarà
tenuta a dimettersi. Doveva chiarire, ma non ha chiarito niente, non ha detto nulla di più quanto avesse già detto ai giornalisti in questi ultimi giorni. Era amica della famiglia Ligresti, si può negarle di avere amici, da ministro? Sentiva il bisogno di farsi empatica col pregiudicato, si vorrà mica vietarle l’empatia? Ha detto: «Qualsiasi
cosa io possa fare conta su di me», ma non ha fatto niente. Cioè sì. Cioè no. Insomma, sì, ma no. E le credono. Come potrebbero non crederle? Porta in aula il puro distillato del familismo e dell’arrangiarsi, i pilastri del saper vivere all’italiana.
Le credono, così pare prevalga l’idea che la scarcerazione di Giulia Maria
Ligresti sia stato un atto dovuto, che le sue condizioni cliniche fossero
incompatibili con la detenzione in carcere. Anoressia, capite? Un’anoressica ci mette anni per crepare, ma una Ligresti può metterci anche soltanto tre mesi. Un sostegno psicologico sarebbe stato inutile, per convincerla a mangiare era necessario mandarla a casa. Fatto, è stata salvata una vita. Chi è così bestia da sollevare la questione egalitaria rammentando che in carcere si continua a morire per cancro, aids e perfino per tubercolosi?
In quanto al Guardasigilli, pare
che la maggioranza del Senato le creda, o voglia crederle, perché le sue
spiegazioni non fanno affatto chiarezza, sicché crederle esprime atto di fede. Si sarebbe interessata a un caso umano, ma l’interessamento
non sarebbe andato oltre la segnalazione alle autorità competenti, tutte a lei
soggette, e non si capisce in quale misura la segnalazione non avesse implicito
l’effetto di induzione. Analogie col caso Ruby? Non diciamo sciocchezze.
Si sarebbe interessata ad altri casi analoghi, però –
dice – «negli ultimi tre mesi», in pratica è il caso di Giulia Maria Ligresti
che le ha fatto venir voglia di attivarsi per risolvere analoghe situazioni
critiche, visto che dal 28 aprile al 17 luglio non risultano suoi interventi.
C’è
perfino qualche senatore che ha detto sia del tutto «naturale» che un ministro
si attivi personalmente in favore dei casi che arrivano alla sua persona, poco
importa se il modo in cui vi arrivano costituisca via privilegiata rispetto a
quella mille volte più tortuosa di chi non abbia famiglia facoltosa, o neppure
famiglia, di chi non sia simpatico al cappellano penitenziario, di chi non abbia l’indirizzo
di Rita Bernardini o di Luigi Manconi, di non abbia soldi per pagarsi un
avvocato decente, e insomma al magistrato di sorveglianza non abbia modo di far
arrivare il suo urlo di dolore.
Insomma, a Palazzo Madama, è prevalsa la tesi che sia
meglio salvarne uno che nessuno, poco importa se chi si salva sia immancabilmente
un potente. Mica è colpa sua se trova il modo precluso ad altri, no?
Bene, il caso sembra archiviato. Di fatto si riaprirà col primo poveraccio
che morirà in carcere. In questo merda di paese dove il favore s’è mangiato il
diritto si troveranno quattro o cinque volontari che ne porteranno la bara in
spalla fino a via Arenula urlando da basso ad Anna Maria Cancellieri di
affacciarsi al balcone?
lunedì 4 novembre 2013
La frattura tra «umanitario» e «legalitario»
È buona
norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni
garbati. Ahimè, non sempre è possibile. Spesso, infatti, fallacia chiama
fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in
rissa. Quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile
la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile, io ricorro a un
espediente che mi si è rivelato sempre efficace: prendo in considerazione solo
gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata
onestà e d’indole affabile, e devo confessare che, quando li ho trovati solidi
fino al punto da cambiare idea, dichiararmi sconfitto è stato un piacere.
