Sono
passati undici anni da quando gli italiani furono chiamati a
esprimersi sulla legge 40/2004, ma per me è come fosse ieri, perché
la gran parte delle mie odierne convinzioni relative a società,
politica e diritto hanno fondamento nella lezione che ho tratto da
quella tornata referendaria, e fu lezione durissima.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento l’approvò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dell’ovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nell’obiettivo di far mancare il quorum con l’invito all’astensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento l’approvasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con l’illegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso l’errore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento l’approvò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dell’ovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nell’obiettivo di far mancare il quorum con l’invito all’astensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento l’approvasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con l’illegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso l’errore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.