Presi
come eravamo
dallo scannarci su una questione tutto sommato frivola quale era la
revisione di una quarantina di articoli della Costituzione, non
abbiamo dato la dovuta attenzione a quella che sarebbe stata la più
grave conseguenza di una vittoria del No, anzi, se proprio vogliamo
essere onesti, nemmeno l’abbiamo
presa in considerazione, e ora eccoci a doverne sopportare il peso sulla coscienza: anche se non ha tenuto fede all’impegno
di abbandonare ogni attività politica nel caso in cui la sua riforma
costituzionale fosse stata bocciata – cose che si dicono, via – a
Renzi è bastato dimettersi dalla Presidenza del Consiglio per
restare senza uno stipendio: non è parlamentare, lo statuto del Pd
non contempla una mesata per il Segretario, Nardella non può
restituirgli Palazzo Vecchio come Gentiloni gli ha promesso di fare
con Palazzo Chigi, né il babbo può riassumerlo perché intanto la
Chil post ha avuto un crac: «non
ho uno stipendio, non ho un vitalizio»
– scrive su Facebook – un esodato, insomma, ma a considerare
l’esiguità
delle misure che il suo governo ha preso in favore delle famiglie
monoreddito, la faccenda non pone alcun problema: a casa
Renzi uno stipendio arriva, perché sulla Gazzetta Ufficiale era
ancora fresco l’inchiostro
con cui era andata in stampa la Buona Scuola, quella che dà ai
presidi la discrezionalità della chiamata diretta, e l’Agnese
fu chiamata, e assunta a tempo indeterminato, per merito
naturalmente, honni soit qui mal y pense, un po’
come capitò al babbo della Boschi, che fu chiamato alla
vicepresidenza di Banca Etruria quando la figlia diventò ministro,
ma solo 3'16" dopo, a svergognare ogni malevola insinuazione.
D’altra
parte le foto di Chi danno ragione alle politiche economiche del
governo Renzi: anche con un solo stipendio, in Italia, nessuna famiglia resta
senza pandoro, a Natale. Questo in gran parte ci consola, perché è vero che, votando No, abbiamo lasciato Renzi senza stipendio, ma per fortuna il paese
ha degli ottimi ammortizzatori sociali. Non si lamentassero, ’sti disoccupati.
giovedì 29 dicembre 2016
Pazienza
Su
queste pagine mi sono misurato in diverse occasioni con quelle
congetture più o meno balzane che di tanto in tanto propongono
letture alternative di grandi opere d’arte
del passato, per lo più con la pretesa di rivelarci messaggi che gli
autori avrebbero voluto celare in esse con tale cura da averne fin lì
impedito la lettura a intere generazioni, per ragioni che spesso
restano senza spiegazione anche dopo la rivelazione, mentre talvolta
ne vengono fornite di così bislacche da far miseramente rovinare
l’impianto
dell’ipotesi
avanzata, già di per sé assai instabile, per quanto in certi casi
di qualche indubbio fascino.
Quanta buona fede vi sia nel credere di
aver fatto una sconvolgente scoperta del genere è questione che si
potrebbe pure ritenere irrilevante, ma che assume il suo bel peso nel
constatare che quasi sempre l’opera
d’arte
e il suo autore sono famosissimi: mai una volta che la scoperta sia
relativa all’opera
di un autore minore, la rivelazione pretende sempre di fare il botto
su Leonardo, su Michelangelo, su Caravaggio, d’altronde
a chi mai potrebbe interessare il reale significato di quel «nemo
in patria sua aceptus»
che si legge sullo zoccolo della gabbia in cui è rinchiuso un
pappagallo nella tela di Pier Francesco Cittadini (1616-1681)
riprodotta a pag. 39 del numero di ottobre 2013 della
casa d’asta Dorotheum e messa all’incanto al vil prezzo di base
di soli 25.000 euro? Per il professor Alberto Cottino «the
inscription may refer to the sitter or the collector, possibly a
refugee from another country or italian state, who commissioned the
present painting», ma – beccatevi ’sto scoop – non è così:
posso dimostrarvi in meno di 12.000 battute spazi inclusi che il
riferimento è al Canto XIII dell’Adone
di Giovan Battista Marino, nel quale Adone è trasformato appunto in
pappagallo da Falsirena.
Scherzavo, se non si è capito. Volevo solo
farvi un esempio di come una scoperta del genere otterrebbe solo una tiepida pioggerellina di «e ’sti cazzi!». Altra cosa, converrete, se
avessi detto che ho le prove che furono gli alieni a suggerire a
Leonardo il progetto di quello che tutti fin qui hanno pensato fosse
un prototipo di carrarmato.
Molti mi manderebbero a cagare, qualche
mattocchio potrebbe prendere per buoni i miei argomenti, ma in ogni
caso avrei ottenuto l’attenzione che volevo. In questo genere di scoperte, in fondo, è attiva la stessa vis creativa che interpreta un accadimento come il risultato di un complotto: impossibile negarlo senza con ciò dimostrarsene vittima o, peggio, complice, mentre l’onere della prova inconfutabile pare che passi da chi prospetta l’ipotesi a chi la rigetta, e nessuna obiezione è mai del tutto valida a rigettarla, perché in fondo chi può portare prove inoppugnabili che gli alieni non esistano e non abbiano suggerito a Leonardo il progetto di quella che in realtà è una navicella spaziale? Perché ti ostini a escluderlo?
Così
temo sia accaduto per chi ha creduto di poter dimostrare che, nella
Creazione
di Adamo
affrescata
sulla volta della Cappella Sistina, Michelangelo Buonarroti abbia
voluto «inscrivere
il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano».
Sulla questione mi sono già intrattenuto con un post (La
bufala di Michelangelo neurologo
– Malvino, 9.2.2014) che a oltre due anni e mezzo dalla sua pubblicazione –
così mi avverte la pagina delle statistiche di accesso al blog –
continua a esser molto letto e linkato qui e lì, ricevendo critiche
che penso possano essere ben riassunte dall’ultimo
dei commenti al post, di appena due giorni fa, che qui riporto
integralmente: «Mi
scusi, ma il fatto che una prima descrizione anatomica del cervello
sia stata pubblicata a stampa nel 1664 non significa che prima di
quella data (anche molto prima) tali studi anatomici non erano stati
fatti. Anzi, proprio perché la prima grande pubblicazione in materia
avvenne nella seconda metà del XVII secolo, mi sembra molto
probabile che gli studi fossero iniziati da almeno un secolo. È vero
non ci sono prove che Michelangelo conoscesse la forma della sezione
sagittale del cervello, ma fossi in lei non liquiderei la questione
solo avendo a disposizione come argomentazione che il Cerebre Anatome
fu pubblicato nel 1664. La
somiglianza con il cervello, una volta fatta notare è sorprendente.