Il
guaio è che con la ristrettissima cerchia di persone cui riconosco tali meriti
vado d’accordo su quasi tutto, mentre sul poco che ci vede in disaccordo non vale
la pena di polemizzare, perché attiene per lo più a differenze di gusto. Stavolta,
però, sul caso Cancellieri, mi è offerta l’opportunità, e da Massimo Bordin,
che non ha eguali, a mio modesto avviso, per intelligenza, rettitudine e
signorilità. Posso così trascurare del tutto gli argomenti che in favore del
Guardasigilli sono stati fin qui prodotti da ingenuità o malafede, con ciò
evitando il rischio di scivolare nell’invettiva, per prendere in considerazione
solo quelli che Massimo Bordin ha esposto nel corso della rassegna stampa di
lunedì 4 novembre, dai microfoni di Radio Radicale.
Occorre, tuttavia, una precisazione:
i suoi argomenti, in realtà, sono controargomenti, rapide e asciutte
annotazioni polemiche a margine degli articoli di quanti stigmatizzavano la
condotta del Ministro della Giustizia. Argomenti non per questo meno efficaci di una vera
e propria difesa del suo operato, e con una ben chiara linea, tutta in punta di
principio. E qui mi pare ci sia il primo punto debole dell’argomentazione
offerta da Massimo Bordin, perché in difesa di questo principio, che è quello
più correntemente detto «umanitario», un altro principio, quello più
correntemente detto «legalitario», trova modo di essere degradato a mera
pulsione «giustizialista», a cieco arco riflesso che trasforma il sacrosanto
bisogno di giustizia in bieco desiderio di vendetta, in crudele accanimento su un
capro espiatorio che perde ogni dignità di persona per farsi vittima sulla
quale una plebe inferocita abbia a sfogare ogni sorta di disagio e di
malessere.
Perché il principio «umanitario» possa degradare in tal modo quello «legalitario»
occorre dimostrare che il primo non sia meno «giusto» del secondo, ma che anzi il
primo abbia in sé una logica che non si esaurisce nella pietà, ma fa vera
«giustizia», mentre il secondo piega la «legge» a un’urgenza deterrente o
punitiva che riduce il colpevole, e spesso anche solo il presunto colpevole, al
reato ascrittogli da un’accusa che considera ogni garanzia un ostacolo al
soddisfacimento di quella urgenza. Sembrerebbe d’essere, in buona sostanza,
dinanzi a quanti vogliono a tutti i costi vedere nell’operato di Anna Maria Cancellieri
un abuso di potere trascurando gli elementi che fanno della sua «umanità» la
più genuina espressione di ciò che la «legge» deve essere per realizzare «giustizia».
Qui potremmo levitare ai massimi sistemi. Potremmo farci aiutare da Jacques
Derrida nel definire la relazione tra «legge» e «giustizia» (Force de loi,
1994). Potremmo addirittura riandare alla filogenesi del diritto come espressione
di quella «teologia politica» che si assume il compito irrealizzabile di trovare
in terra un equilibrio, se non la sintesi, di «carità» e «verità» (Der Nomos
der Erde, 1974). Meglio rimanere con i piedi a terra e, pur riconoscendo nel
caso Cancellieri tutti gli elementi che consentono una presa di posizione
istintivamente «umanitaria» o «legalitaria», limitiamoci a considerare
esclusivamente quelli che reggono sul piano razionale.
Non c’è ombra di dubbio
che il provvedimento in favore di Giulia Ligresti sia stato «umanitario» o che
in tal modo sia presentabile a chi lo considera inopportuno per il solo fatto di aver avuto il primum movens nell’interessamento
personale del Guardasigilli. In primo luogo, tuttavia, è da risolvere un
problema che di fatto è posto dall’ambiguità della difesa in favore di Anna
Maria Cancellieri. Da un lato, infatti, si afferma che l’interessamento
personale ci sia stato, d’altronde appare innegabile dalla lettura della
conversazione telefonica intercorsa il 17 luglio tra il ministro e Gabriella
Fragni, nella quale, però, non si fa mai cenno a Giulia Ligresti, ma solo a suo
padre. Torneremo ancora su questa telefonata, per quello che lo stesso Massimo
Bordin non ha difficoltà ad ammettere sia il suo contenuto «imbarazzante», d’intanto
limitiamoci a rilevare che l’interessamento personale di Anna Maria Cancellieri in favore di Giulia
Ligresti è dato per certo nella telefonata intercorsa tra Antonino Ligresti e
Gabriella Fragni, il mese dopo, prima che le condizioni della detenuta siano
definite a rischio dai sanitari. Significherebbe che l’interessamento personale
del ministro ci sia stato in previsione di un rischio di là da venire, e di
fatto non accertabile in anticipo.
