C’è una
particolare forma di ricorso all’autorità, inteso come fallacia argomentativa, che
consiste nel dimostrare insostenibile una tesi trovata non pienamente
dimostrata in chi se ne faccia autorevole sostenitore. In pratica, si tratta del ricorso ad
un difetto dell’autorità che sostenga quella tesi nel tentativo di dimostrare come
vera quella opposta. Ora noi sappiamo che argomentare è uno strumento di
persuasione e che il fine di persuadere può servirsi di ogni mezzo, retto o
scorretto, valido o invalido. Non ci dobbiamo stupire, quindi, se questa
particolare forma di fallacia sia pratica comune di chi sostiene tesi opposte
riguardo a questioni di consistente rilevanza. Ma forse è meglio ricorrere a un
esempio per penetrare il movente psicologico che spinge all’uso di questo strumento retorico, e io penso che la secolare disputa sull’esistenza di
Dio sia quello migliore.
Così, chi crede che Dio non esista riterrà argomento
estremamente persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è
autorevole assertore della sua esistenza, anche laddove questo difetto si manifesti
in una più o meno palese incongruenza tra il dire e il fare: è il caso in cui si
tenta di dimostrare che Dio non esiste perché il tal gran teologo va a puttane
o perché la tal pastorella che ha visto la Madonna mostra franchi sintomi di
psicosi. Di converso, chi crede che Dio esista riterrà argomento estremamente
persuasivo il segnalare un difetto di argomentazione in chi è autorevole
assertore della sua non esistenza. Qui, però, la casistica si apre in un
ventaglio assai più ampio: si va dal ritenere dimostrato che Dio esista con la
conversione in punto di morte di chi per una vita intera è stato autorevole
sostenitore della sua non esistenza, ma pure per il fatto che ancora in vita,
sbattendo con lo stinco contro un tavolino, una volta abbia esclamato: «Per
Dio!».
Bene, suppongo non occorra produrre documentazione per asserire che,
mentre è sempre più raro da parte degli atei il ricorso a questa fallacia, da
parte dei credenti è diventato un vero e proprio sport. Ormai sono decenni che
intere squadre di esaltati in missione per conto di Dio passano al setaccio le
biografie e i testi dei più prestigiosi senzadio della storia alla ricerca, se
non della pepita d’oro di una fede inconscia da far splendere ripulendola del
fango nel quale era immersa, almeno della scaglia di quarzo che con la luce
giusta, vista di sguincio, possa sembrare, se non fede, un suo embrione. È qui
che il movente psicologico cui facevo cenno prima si rivela nella sua pienezza,
perché in fondo l’ateo che ritiene di poter dimostrare che Dio non esista
compilando elenchi di papi sifilitici o di mistici intossicati da pagnotte di
segala contaminata da Claviceps purpurea è figura eroica di tempi ormai andati,
più unica che rara, mentre invece il credente che ritiene di poter dimostrare l’esistenza
di Dio nelle più diafane sfumature di fede intravviste in pensieri, parole,
opere e perfino omissioni di famosi miscredenti è tuttora militante in servizio
permanente, e lo si trova lungo tutto il carotaggio del pluristratificato mondo
cattolico, dal cardinale che sembra un Bacio Perugina, per come è sempre avvolto
nel cartiglio di una citazione, al blogger che per testata ha il santino di Padre
Pio, e cerca di dimostrarti che in Zarathustra c’è tantissimo di San Giovanni
Battista. Con una così ampia campionatura il lavoro è agevole e il risultato non
fa fatica ad essere acquisito: il movente psicologico del credente che si
prefigge di dimostrare che anche l’ateo – in fondo, in fondo, in fondo – ha fede
è quello di esorcizzare ogni suo dubbio e, in generale, fare del dubbio un
corollario della prova ontologica di Sant’Anselmo.
Secondario, ma non meno
pressante, è il tentativo di neutralizzare l’opinione corrente, a dispetto del
revival del sacro, che la fede sia il vicolo cieco in cui va a rifugiarsi la
ragione che non ha risposte da dare al mistero, che d’altronde non le pone, perché muto e sordo. È opinione
corrente che ha contaminato anche i cattolici, e anche quelli più attrezzati,
al punto che ormai alla teologia dogmatica preferiscono la precettistica morale.
Capita anche a loro, in qualche modo, quello che capitò ai neofascisti quando
divenne egemone la cultura marxista: rimanevano neofascisti, ma si dibattevano
come mosche nella ragnatela del materialismo dialettico. Da questo punto di
vista, potremmo dire che il fronte più avanzato della secolarizzazione sta
proprio in chi vi si oppone.
Ma qui divago, peraltro questo è tema che ci
porterebbe lontano, cioè dentro quel cattolicesimo che – mi si conceda il
paragone – ormai non è più Oriente di quanto non lo sia l’orientalismo.
Torniamo a noi, dunque.
Torniamo a chi ritiene di poter dimostrare che Dio
esista (in subordine: che non esista, ma sia necessario) rintracciandone un
qualcosa (e non importa cosa) in atei dichiarati, anche se il lavoro è più
agevole con gli agnostici o con quanti, pur avendo dichiarato in vita di non
credere in Dio, abbiano lasciato traccia di un ruttino metafisico, d’un
qualsiasi senso del sacro che possa manipolarsi in una pur incompiuta forma di
agnizione del divino, d’un «Madonna mia, come piove, oggi!». Non importa cosa
fossero in vita, l’importante è che siano famosi, per farsi esemplari, e via a
pettinarne le chiome nella speranza di trovare il Gran Pidocchio. Lena uguale e
contraria che si osserva in chi ritiene che la legittimità della scelta
omosessuale si faccia più legittima nell’elenco di famosi omosessuali come
Socrate, Leonardo, Michelangelo, ecc. Così nel caso de Il Foglio, che, dopo
Camus e Lacan, ieri ci provava con Sciascia. Il quale, a onor del vero, si è
fatto lavorare assai più malleabilmente.
«Ho sempre pensato che non è facile
essere atei, totalmente e rigorosamente atei»: se era difficile per lui, con
quale ottusa arroganza puoi dichiararti tale, tu? «Mi sento cristiano, checché ne
dicano i preti»: detto come l’avrebbe detto Benedetto Croce, ma, insomma, fa
brodo. Voilà, pur sempre in qualcosa credente, «lo scettico Sciascia». Hai voglia
a dire che «c’è un solo, vero e fervido segno di religiosità, di religione che
mi pare scenda oggi nel cuore degli uomini ed è il desiderio e la speranza
della pace»: anche in quelli, gratta e gratta, non può esserci che Dio.