Potrebbe essere pareidolia ma potrebbe anche non esserlo. Questo
fatto non andrebbe bollato come bufala, tutt’al
più come una congettura» (Boulayo). Toni civili. Argomenti che, pur trascurando molto di quanto da me ampiamente spiegato in quel post, meritano comunque di essere presi in considerazione. E dunque.
Inizierei dalla fine, perché è lì che mi pare ci sia il fondamento della questione, che poi è quella relativa al metodo che dà o non dà solidità a una congettura. «Potrebbe essere pareidolia ma potrebbe anche non esserlo», dice Buolayo. Certo, ma a chi tocca l’onere della prova per escludere che lo sia? E cosa impedisce di chiamarla bufala quando l’ipotesi non regge, e tuttavia non viene ritirata? Quando la congettura è fallace già in premessa, non assume forse modo e fine dell’affermazione ingannevole? E non è forse sulla verosimiglianza di quanto si afferma che l’inganno può sperare di andare a segno?
Mai poi è davvero così «sorprendente» la somiglianza tra le linee che compongono il disegno della Creazione di Adamo relativamente al gruppo di Dio con gli angeli e quelle che si osservano sulla sezione sagittale mediana di un cervello umano? Il manto che fa da sfondo al gruppo ha senza dubbio un forma che in parte – ma solo in parte – può essere sovrapponibile al contorno della massa cerebrale, ma, se è per questo, anche a quello della conchiglia di un lamellibranco Pecten jabobeus: cosa impedirebbe, a questo punto, di ipotizzare che Michelangelo abbia voluto dare del mollusco al Padreterno?
Nelle linee che compongono il disegno della Creazione di Adamo relativamente al gruppo di Dio con gli angeli, dove sarebbe il cervelletto? E il Ponte di Varolio? E perché l’asse del corpo calloso è spostato così in alto? Perché il bulbo mesencefalico ha forma tanto diversa?
Ma trascuriamo tutto questo, perché chi a ogni costo vuol vedere la faccia di Padre Pio in una macchia di umidità sul soffitto di una cantina difficilmente può essere convinto che si tratta di un’infiltrazione d’acqua dovuta allo scarico del bidet che perde al piano di sopra. Veniamo alla materiale possibilità che Michelangelo avesse entro il 13 ottobre del 1512, data di completamento dei suoi affreschi della volta della Cappella Sistina, nozioni di anatomia del cervello umano relativamente alla sua sezione sagittale mediana.
Una decente descrizione di questa sezione si ha soltanto nel 1664, con Willis. Prima ci sono Vesalio, Varolio, Cartesio, Malpighi, ma tutti arrivano dai 30 ai 110 anni dopo la descrizione che Michelangelo ne darebbe nella Creazione di Adamo. E tuttavia, sì, gli studi anatomici sul cervello umano sono di molto antecedenti. Ve n’è, fra questi, qualcuno che possa aver fornito al Buonarroti le nozioni necessarie a «inscrivere il gruppo di Dio e degli angeli nella sagoma di un cervello umano»? In fondo non gli erano contemporanei degli studiosi che ci hanno lasciato i risultati dei loro studi di anatomia cerebrale? Quel Berengario da Carpi, per esempio. Non è che dia una descrizione della sezione sagittale mediana, ma non fornisce indicazioni per desumerla almeno con qualche approssimazione?
Sì, peccato però che pubblichi le sue scoperte solo dieci anni dopo che Michelangelo ha affrescato la volta della Cappella Sistina, e non c’è notizia che si siano mai incontrati.
Leonardo, allora. Forse che Leonardo non ha lasciato risultati dei suoi studi anatomici? I due, poi, si conoscevano.
Certo, peccato però che si detestavano. Una vecchia ruggine relativa al David. Michelangelo non perdonò mai a Leonardo di aver trattato con sufficienza, e sufficienza è dir poco, quel bel tocco di marmo. «Ohilà, messer Buonarroti, che piacere vederla qui a Roma. Perché stasera non viene a desinare meco? Ho da farle vedere i miei studi anatomici sul cerebro umano, così poi, nel caso, ci cava qualche idea pe’ le su’ cosucce, che ne dice? Se non ci si dà una mano tra noi sodomiti...». No, pare poco credibile.
Ma poi perché su questa benedetta sezione sagittale mediana del cervello non c’è uno straccio di descrizione fino a XVII secolo inoltrato? L’ho già scritto: fino alla «prima metà del Cinquecento si sapeva poco o nulla dell’anatomia del cervello, e per una semplicissima ragione: non si era ancora giunti ad approntare un valido allestimento del tessuto cerebrale in grado di consentirne lo studio macroscopico. Trattandosi di un organo che va incontro a fenomeni degenerativi in tempi brevissimi dopo il decesso, all’apertura della scatola cranica gli anatomisti dell’epoca trovavano al più solo un’informe poltiglia. Non è un caso, infatti, che fino alla metà del Seicento gli studi anatomici relativi al sistema nervoso centrale rendessero conto solo delle formazioni più resistenti ai processi putrefattivi post mortem, come i nervi cranici e il tronco encefalico, mentre il rilievo delle formazioni incluse nelle masse emisferiche trova solo riscontro occasionale e per giunta controverso». Dice niente il fatto che quanto di meno controverso v’è riguardi esclusivamente l’architettura del sistema liquorale?
Ma questo mi rendo conto che non possa bastare a dissuadere definitivamente chi abbia a cuore sostenere la solidità della congettura di un Michelangelo neurologo. Pazienza.
lunedì 26 dicembre 2016
[...]