D’altro canto, però, si afferma che l’interessamento
del Guardasigilli in nulla sarebbe diverso da quello speso in favore di altri
detenuti, e dunque non sarebbe «personale» nel senso che gli si intende dare
per insinuare un trattamento di favore. Bene, tale affermazione regge solo sul
piano formale, perché in sostanza è falsa: degli oltre 100 casi portati all’attenzione
di Anna Maria Cancellieri solo 6 hanno avuto un esito analogo a quello che
riguardava Giulia Ligresti, e si tratta di casi in cui l’interessamento del
ministro c’è stato solo dopo che le condizioni dei detenuti erano state definite
a rischio dai sanitari, oltre al fatto che hanno ottenuto analoghi benefici
solo poco prima e poco dopo la scarcerazione di Giulia Ligresti. Ovviamente
quest’ultimo rilievo può sembrare malizioso, ma assume un discreto peso se
rapportato ai detenuti morti in carcere dal momento in cui Anna Maria
Cancellieri è diventato ministro della Giustizia ad oggi.
L’obiezione a questi
dati, che hanno significato per nulla ambivalente, è che il Guardasigilli fa
quello che può, a partire dai casi che arrivano alla sua attenzione. È obiezione
che solleva un problema più grosso di quello che intendeva risolvere, perché i
canali che consentono a un detenuto di arrivare o no al ministro della
Giustizia sono giocoforza diversi, sicché arrivarci o no costituisce un
elemento di discrimine che è posto a priori della sua carcerazione. Nel caso di
Giulia Ligresti sappiamo i modi in cui era posto. Sarà stata millanteria, ma Salvatore
Ligresti ha vantato di essere stato utile alla carriera di Anna Maria
Cancellieri: non è in questione perché l’abbia fatto, ma il fatto che abbia
ritenuto di poterlo fare con la possibilità di essere creduto.
In quanto alle
intercettazioni telefoniche che hanno sollevato il caso, appare in tutta
evidenza che la famiglia Ligresti vantava nei confronti di Anna Maria
Cancellieri dei crediti di natura tutt’altro che amicale. Anzi, ad essere
onesti, sembra che l’aver dato un impiego a suo figlio, descritto dai Ligresti
come un buono a nulla, fosse stato solo un investimento, che sembrava dare
scarso profitto a fronte del costo. Poco importa cosa pensasse Anna Maria Cancellieri dei Ligresti prima di
essere messa a corrente del contenuto di queste intercettazioni, e poco importa
cosa pensi ora: di fatto si è posta nella condizione di lasciar credere ai
Ligresti di poter tornare loro di qualche utilità. Poco importa, dunque, se nella
faccenda ci siano gli estremi del reato, anche se questa non è questione da
accantonare: ciò che importa è che quanto Giulia Ligresti ha avuto modo di
ottenere sia di fatto negato a quanti non hanno una famiglia che possa
rivolgersi a un ministro con la stessa convinzione di poter vantare crediti.
Qui cadono tutte le possibili obiezioni relative al ruolo realmente svolto da Anna
Maria Cancellieri nella scarcerazione di Giulia Ligresti, perché a chiunque il
ministro abbia inoltrato la richiesta di accertamenti riguardo alle condizioni
della detenuta era la richiesta di un ministro e aveva via privilegiata. Pare
evidente, infatti, che non ci sia bisogno si sostanzi un elemento di induzione o di costrizione perché una richiesta del genere abbia possibilità di avere buon esito in misura direttamente proporzionale al ruolo che chi la sollecita occupa nella scala gerarchica che dal Guardasigilli scende fino al detenuto.
Non c’era bisogno di abuso di potere, bastava il potere discrezionalmente esercitato dal ministro, che in questo caso è fin troppo chiara negazione dell’elemento cardine del principio «legalitario», che è quello dell’uguaglianza dinanzi alla «legge». In tal senso, possiamo affermare che un intervento «umanitario» che di fatto realizza un momento di disuguaglianza dinanzi alla «legge» rimane «umanitario», ma non è necessariamente «giusto». La lesione si realizza nella telefonata del 17 luglio ed era prefigurata nei rapporti tra Anna Maria Cancellieri e la famiglia Ligresti, come è già accaduto nel maggio dello scorso anno, quando il Guardasigilli era ministro degli Interni: una proprietà dei Ligresti fu occupata da un centro sociale e lo sgombero avvenne a tempo di record. La proprietà privata è sacra, non c’è dubbio, e lo sgombero era necessario. Non meno necessario, però, di quelli che invece non vengono effettuati a soli 10 giorni dall’occupazione, come accadde l’anno scorso con la Torre Galfa dei Ligresti. Non ci sono prove che Anna Maria Cancellieri si sia attivata in quella occasione, ma oggi come può respingere il sospetto?
A parte, dicevo, ci sarebbe da commentare nel dettaglio la telefonata del 17 luglio. Anna Maria Cancellieri non si limita a consolare un’amica, ma fa suoi i pesanti giudizi sulla magistratura ai quali si lascia andare la moglie di un detenuto, avalla le risibili attenuanti che basterebbero a scagionarlo e dà colpa dell’accaduto a come vanno le cose in Italia. Basterebbe questo a renderla incompatibile con la carica che riveste.
domenica 3 novembre 2013
Anna Maria Cancellieri tra i «radicali»
I tomi II e IV dell’Opera omnia di Gaetano
Salvemini (Feltrinelli, 1961-1978) e numerosi articoli di Ernesto Rossi per Il
Mondo, soprattutto quelli pubblicati tra il 1949 e il 1952, poi raccolti in
Settimo: non rubare (Laterza, 1954), contengono passaggi di estrema durezza nella
condanna dei privilegi che producono disparità di trattamento dinanzi alla
legge, e che di fatto sono la negazione della democrazia. Non c’è da stupirsene:
erano radicali, e per un radicale lo stato di diritto è a fondamento di ogni libertà
e di ogni giustizia che non siano vuote parole, ma concreta sostanza del vivere
civile. Non si fa alcuna fatica a immaginare, dunque, cosa avrebbero scritto su
un caso come quello di Anna Maria Cancellieri.
Avrebbero scritto che da almeno
due decenni è in affettuosissimi rapporti con un imprenditore plurindagato e
plurincondannato che sempre ha unto tutto quello che poteva ungere per
procacciarsi appalti a danno dei suoi concorrenti. Che suo figlio è stato dipendente
di questo imprenditore, traendone un utile esorbitante se rapportato alle sue
prestazioni, come andava lamentando chi a saldo le aveva chiesto un favore che non veniva
corrisposto con la sollecitudine desiderata. Che nell’adoperarsi per corrispondere
questo favore, se non in abuso d’ufficio, è incorsa in un odioso uso della
discrezionalità d’intervento.