Non
riesco a trovare sugli ultimi numeri dell’edizione
cartacea de Il
Foglio
l’articolo
datato 22.12.2016 a firma di Giuseppe Bedeschi cui mi rimanda il link
allegato a un tweet col quale @ilfoglio_it
lo segnala alle 9:20 del 26.12.2016, e già questo m’instilla un po’
d’inquietudine:
non l’ho
trovato perché so’
cecato o s’è
consumata l’imperdonabile
scostumatezza di negare l’imprimatur
a un accademico di così preclara fama? Nulla rispetto
all’inquietudine
che monta in me scorrendo l’articolo, e che provo a rintuzzare
ipotizzando che il Giuseppe Bedeschi che l’ha scritto sia un
omonimo, semmai un nipote, del cattedratico che per decenni si è interessato del pensiero
liberale. Questo qui, infatti, scrive che «la
nostra Costituzione non parla di potere giudiziario, bensì di
“ordine giudiziario” (art. 104)»,
ma quando lo stesso articolo prosegue dichiarandolo «autonomo
e indipendente da ogni altro potere»,
quell’«altro»
non
gli conferisce levatura pari a quella del potere legislativo e di
quello esecutivo? Donde nasce, d’altronde, la classica
tripartizione che sta a fondamento dello stato di diritto se non dal
distinguere e separare le tre funzioni della sovranità che invece
ogni forma di dispotismo vuole indivisibili? Ed è credibile che
questa separazione possa dirsi bilanciata, com’è fin dallo scopo
che essa si dà, con l’assegnare potere solo a due delle tre parti
in cui la sovranità va suddividersi?
Il Bedeschi che firma il
pezzo su ilfoglio.it,
omonimo o nipote che sia del Bedeschi che ha consumato tutta la sua
vita nello studio del pensiero liberale, dice che su questo tavolino
a tre gambe, di cui una dev’essere più corta delle altre due,
lo stato di diritto reggerebbe bene lo stesso, anzi addirittura meglio.
D’altra parte, aggiunge, Montesquieu non lo si è mai letto come si
deve, e «molto
erroneamente gli si attribuisce una dottrina della “divisione dei
poteri”»,
perché
ne
De
l’esprit des lois
tratta del potere giudiziario «con
molta circospezione».
Sia, passiamo a considerare in cosa consista, questa «circospezione»,
ma prima sia lecita una domanda: mentre, tutto circospetto,
Montesquieu affronta la questione, smette mai di dire che quello
giudiziario è un potere? Mai. Nel solo Capitolo VI del Libro XI, quello nel quale si affronta di petto la questione della tripartizione, l’espressione
«potere
giudiziario»
ricorre almeno quattro volte, se non so’ cecato e non me n’è
sfuggita una quinta. Ed è vero che Montesquieu lo vorrebbe, «per
così dire, invisibile o nullo»,
come l’articolo
su ilfoglio.it
ci rammenta, ma in un contesto nel quale – qui il Montesquieu lo
cito io – «uno
dei grandi inconvenienti della democrazia»
è che «il
popolo non è per nulla adatto a discutere gli affari pubblici»,
sicché «non
deve entrare nel governo che per scegliere i propri rappresentanti», precisando peraltro che «il
corpo rappresentativo non dev’essere scelto per prendere qualche
risoluzione attiva, cosa che non farebbe bene»,
ma solo «per
emettere le leggi»
e «per
vedere se sono state eseguite a dovere»,
ma sia chiaro che «adattissima
a produrre questo effetto è la parte del corpo legislativo composta
dai nobili»,
e che «il
corpo dei nobili dev’essere ereditario».
Qui sia consentito un inciso. Diciamo che il liberalismo non nasce molto democratico, né lo diventa subito, basti pensare a cosa scriverà Tocqueville cent’anni dopo: «Ho per le istituzioni democratiche un gusto della mente, ma sono aristocratico per istinto, cioè disprezzo e temo la folla. Amo con passione la libertà, la legalità, il rispeto dei diritti, ma non la democrazia» (Mon instinct, mes opinions – 1841). D’altronde, via, anche la democrazia non nasce propriamente democratica, basti pensare all’Atene del V secolo a.C., nella quale la schiavitù era la più evidente contraddizione al principio di eguaglianza di diritti e di doveri. C’è poco da stupirsi, quindi, se quello descritto da Montesquieu non ci pare affatto uno stato propriamente liberaldemocratico, tutt’al più c’è da aspettarsi che questo offra il fianco alla critica di scuola marxista che nel liberalismo vede un subdolo strumento di oppressione della borghesia e bla-bla-bla. E tuttavia si noti bene che, pure in un contesto come quello che abbiamo ritagliato dalle citazioni prese dal De l’esprit des lois, Montesquieu non nega mai la prerogativa di «potere» alla funzione giudiziaria.
Ma torniamo all’articolo. Prende spunto dall’autospensione che, in seguito a un avviso di garanzia, il sindaco di Milano si è autosomministrato per meno di una settimana: è accaduto che Il Foglio si è precipitato a scrivere che questo è «il
termometro di un’incapacità della politica a saper resistere al
potere mostruoso esercitato dalla magistratura», e il Bedeschi si precipita a ribadirlo ricorrendo all’autorità di uno dei «grandi pensatori liberali», il Montesquieu giust’appunto.
Già, ma come si porrebbe, il Montesquieu, dinanzi a un caso come quello di Milano? Semplice a dirsi: «i
grandi sono sempre esposti a invidia, potrebbero trovarsi in pericolo
se giudicati dal popolo»,
e quindi è il caso che «i
nobili non siano chiamati a comparire davanti ai tribunali ordinari
della nazione, ma davanti a quella parte del corpo legislativo che è
composto da nobili». Nemmeno davanti a tutto il corpo legislativo, ma solo davanti alla parte
composta dai suoi pari, e pari per diritto ereditario. E qui ritengo si possa evitare di andar oltre, supponendo si sia data piena giustificazione della
fama di «grande pensatore liberale» che Montesquieu si è guadagnato presso i liberali
di tipo bedeschiano.
Ultima citazione, anche in questo caso tratta dall’opera di un nobile, non barone come Montesquieu, né visconte come Tocqueville, ma addirittura principe. Di Bisanzio, per la precisione.
domenica 25 dicembre 2016
[...]
Solo
un farabutto può rimanere insensibile all’amarezza che gronda
dall’intervista che Giorgio Napolitano ha concesso a Mario Ajello
per Il Messaggero di giovedì 22 dicembre, ma per trarne
godimento, laddove dell’emerito
non si sia mai tollerato l’indebito
esorbitare dalle sue prerogative istituzionali, si dev’essere
proprio un mascalzone, e una vera carogna, poi, per goderne al punto
da lasciarsi scappare, per grata riconoscenza all’annuncio
del suo ritirarsi a vita privata, quel solenne «vafammoccammàmmete!» che
nella suburra sta a sigillo d’ogni estremo congedo. Niente di tutto questo da noi che siamo
d’animo nobile e d’indole gentile, mancherebbe altro. Letteralmente: mancherebbe altro.
sabato 24 dicembre 2016
Rectius
Spesso
rinuncio a intervenire in dibattiti che sollevano questioni sulle
quali mi sono già ampiamente espresso in precedenza, ma nel caso
posto dalla campagna che Il Foglio pare aver intrapreso per
sollecitare un tribunale a dichiarare «l’illegittimità
costituzionale del Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto
Casaleggio»
(non si era detto che la stampa fa sempre troppa indebita pressione
sulla magistratura?) credo valga la pena tornare al punto in cui
rilevavo che «i partiti italiani – tutti, quindi non fa
differenza se rigettano la denominazione, preferendo quella di
movimento – sono enti di fatto, non persone giuridiche, e come tali
non hanno da dover render conto a chicchessia dei loro statuti, né
di come è retta la loro vita interna»
(Malvino, 9.8.2016).