Salvemini e Rossi, però, erano anche superbi
polemisti e non avrebbero avuto alcuna difficoltà a spezzare le zampette di chi
prova a difendere l’operato di Anna Maria Cancellieri. «Non è intervenuta solo
in favore di Giulia Ligresti, ma anche di altri sei detenuti»: sì, ma basta un’occhiata
alle date per capire che i sei fortunati le servissero da alibi. «Se rimaneva
in carcere, Giulia Ligresti poteva morire»: dunque bisogna addebitare ad Anna
Maria Cancellieri tutti i decessi avvenuti in carcere da quando è
Guardasigilli? «Ma le intercettazioni portano a escludere che si sia trattato
di corruzione, concussione o altro reato»: sia, ma in discussione non è il
penale, ma la disciplina e l’onore che la Costituzione chiede ai cittadini cui
sono affidate funzioni pubbliche, e nel caso di un ministro della Giustizia, al
venir meno di onore e disciplina, vengono meno credibilità ed affidabilità, sicché si è in presenza di un gravissimo vulnus all’istituzione e a quanto l’istituzione è chiamata a difendere. «Anna
Maria Cancellieri deve dimettersi», avrebbe concluso Salvemini; e Rossi, che era appena un poco più sanguigno, avrebbe
aggiunto: «Deve farlo subito».
Anna Maria Cancellieri era ospite al XII
Congresso di Radicali Italiani, e non poteva eludere la questioncina che la invischia. L’ha
trattato nel seguente modo, e mi pare che le reazioni dei «radicali» lì convenuti non abbiano bisogno di commento.
Alla signora sono bastate due vuote chiacchiere sulla «umanità» e un indecoroso appello alla «onestà intellettuale» per cavarsela alla grande. Non poteva essere altrimenti: si è detta in favore di amnistia e indulto (tanto non è lei a dover decidere, la cosa non la impegna, tutt’al più le torna utile, soprattutto adesso) e ha degnato della sua presenza un congresso disertato dall’80% degli stessi «radicali» (non ci vanno perché sanno che è del tutto inutile, tanto l’esito si decide altrove, e prima). Come dire, ci si dà una mano, e va’ a capire chi ne abbia più bisogno, se una manica di sfessati ormai buoni solo a reggere il logoro strascico di un vecchio matto o un ministro della Giustizia che ormai sembra avere la fiducia solo di chi sul caso Ruby votò la mozione Paniz. Salvemini e Rossi? Morti da tempo, in tutti i sensi.
sabato 2 novembre 2013
giovedì 31 ottobre 2013
[...]
Sulla
questione «voto palese o voto segreto» risparmiamoci l’excursus storico dalla
Grecia antica ai nostri giorni, e limitiamoci a considerare che, oggi, a lamentare
la decisione di ricorrere al voto palese lì dove era pratica corrente quello
segreto, decisione presa a maggioranza semplice dalla Giunta per il Regolamento
di Palazzo Madama, sono proprio quelli che, ieri, lamentavano l’intoccabilità
della Costituzione, chiedendone modifiche col voto a maggioranza semplice: gli
articoli della Costituzione non sono mica le Tavole della Legge, dicevano ieri,
e oggi, a sentirli, sembra che a portare giù dal Sinai il Regolamento del
Senato sia stato Mosè in persona. Non è la prima volta che i servi di Silvio Berlusconi mostrano
tenuta malferma su questioni di principio, e di certo non sarà l’ultima, ma è
che di principi ne hanno uno solo, la fedeltà al padrone. La questione di merito, in casi come questi, si riduce a
questione di metodo, e questa non può che risolversi nella presa d’atto dell’esito di un
voto. Prosaicamente: l’hanno preso in culo e devono farsene una ragione.
martedì 29 ottobre 2013
lunedì 28 ottobre 2013
Bacino, ancora niente
Twitto
poco – dall’apertura dell’account ad oggi ho calcolato una media di 1,4 tweet
al giorno – e la ragione sta nel fatto che «in 140 battute entrano tre
splendidi endecasillibi o una scatarrata di insulti, ma non si riesce ad
argomentare un cazzo» (@lmcastaldi, 19.3.2012
– il primo tweet, mettevo le mani avanti). Sì, tra il certame in versi e la
rissa da suburra c’è anche la conversazione mondana, che spesso può essere
brillante anche solo monosillabando, concordo, ma quella non è il mio forte. O
c’è il link a quella strepitosa cosuccia che si è postata due minuti fa sul
proprio blog, non sarebbe un vero peccato se l’umanità se la perdesse? Tre o
quattro volte l’ho fatto anch’io, però provando subito dopo un certo imbarazzo,
e ho preferito accontentarmi che il post fosse segnalato da altri, quando capitava.
Poi ci sarebbe pure il commento televisivo in diretta, e non nego che può esser
pure divertente, ma almeno per me è sempre a un passo dal deprimente. Idem per
il ribattere ai tweet altrui, chessò – faccio un esempio – quelli di Roberto Formigoni: anche quando ti alza la
palla per darti l’opportunità di una micidiale schiacciata, e non c’è tweet che
non te ne alzi una, schiacci, rischiacci, rischiacci ancora, ma poi finisci per chiederti
«è più cretino lui a provocare o io a cascarci?». Twitter, insomma, non fa per
me. Non in scrittura per lo meno, perché in lettura lo considero un simpatico
spioncino. Simpatico, però pericoloso, perché può dare la stessa illusione di stare
a far sociologia che si può coltivare porgendo orecchio alle chiacchiere in metrò
o in fila al supermercato… Vabbe’, basta così, sennò prendo la tangente, in
fondo si trattava solo della premessa a un post che prende spunto da due scambi
di battute che ho avuto poco meno di un mese fa su Twitter.
Era la
sera di martedì 1° ottobre, tutto il social network vibrava nell’attesa di
quello doveva accadere l’indomani, e su cosa dovesse accadere sembrava non ci
fosse ombra di dubbio: Silvio Berlusconi avrebbe tolto la fiducia al governo,
questo avrebbe significato la spaccatura del Pdl, la fine del Ventennio… Figurarsi.
Figurarsi se a questa possibilità, che – occorre sottolineare – era pur sempre
soltanto una possibilità, Silvio Berlusconi non avrebbe messo riparo da par
suo. C’era solo un modo, ed era quello di non far cadere il governo, per
prendere tempo. Significava fare una micidiale figura di merda, peraltro
mostrandosi sconfitto due volte agli occhi del mondo, in casa e fuori. Il voto
a Palazzo Madama era solo di lì a poche ore dall’annuncio ufficiale che avrebbe
votato la sfiducia e i suoi fedelissimi lo avevano sottoscritto con parole di
fuoco. Il governo sarebbe caduto? Chissà. I cinque senatori a vita di fresca
nomina, qualche «responsabile», una dozzina di grillini… Poteva non cadere, e
allora la sconfitta sarebbe stata atroce. O poteva cadere, ma chi gli assicurava
che si andasse alle urne? Certo non il Quirinale. Dalle urne, d’altronde, chi
gli assicurava di non prendere legnate? E poi: avrebbe potuto ricandidarsi?
La Giunta per le elezioni e le
immunità del Senato avrebbe funzionato anche a Camere sciolte, e di lì a due o
tre settimane la Corte di Appello avrebbe emesso la sentenza sulla pena accessoria
dell’interdizione dai pubblici uffici. Poteva ricorrere in Cassazione anche su
quella, ma intanto, a Camere sciolte, non sarebbe stato più senatore e una
qualsiasi procura avrebbe potuto chiedere, e ottenere, un provvedimento di
custodia cautelare nei suoi confronti per una delle tante accuse che gli
pendono sul groppone. Che fare, dunque? Il governo, innanzitutto, non doveva
cadere. Questo gli avrebbe dato modo di congelare la scissione del Pdl che
sembrava essere cosa fatta con l’annuncio della costituzione di un gruppo
parlamentare da parte dei cosiddetti «governativi». Doveva scongiurarla. Doveva
prendere tempo. Solo così avrebbe avuto modo di rosolare le «colombe», evitando
per giunta di dover usare lo spiedo lungo che era servito per Gianfranco Fini. Non
c’era altra soluzione: doveva votare la fiducia al governo. Il resto si sarebbe
visto poi, ma votare la fiducia era indispensabile. Era un prezzo enorme? Lo
sarebbe stato per chiunque avesse avuto un minimo di dignità, anche solo due
grammi, ma la sola dignità di Silvio Berlusconi sta nella cura dei cazzi suoi.