Su queste pagine non si sono mai risparmiate critiche al M5S,
talvolta anche feroci, e tuttavia spesso ho dovuto respingere con
fermezza l’insinuazione che io
gli riservassi qualche simpatia solo per aver scritto che molti suoi
avversari non avevano alcun diritto a muovergliene di simili.
Con
quale faccia tosta un radicale può dare del settario a un grillino,
Forza Italia può accusare il M5S di essere un partito-azienda,
Salvini definire Grillo populista? Con quale faccia tosta un De Luca
può avere da ridire su un Di Battista, un Orfini su un Di Maio, una
Picierno su una Taverna? Con quale faccia tosta si possono sollevare
critiche sulla democrazia interna al M5S, sulla gestione del suo
simbolo, sull’amministrazione
delle sue risorse, da dirigente, militante o anche semplice elettore
di un partito che non gli è per niente diverso, e in più si pappa
ogni anno diverse milionate di denaro pubblico?
Lasciamo perdere, mi
stavo facendo prendere la mano, torniamo alla brillante idea di sciogliere il M5S perché dentro non c’è
abbastanza democrazia (per inciso: dalle pagine di un giornale
fondato da uno che nel Pantheon ci ha accatastato Togliatti, Craxi,
Berlusconi, Benedetto XVI e Renzi, che nelle rispettive ditte, si sa, hanno sempre fatto respirare democrazia a pieni polmoni).
Ripetendomi: è fattualmente
impossibile, e giuridicamente illegittimo, metter naso nella vita
interna di un partito o di un movimento fino a quando non si
procederà a ridefinirne la natura, conferendogli l’onere di persona giuridica. Fino ad allora, «la loro linea politica continuerà ad
essere tracciata a dispetto delle tesi congressuali e dei programmi
elettorali, potendo così continuare a tradire la volontà dei loro
elettori e degli stessi iscritti; ruoli e incarichi continueranno ad
essere assegnati per cooptazione, sulla base del solo merito di una
fedeltà da ottusi gregari, che è il miglior modo per selezionare la
peggior classe politica; a compilare le liste elettorali
continueranno ad essere i membri di segreteria; a disporre della
cassa, per lo più piena di denaro pubblico, continuerà ad essere
chi di fatto – e in sostanza anche di diritto – è padrone del
partito». E nel caso del M5S si potrà arrivare perfino al
paradosso che sarebbe l’ultimo a
dover esser sciolto. Può darsi che sia questa la ragione per cui in
Parlamento non è mai arrivato in discussione un disegno di legge che
conferisca l’onere di persona
giuridica ai partiti politici.
Resta tuttavia la necessità di far
fuori il M5S in qualche modo, capisco, e pare non basti rimangiarsi
l’Italicum, che adesso non va
più bene solo perché i sondaggi dicono che favorirebbe la discesa
degli Hyksos: occorre altro, e non si sa bene cosa, sicché si procede a tentativi, senza tener conto che probabilmente è proprio il non riuscire a trovarne uno efficace – rectius: democraticamente efficace – a renderlo sempre più forte.
giovedì 22 dicembre 2016
Simply clever
Quando
si è dentro al cambiamento, è pressoché impossibile aver piena
comprensione della sua portata, tanto meno prevedere quali ne saranno
i tempi e i modi, e ancor meno prospettarne gli esiti. Già è tanto
riuscire a cogliere alcune delle forze in atto, tentare di
individuarne i vettori, costruire gerarchie di probabilità, ma
nutrire convinzioni su quella che ne sarà la direttrice, o
addirittura darle solidità di visione, non è che una scommessa: ci
si può azzeccare, e allora ci si guadagna fama di profeta, oppure
no, ma almeno l’ansia
si è stemperata in letteratura di evasione.
Altra
cosa, ovviamente, è osservare il cambiamento dall’esterno,
e altra ancora è analizzarne lo sviluppo e il risultato quando il
processo può dirsi concluso, dove comunque nulla garantisce una
migliore comprensione di cosa stia cambiando o sia cambiato, e di
quanto, e di come, per limitarsi a esserne condizione minima
necessaria.
A voler essere pignoli, in realtà, nessuna osservazione
prescinde mai del tutto dall’osservatore,
che inevitabilmente altera sempre ciò che intende analizzare per il
solo fatto di doverci necessariamente metter mano. In tal senso, anche senza dover ricorrere ad esempi come l’entanglement
di Schrödinger o il controtransfert di Freud, potremmo
dire che si è sempre dentro al cambiamento che si intende
comprendere, sia quando è in atto, sia quando è già compiuto, e
nondimeno il bisogno di capire resta: la certezza di non poter mai
cogliere del tutto l’essenza
del fenomeno non può paralizzarci, abbiamo il dovere di produrre
modelli sempre migliori, pur rassegnandoci a sapere che non ne esiste
uno perfetto.
Ma quale soluzione ci è data quando il cambiamento
dentro il quale siamo ci ha sottratto ogni strumento per
produrre un modello di realtà che sia dotato almeno di una coerenza
di sistema? Non ci resta che la fierezza della contraddizione,
l’orgoglio
della confusione, l’esibizione
di un Io-ossimoro che si fa vanto di essere «poco
razionale», ma che nel saper «pensare con la sua testa» riesce a trovare, chissà come poi, garanzia di autocoscienza e di autodeterminazione.
Nessuno meglio di
un esperto in messaggi pubblicitari sa cogliere lo spirito dei tempi,
e allora ecco lo sproposito di un umanesimo «emozionalmente
pragmatico», sospeso nel vuoto lasciato dalla crisi dei «veri
valori» a urlare «sono», «posso», «voglio», senza saper dire
cosa, nella convinzione che questo basti a dargli senso,
«semplicemente».