Ecco,
per spiegare per quale ragione lo stupore generale del 2 ottobre poteva trovare
spiegazione solo nella piatta ottusità di quanti continuano a rimanere ogni
volta spiazzati dalle sue trovate solo perché usano la loro testa invece di
provare a ragionare con la sua, ci ho messo le oltre 2.500 battute spazi inclusi dell’ultimo capoverso. Ok,
sarò verboso, convengo, ma ognuno ha i propri limiti, e non sono riuscito ad
argomentare più sinteticamente. Dovendo ridurre il tutto a 140 battute
– erano le 22.00, la mattina dopo avevo la sveglia alle 5.00, un post su queste pagine mi avrebbe preso troppo tempo – potevo
far meglio di così?
Boh, non saprei dire. Anche a posteriori, non saprei dire. Sta di fatto che, anche a fronte di ciò tutto che Silvio Berlusconi ci ha mostrato di se stesso da quando è «sceso in campo» fino a quella sera, il tweet destò perplessità. Due perplessità. Una, espressa in modo garbato, rivelava il buon senso chi la sollevava, e il buon senso
– consentitemi la digressione, che piglio a prestito da Ortega y Gasset –
non viene mai meno al dovere di trattare il prossimo alla pari. Ma il buon senso è uno strumento efficace per prevedere le mosse di chi ha per solo movente la lucida disperazione di chi avverte il pericolo
–
reale o allucinato –
di aver tutto da perdere? Silvio Berlusconi è un criminale. O un malato. O entrambe le cose. Dinanzi ad un soggetto del genere la logica che regge il buon senso non può essere più efficace di quanto possa esserlo la conoscenza dell’anatomia felina nella gabbia di un leone che non mangia da una settimana.
Proprio perché non reggeva al buon senso, la previsione era probabile. E così i fatti si sono incaricati di renderla possibile fino all’inevitabile.
La seconda perplessità era espressa in tutt’altro modo. Sul fondo, riportato alla luce dalla frequentazione con gli Angelucci, era ben evidente la nascita in quel di Castellammare di Stabia, mentre tutto intorno ai margini dell’abrasione persisteva il sottile strato di smalto spennellato in quel di Londra.
Quasi un mese è passato. Silvio Berlusconi ha ormai ricompattato il partito. Pare sia intenzionato a candidare sua figlia alle prossime elezioni. Bacino, ancora niente.
sabato 26 ottobre 2013
venerdì 25 ottobre 2013
Francesco Bucci - Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante - Soc. Ed. Dante Alighieri, 2013
Dubbia
è la radice di ακρίβεια, che in Tucidide sta per diligenza, in Platone per
precisione, in Aristotele per rigore, nella
Bibbia dei Settanta per esattezza, e che arriva nel nostro lemmario dall’uso
che se ne fece nell’Ottocento tedesco, dove Akribie stava per la virtù del
filologo e dello storico che eccellono in meticolosità. Da noi divenne acribia,
e fu subito degradata a pignoleria, difficile capire se per quella nostra inclinazione
al pressappoco che nella cura minuziosa e assidua dei dettagli vede un ostacolo
alla comprensione intuitiva del tutto (dobbiamo questo cancro a Benedetto Croce), o se non fu piuttosto per come il
termine suona all’orecchio: non sentite un che di acre e di bilioso, sennò di borioso, nell’acribioso? Se
siamo costretti a sospendere la questione sul piano etimologico, perché ormai ci
è impossibile capire quanto discernere (άκρατος) e quanto assodare (βέβαιος) ci
fosse nell’ακρίβεια dei greci, non è vano porcela su quello della cosiddetta psicologia
morale, perché non c’è ombra di dubbio che, di là dai suoi risultati, l’acribia
ha un movente di natura etica, e infatti l’acribioso ha sempre un Über-Ich spietato, perciò raramente inefficace.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork di copia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dall’Introduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con morale, natura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso all’autorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.