Siamo davvero messi male, almeno questo mi pare emerga chiaramente dal monologo di uno che non sa neppure trovare il bandolo del groviglio che lo avvolge e tuttavia pare decisamente convinto che il solo agitarvisi dentro possa bastare a renderlo «clever». Consegniamo agli storici questo documento che meglio di ogni altro parla della nostra impotenza.
martedì 20 dicembre 2016
Giacché
Giacché
nel linguaggio corrente è sempre più frequente l’uso
di espressioni che invece fino a qualche tempo fa erano oggetto di
severo biasimo per il loro eccesso di colore, penso sia ipocrita
pretendere che ad astenersene debba essere proprio quel ceto politico
che di continuo si rimprovera di essere troppo distante dalla gente
comune, quindi ritengo sia del tutto fuori luogo dare addosso a
Giachetti perché ha dato del «faccia di culo» a Speranza: concedo
sia espressione forte, e anche volgare, ma non dimentichiamo che
«volgo» sta per «popolo» e che «culo» è usato anche da Dante
Alighieri (Inferno, XXVI).
In conclusione, direi che tutta questa indignazione nei confronti di Giachetti sia francamente immotivata: ritenendo spudoratamente incoerenti le odierne posizioni di Speranza sul Mattarellum rispetto a quelle che lo stesso sosteneva in passato, si è servito di un’immagine di forte impatto per dare maggiore efficacia alla propria riprovazione di tale atteggiamento, questo è tutto.
Non si trascuri, inoltre, che Giachetti nasce radicale, quindi ha nel sangue quella smania di visibilità mediatica che non si fa scrupolo di esser soddisfatta ricorrendo a provocazioni apparentemente estemporanee, ma in realtà assai ben studiate: cosa di meglio c’era, in una noiosa assise del Partito Democratico, per esser riscaldato dai riflettori dopo la gelata delle Comunali di Roma? Si chiuda un occhio, via, ché in fondo un «faccia di culo» non ha mai ucciso nessuno.
In conclusione, direi che tutta questa indignazione nei confronti di Giachetti sia francamente immotivata: ritenendo spudoratamente incoerenti le odierne posizioni di Speranza sul Mattarellum rispetto a quelle che lo stesso sosteneva in passato, si è servito di un’immagine di forte impatto per dare maggiore efficacia alla propria riprovazione di tale atteggiamento, questo è tutto.
Non si trascuri, inoltre, che Giachetti nasce radicale, quindi ha nel sangue quella smania di visibilità mediatica che non si fa scrupolo di esser soddisfatta ricorrendo a provocazioni apparentemente estemporanee, ma in realtà assai ben studiate: cosa di meglio c’era, in una noiosa assise del Partito Democratico, per esser riscaldato dai riflettori dopo la gelata delle Comunali di Roma? Si chiuda un occhio, via, ché in fondo un «faccia di culo» non ha mai ucciso nessuno.
Post hoc, ma soprattutto propter hoc,
andrebbe trovata un’espressione altrettanto pertinente per un tizio
– Giachetti, appunto – che prima mi fa
uno sciopero della fame per abolire il Porcellum, e poi mi vota
l’Italicum:
io direi «testa di cazzo».
[...]
Ho una
figlia che vive e lavora all’estero,
quindi credo di aver diritto a un’interlocuzione
diretta con Giuliano Poletti, che prima dice: «Il
paese non soffrirà ad averla più fra i piedi», e poi: «Chiedo
scusa, mi sono espresso male».
Volevo innanzitutto dirgli che è un
incommensurabile pezzo di merda e subito dopo, nel caso si ritenesse
offeso, assicurarlo che mi ha travisato.
[...]
Se
quella che Renzi ha offerto all’Assemblea
nazionale del Pd era la tanto attesa analisi della sconfitta
rimediata il 4 dicembre, provate a immaginare cosa sarebbe stata
l’analisi
di un’eventuale
vittoria, e quali reazioni avrebbe suscitato nella platea dell’Ergife. Cetre,
cimbali, siringhe, e fra due ali di folla scossa da orgasmi multipli, su un tappeto di petali di rosa, ecco avanzare il mastodontico
Io-Minchia del vincitore portato in spalla dai suoi fedelissimi. Una processione di quelle che Kerényi ci ha descritto in Dionysos, più o meno. E sarà pure bello aver salvato la Costituzione, ma è l’esserci risparmiati ’sta φαλλοφορία che non ha prezzo.
sabato 17 dicembre 2016
[...]
Al M5S resta un’unica scappatoia per non pagare a caro prezzo la leggerezza di aver candidato Virginia Raggi al Campidoglio, e chissà che non possa addirittura guadagnarci qualcosa: non più tardi di domenica o lunedì, deve ufficialmente chiederle di dimettersi, sperando che ella opponga una qualsiasi resistenza, anche blanda, fosse pure in forma d’indugio, per espellerla subito dal movimento e, a seguire, prodursi pubblicamente in una spietata autocritica, meglio se esagerando in severità e in contrizione, su quanto sarà il caso di presentare come un’imperdonabile concessione di autonomia decisionale, un cedimento alla logica che l’eletto non debba avere vincoli di mandato. Virginia Raggi dovrà necessariamente uscire a pezzi da questa autocritica: si dirà che troppo tardi si è compreso chi fosse davvero, che si è peccato di inescusabile leggerezza nel non saper comprendere per tempo di quali interessi fosse referente, eventualmente si concederà che per far breccia nell’elettorato benpensante si è ceduto alla tentazione di candidare un volto carino, ma questo sarà il caso di non dirlo esplicitamente. Di notevole importanza sarà ammettere che una prova come quella del Comune di Roma ha investito il movimento di una responsabilità sentita tanto gravosa da portare ad avallare la scelta di alcuni tecnici che il Sindaco assicurava fossero di grande competenza, con ciò attenuando la rigorosità del controllo sul loro profilo morale, sul loro mondo di appartenenza, ecc.: il M5S ammetterà di essersi fidato troppo di Virginia Raggi, di averla lasciata fare troppo, di non essere intervenuto prima, quando si faceva strada il sospetto che le sue decisioni fossero improvvide o addirittura eteroguidate, e che di questo chiede scusa agli elettori, assicurando che non accadrà mai più. Indispensabile, su questo punto, rimarcare la differenza con le altre forze politiche, respingendo col dovuto sdegno ogni tentativo di equiparazione.
mercoledì 14 dicembre 2016
[...]
Come poté, Michele Serra, prendere la tessera di un’associazione che appena cinque prima, nel 2006, in occasione del referendum sulla riforma costituzionale promossa dal centrodestra, si era apertamente schierata in favore del No e contro il Sì, per poi mobilitarsi a più riprese contro alcuni provvedimenti del governo Berlusconi, con ciò facendo quello che oggi, per l’aver assunto identica posizione in occasione del referendum sulla riforma costituzionale promossa dal governo Renzi, egli ritiene sia un uso indebito della sua funzione? O era un coglione allora, nel 2011, o è un ipocrita oggi, nel 2016.
martedì 13 dicembre 2016
[...]
Quando
sento i soloni della politica e della cultura, seguiti a ruota dai
loro epigoni in sedicesimo, lamentare che il web ribolle d’odio,
mi vien voglia di dir loro: zitti, per carità di Dio, state zitti,
ché senza il web tutto quest’odio
lo vedreste nelle strade, e invece della
gragnucola di tweet insultanti vedreste piovere sampietrini, invece
delle migliaia di like a un’invettiva rancorosa vedreste dei
linciaggi, lasciate che ogni esasperato possa sfogare tutta la rabbia
attraverso i cavi che collegano la sua incubatrice a questo
cyberspazio in cui ogni sollevamento popolare, ogni rivoluzione, ogni
guerra civile, si risolve in stragi e devastazioni tutte virtuali,
lasciando al potere chi ci stava, e nella merda chi ci resta.
E farei
loro l’esempio del governo Gentiloni, direi: non ci fosse internet
per sfogare la sacrosanta indignazione che nasce nel vedere che a
Palazzo Chigi s’insedia un esecutivo fotocopia di quello che venti
milioni di No hanno mandato affanculo il 4 dicembre, non avreste in
piazza a far danni materiali almeno un decimo di quanti su Twitter o
su Facebook la stemperano in uno zotico improperio o in un acido sarcasmo? Ma che dico, ne basterebbe un
centesimo per mettere a dura prova le forze dell’ordine, e senza
dubbio ci scapperebbe il morto, forse due, dieci, ventisette,
cinquantuno.
Non mi fraintendete: anch’io, come voi che presidiate
le rendite di posizione di chi da tempo ha svuotato di sostanza la
democrazia lasciandone solo il guscio vuoto, per giunta tutto
ammaccato, trovo inescusabili certe espressioni che grondano livore,
ma direi che vi convenga chiudere un occhio e lasciar scorrere,
riservandovi semmai un’altezzosa levata di sopracciglio sulla
bestiale volgarità della plebe che intasa i social network.
Lasciateli sfogare sulla tastiera, probabilmente a loro basterà
ancora per molto, e questo vi consentirà di continuare a preservare
il Palazzo. Sennò poi a chi potreste offrire consulenza?
Corrispondenze
[Qui
riporto quanto un lettore scrive nella pagina dei commenti al post
qui sotto e, a seguire, la mia risposta.]
Egregio
dottore, io fatico ancora a capire cosa c'era di sbagliato nel
ridurre il numero dei parlamentari, i costi della politica, gli
stipendi dei consiglieri regionali (che oggi guadagnano più del
Presidente degli Stati Uniti), abolire il CNEL, sopprimere le
provincie come greppia dei partiti modificandone l'assetto,
introdurre il referendum consultivo, garantire la governabilità di
un paese per 5 anni e un percorso legislativo più efficiente, con
data certa per la formazione delle leggi. Appartengo ai sognatori del
SI, e forse ho sbagliato - è un mio limite - ma tutti quelli con cui
ho parlato e che hanno votato no, mi hanno detto che l'hanno fatto
per delusione circa la politica economica di Renzi, perché sono
esasperati per la difficoltà a trovare lavoro, o per il problema dei
migranti, o per la buona scuola, o per tutta una serie di motivi che
nulla hanno a che fare con il merito del referendum. Alla domanda
"Cosa non ti convinceva della riforma proposta?" la
risposta era un imbarazzato cambio di argomento. A mio modesto parere
Renzi ha pagato l'errore strategico di trasformare il referendum in
un plebiscito sulla sua persona, l'eccessiva sicurezza sulla bontà
delle proprie ragioni, che è stata scambiata per arroganza, la
mancata percezione del grado di disperazione raggiunto da strati
sempre più ampi della popolazione e la scarsa sensibilità verso gli
umori della gente (vedi problema migranti), che con il voto hanno
inteso mandargli un potente segnale di malessere. Non sono cose di
poco conto, certamente, ma per contro va sottolineato come
l'agglomerato del no (non chiamiamola accozzaglia se no si offendono)
che spaziava dai neofascisti all'estrema sinistra, era unito solo dal
desiderio di defenestrare l'odiatissimo toscano, ma nessuno di loro
mi pare in grado di esprimere una proposta politica credibile ed
alternativa all'attuale maggioranza (tranne voler credere ai proclami
dei grillini, che ancora ci devono spiegare con chi vorrebbero
allearsi per formare un governo, o alle velleità di Salvini).
Smaniano per andare subito al voto con una legge sub judice e si
rifiutano di elaborarne un'altra. Grande prova di maturità politica.
Renzi non sarà il meglio che poteva esprimere l'Italia, ma nel
prossimo futuro io vedo solo il ritorno al proporzionale per fottere
Grillo e al consociativismo della prima Repubblica, e non vedo alcun
segno di progresso democratico in questo. Mi sbaglio?
Cordialmente
Giuseppe
G.
Sì,
si sbaglia. Sbaglia, innanzitutto, nel dare della riforma
costituzionale bocciata il 4 dicembre una descrizione infedele, in
tutto simile a quella spacciata dai propagandisti del Sì. Se fra gli
scopi della riforma c’era
veramente quello di ridurre il numero dei parlamentari, perché non
ridurre anche il numero dei deputati? In quale altro paese c’è
un rapporto 1:80.000 tra eletto ed elettore? Se fra i suoi scopi
c’era
quello di ridurre i costi della politica, perché non limitarsi a
dimezzare gli stipendi dei parlamentari? Di più: perché bocciare
ogni iniziativa legislativa fin qui promossa in tal senso? Le
risulta, poi, che la riforma contemplasse una riduzione degli
stipendi dei consiglieri regionali? E le risulta che, cambiando nome
alle province, chiamandole città metropolitane, venga ad essere
ridotto il controllo delle segreterie dei partiti sulle
amministrazioni locali? Pensa che a garantire la governabilità di un
paese per 5 anni (ma perché poi non per 10, per 15 o per 20?) debba
pensare la Costituzione? E allora perché non fare della legge
elettorale un suo articolo? In quanto al «percorso legislativo più
efficiente», scherza, vero? La riforma ne prevedeva una dozzina e
l’art.