Francesco Bucci ci aveva già dato prova di quanto sia efficace la sua acribia con Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, 2011), nel quale dimostrava con spietata documentazione quanto la ricca bibliografia del filosofo sia in realtà un immenso patchwork di copia-incolla. Ora ce ne dà una ancora più convincente con Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante (Società Editrice Dante Alighieri, 2013), disperdendo tutto il fumo che ormai da anni avvolge il fondatore de la Repubblica, dandogli profilo di grande pensatore. Operazione che necessitava di qualcosa in più della meticolosità nello studio dei testi, perché scovare a pag. 694 de Il tramonto dell’Occidente: «L’esegesi heideggeriana è questo tentativo. Come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dallo spazio simbolico non costituisce il limite o lo scacco del linguaggio, ma il terreno fecondo su cui solamente possono fiorire e svilupparsi nuovi sensi e nuove parole. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione occidentale, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto per accogliere ciò che esso libera, ciò che offre non tanto all’interpretazione (ermeneutica), ma all’orientamento (esegesi)», e trovare il collegamento con quanto c’è a pag. 238 de La terra del male: «L’esegesi junghiana è questo tentativo; come il ta’ wil islamico essa è un ritorno promosso dalla persuasione che ciò che rimane nascosto e gelosamente custodito dal simbolo non costituisce il limite o lo scacco della coscienza, ma il terreno fecondo su cui solamente la coscienza può fiorire e svilupparsi. L’esegesi che così prende avvio non è mossa dall’ideale della ragione, che è poi quello dell’esplicitazione totale che elimina ogni nascondimento, ma, al contrario, custodisce il nascosto e accoglie dal nascosto ciò che esso libera, ciò che offre non all’interpretazione, ma all’orientamento», tutto sommato vuole solo acume e perseveranza, e Galimberti è rivelato. Con Scalfari non bastavano, perché l’impostura corre in diagonale lungo i suoi testi.
La tesi che Bucci intende dimostrare, a mio modesto avviso riuscendoci, è che, da quando «ha lasciato la direzione di la Repubblica ed è andato in pensione, nella mente [di Scalfari] si deve essere accesa una luce che gli ha indicato un percorso nuovo e difficile, [nell’intento di] lasciare ai posteri un’immagine di sé più alta e nobile di quella del semplice giornalista che, per quanto grande, ha pur sempre a che fare con la banale attualità [e] il modo più semplice per raggiungere l’immortalità deve essergli sembrato quello di trasformarsi in saggista e di occuparsi in tale veste dei massimi sistemi [fatto sta che] i suoi libri, se risultano qua e là di un qualche interesse sul piano autobiografico, sono privi di qualsiasi valore sotto il profilo propriamente culturale, e questo per il semplice motivo che sono opere di un dilettante». Dove sta il problema? Bucci lo pone in esergo, con la folgorante formula di Alessandro Morandotti: «Il dilettante diletta solo se stesso».
I più tragicomici infortuni di questa pratica autoerotica sono evidenziati da Bucci fin dall’Introduzione, dove dimostra quanto siano contraddittori i significati che Scalfari affida di volta in volta a due termini come universalità e modernità, e per una semplicissima ragione: il bignamino dal quale il pensatore attinge è ogni volta diverso. Non meno tragicomici sono gli infortuni in cui Scalfari incorre ogni volta che deve far quadrare ragione con morale, natura con storia, libertà con progresso, e qui mi pare che Bucci colga il quid dal quale discendono il tragico e il comico: Scalfari si dibatte nel guscio vuoto del sistema crociano, e non riesce a liberarsene.
Molto ancora si potrebbe dire intorno a Eugenio Scalfari, l’intellettuale dilettante: sulla linearità dell’argomentazione, sull’uso discreto dell’ironia, sulle riflessioni che punteggiano il testo col ricorso all’autorità del mero buonsenso. Ma qui mi fermo, consigliandovene la lettura.
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