70, quello relativo alle pertinenze del nuovo Senato, implicava la
necessità di un ricorso permanente alla Consulta per sanare i
conflitti di attribuzione in materia. Ma, poi, perché su tutto
questo avremmo dovuto decidere a pacchetto? E ancora, e prima, si
arriva alla revisione di un terzo della Costituzione nel modo in cui
ci si è arrivati? Senza alcun esplicito mandato popolare? Per
impulso di un Presidente della Repubblica che accetta la rielezione
solo se il Parlamento gli dà garanzia che la revisione sarà fatta?
E a promuoverne l’iter,
conducendolo poi come lo si è condotto, lei crede igienico sia
l’esecutivo? Lei si definisce un «sognatore del Sì», ma
la riforma non era un sogno: era un incubo. Dice che tutti
quelli con cui ha parlato e che le hanno espresso l’intenzione
di votare No le hanno detto che l’avrebbero
fatto per tutta una serie di motivi che nulla avevano a che fare con
il merito della riforma. E a chi vuole imputare questa impropria
strumentalizzazione del referendum? Chi l’ha
fatto diventare un voto sul governo? Chi lo ha insistentemente
personalizzato cercando di trasformarlo in un plebiscito?
Lei riconosce che questo sia stato un errore, ma pensa che Renzi l’abbia
pagato. E come? Sul piatto aveva messo il ritiro della politica e
invece si è limitato a dimettersi dalla Presidenza del Consiglio
pilotando la crisi verso un governo fotocopia del suo e presieduto da
un prestanome. Questo sarebbe il prezzo pagato per aver spaccato il
paese al solo fine di tentare un rafforzamento delle sue posizioni?
Mi fa venire il sospetto che abbia voglia di scherzare. Quando poi
dice che in Renzi abbiamo scambiato per arroganza l’eccessiva
sicurezza sulla bontà delle proprie ragioni, il sospetto è che voglia prendermi in giro. Avrà avuto modo di sentirlo nel faccia a faccia con
Giovanni Minoli: egli stesso fa ammissione di essere arrogante (e impulsivo e cattivo), e in
un modo molto compiaciuto che direi arroganza dell’arroganza.
Lei prosegue la sua difesa della riforma oltre termine massimo
concedendo che il tempo e le energie che il governo vi ha sprecato
sopra e attorno sarebbero state meglio impiegate nel cogliere il grado di
disperazione raggiunto da strati sempre più ampi della popolazione.
E le sembra poco? No, non le sembra poco, ma cosa le sembra che
bilanci tanta bestialità? Il fatto che chi ha votato No non sia in
grado di esprimere una proposta politica credibile ed alternativa
all’attuale
maggioranza. E che c’entra?
Sono diventate agglomerato, come benevolmente concede rinunciando a
dire accozzaglia, perché contrarie alla riforma, non perché
intenzionate a offrire un’alternativa
di governo. Forse che all’indomani
del referendum sul divorzio c’era da attendersi un governo guidato
dai radicali? Credo che lei debba chiarirsi un po’ le idee sul
significato che vuol dare al voto del 4 dicembre, perché mi pare
patente la contraddizione tra affermare che fosse in questione una
riforma costituzionale che chiunque poteva trovare buona,
indipendentemente dalla sua appartenenza a questo o quel partito e
dal sostegno a questo o quel governo, e poi pretendere che quanti
l’hanno trovata cattiva adesso abbiano il dovere di presentarsi
uniti alle prossime elezioni politiche. Lei trova che l’accozzaglia
– pardon, l’agglomerato – mostri l’insana smania di andare
subito al voto, probabilmente per incassare i dividendi della
vittoria del No. A me pare che questa smania sia più di Renzi e dei
suoi, convinti che il 40% di Sì andrebbe tutto al Pd, ma in entrambi
i casi si tratta di impressioni, penso si possa trascurare la
questione. Di certo c’è che la legge sub judice era quella che
tutta l’Europa ci avrebbe copiato, tant’era giusta e buona e
bella, e adesso fa paura innanzitutto a chi l’ha scritta perché
favorirebbe il M5S. Direi che con la riforma costituzionale bocciata
dal popolo e con quella della pubblica amministrazione bocciata dalla
Consulta faccia un trittico che illustra a dovere l’asineria di chi
le ha scritte. Renzi non
sarà il meglio che poteva esprimere l’Italia,
dice. Anche su questo non mi trova d’accordo:
penso che al livello in cui era caduta non potesse esprimere altro, e
che è difficile, ma non impossibile, possa anche far peggio. Sia
chiaro che, nel caso, questi ultimi due anni e mezzo si riveleranno essere stati determinanti.
lunedì 12 dicembre 2016
[...]
Fosse
morto, capirei la festa, ma Matteo Renzi è ancora vivo, ed è molto
più pericoloso adesso che prima, perché la bestia del narcisismo dà
il peggio di se stessa quando si rintana ferita. Non c’è ragione di far
festa, dunque, d’altronde si è solo evitato che scempiasse la
Costituzione: continua a mantenere il controllo del partito, del
parlamento e del governo, e in fondo cosa ha perso? Solo quel merdoso
sorrisetto che ci ha propinato a reti unificate ventiquattr’ore al
giorno, sette giorni su sette, per più di due anni e mezzo. E
dovrebbe bastar questo per far festa? Dovremmo credere che abbia
perso il controllo sull’informazione solo perché ora qualche
editorialista non gli lecca più il culo come gliel’ha leccato fino
alle 22,59 del 4 dicembre? Dovremmo credere che la sua cosca sia in
rotta solo perché al momento sul web i suoi picciotti non scaricano
più la lupara, come hanno fatto fino all’altrieri, su chiunque
azzardi un critica al loro boss? Siamo seri, via, l’avete sentito a
caldo? Gli è uscito un «non credevo che mi odiassero così» del
quale, a leggerlo come si deve, dovreste aver paura. Al pagliaccio sta colando via il trucco, ora
vedrete la sua vera faccia.
venerdì 9 dicembre 2016
martedì 6 dicembre 2016
Ma non subito
Era
training autogeno già alla vigilia, quando la paura di perdere
cominciava a incrinare la convinzione, maturata poi chissà come, che
il Sì avesse recuperato e fosse prossimo al sorpasso: si diceva che
in caso di sconfitta, che comunque poteva essere solo di stretta
misura, Matteo Renzi avrebbe avuto buon diritto di intestarsi quel
49, quel 48, quel 47 per cento, come espressione di una fiducia che
gli era rinnovata da mezza Italia, o quasi, mentre l’altra metà
gliela negava, certo, ma solo in forza dell’essere accozzaglia di
tutto il resto, roba buona a fare opposizione, ma incapace di
esprimere una credibile alternativa di governo.
Avesse
vinto il Sì, nessun problema: era chiaro, con ciò, che Matteo Renzi
avesse il consenso di più della metà del paese, che evidentemente
aveva voluto confermargli la fiducia che gli era stata espressa col
voto delle Europee del 2014. In entrambi i casi, le Politiche erano
da considerarsi mera formalità. Diventava irrilevante stabilire
quando indirle, altrettanto irrilevante stabilire con quale legge
elettorale tenerle, si poteva lasciar decidere a lui dell’una
e dell’altra cosa, secondo come
gli girava l’agenda.
Erano
i suoi a dargli voce, li avrete sentiti. Sgusciando la fava dal
baccello: «Di chi è la riforma
costituzionale? Sua, no? Giocoforza, allora, il Sì alla riforma sarà
un Sì anche a lui: la personalizzazione del referendum, dunque, è
più che legittima. Anzi no, come non detto, personalizzarlo è un
errore, non vi permettete di personalizzarlo. Mettendo da parte
l’antipatia nei suoi confronti, infatti, considerando il merito
della riforma, anche un elettore di Forza Italia o, perché no, del
M5S, se intellettualmente onesto, può trovarla buona, e votare Sì.
È chiaro, naturalmente, che poi andrà conteggiato come elettore che
vuole resti a Palazzo Chigi. Diciamo che la personalizzazione
continua ad essere legittima, ma solo per quanto può tornargliene di
comodo».
È
training autogeno anche adesso che la sconfitta si è rivelata assai
più pesante e, tutto sommato, poteva esserlo anche se il No avesse
vinto col 62, col 63, col 64 per cento, perché un uomo cui va il
consenso del 38, del 37, ma anche soltanto del 36 per cento di un
elettorato che ormai è tripolarizzato, può dirsi pienamente
legittimato a proporsi come più la credibile offerta di leadership
presente sul mercato. Solo l’Italicum
potrebbe mettersi di traverso, ma ci penserà la Consulta a
rottamarlo, e sì che era un gioiellino, tutta l’Europa
ce l’avrebbe invidiato. Presto,
allora, si voti.
Poi
c’è che il Sì ha raccolto il 40 per cento e 40 è un numero
portafortuna, perché è col 40 per cento che Matteo Renzi perse le
Primarie contro Pierluigi Bersani nel 2012 ed è col 40 per cento che
vinse le Europee del 2014: la fede cieca ci vede la fatale sinusoide,
dopo un 40 per cento con cui si perde c’è un 40 per cento con cui
si vince, e se ieri è col 40 per cento che si è perso, si vada
subito al voto perché sarà di certo col 40 per cento che il Pd
vincerà le Politiche.
È
impossibile capire quanto ci sia di qabbalàh in questo modo di
trarre indicazioni dal risultato del 4 dicembre, di certo trova un
senso pienamente intellegibile solo nella malata logica che assegna a
Matteo Renzi il ruolo di uomo indispensabile al paese, mentre in
realtà lo è solo ai suoi cortigiani, che continuano a reggergli lo
strascico anche adesso che dalla piazza s’è levata voce che il re
è nudo. Sono loro ad aver drogato per anni la sua autostima fino a
trasformarla in narcisismo paranoide, sono loro ad averlo portato
alle vette di un delirio, a tratti lucido, ma sempre meno, dal quale
ormai gli è consentito solo precipitare. Ma non subito. Mancano ancora le convulsioni, che di solito prendono tempo.
lunedì 5 dicembre 2016
[...]
Sono
note le ragioni che da qualche tempo rendono sempre meno attendibili
i sondaggi relativi alle intenzioni di voto, fino a materializzare
sempre più spesso il proverbiale granchio quando le opzioni si
riducono a due. C’è
innanzitutto il fatto che la
cosiddetta morte delle ideologie e la conseguente crisi dei partiti a
forte impronta identitaria hanno reso i corpi elettorali estremamente
fluidi. Per ottenere risultati più affidabili, quindi, sarebbe
necessario sondare campioni assai più ampi, ma questo comporterebbe
tempi troppo lunghi e costi spesso insostenibili: politica e
comunicazione corrono assai più in fretta di quanto abbiano mai
fatto, e non hanno più le risorse di cui godevano in passato.
Ma
accanto a questi fattori ve ne
è
un altro che non sembra affatto irrilevante, visto che sempre più
spesso viene chiamato in causa per dar ragione di errori di
previsione che talvolta arrivano ad essere tragicomicamente vistosi: sono sempre più numerosi, fra quanti sono contattati dagli istituti di
rilevamento, coloro che rifiutano di esprimere la propria
intenzione di voto o addirittura ne dichiarano una che non corrisponde a quella reale.
Su perché questo accada non c’è
unanimità di parere, ma sembra che sia preminente il timore di
esprimere un’intenzione
di voto che si ritiene possa incorrere in un maggioritario giudizio
di deprecazione: «C’è
chi mente per vergogna», ha sintetizzato Oscar Mazzoleni, che
insegna Scienze politiche all’Università
di Losanna, per spiegare perché negli Usa tutti i sondaggi dessero
la vittoria a Hillary Clinton.
Pare
pretendere qualche sostegno, all’indomani
del voto del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, la tesi che
«stavolta i sondaggi ci hanno azzeccato», minimizzando il
fatto che, fino a quando ne è stata possibile la diffusione, ma
anche dopo, quando pateticamente camuffati ne trapelavano comunque
gli aggiornamenti, non abbiano mai assegnato al No un vantaggio
maggiore di
7-8 punti, mentre il risultato gliene dà 20.
È uno scarto che ci
consegna un’Italia
in cui almeno 2 o 3 milioni di persone avevano una qualche forma di
imbarazzo nel dichiararsi a favore del No, e hanno mentito, dicendo che avrebbero votato Sì o schermendosi si dicevano ancora indecise. E io credo che a tanto
possa quantizzarsi l’Italia
che ha creduto nella solidità culturale, prim’ancora
che politica, di una possibile età
renziana, e che naturalmente ora non ci crede più.
Non è per sminuire
l’importanza di un risultato che ha numerose altre implicazioni –
ci tornerò sopra – ma la prima considerazione che ritengo utile è
relativa proprio a questo dato: prima che la guida del governo, Renzi
ha perso lo smalto dell’uomo che inaugura un’epoca.
Molto peggio
che aver preso finalmente atto che c’è chi ti odia più di quanto
tu credessi, è scoprire che un di più ti odiava, ma aveva qualche
riserva nel fartelo sapere, e ora non più.
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