giovedì 19 luglio 2012

[...]


Antirelativismi


Sembra un brano tratto da una lectio magistralis di Joseph Ratzinger, vero? E invece è una pagina del Kursus der Philosophie als streng wissenschaftliche Weltanschauugun und Lebensgestaltung di Karl Eugen Dühring (1875). Friedrich Engels gli obietta: «Se mai l’umanità arrivasse al punto di non operare che su verità eterne, su risultati del pensiero che posseggano il valore sovrano e l’incondizionata pretesa di verità, essa sarebbe pervenuta a quel punto in cui l’infinità del mondo intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell’innumere numerato» (Anti-Dühring, 1878).
Con ciò si vorrà mica negare ogni certezza di ultima istanza? Tutt’altro, ma Engels scrive: «Che due più due faccia quattro […] è dichiarata verità eterna solo da chi mira ad arguire che anche nel campo della storia umana ci siano verità eterne, una morale eterna, una giustizia eterna e così via, che esigano una validità e una portata analoga a quella delle conoscenze e delle applicazioni della matematica». La pretesa di una verità eterna, dalla quale discendono una morale eterna e una giustizia eterna, non potrebbe porsi dunque che su basi materialistiche. Ce ne sarebbe a sufficienza per negarne la natura trascendente. 

martedì 17 luglio 2012

Beppe Grillo ha insultato Rosy Bindi?

Il più duro è stato Pierluigi Bersani: «Le parole di Beppe Grillo nei confronti di Rosy Bindi sono indecenti: sono il segno di un maschilismo e di una volgarità di cui pensavamo avesse dato miglior prova Berlusconi, ma evidentemente al peggio non c’è limite». Anche senza arrivare a tanto, però, il giudizio sembra unanime: Beppe Grillo avrebbe insultato Rosy Bindi. Ma è vero?  Beppe Grillo ha insultato Rosy Bindi?
Di Beppe Grillo penso tutto il male possibile, ma francamente mi pare che il suo non si possa definire insulto: ha detto che Rosy Bindi «di problemi di convivenza con il vero amore non ne ha probabilmente mai avuti» e onestamente non saprei proprio dove stiano l’indecenza, la volgarità e il maschilismo. Non ha escluso che Rosy Bindi abbia conosciuto il vero amore: si è limitato a dire che, se l’ha conosciuto, non ha mai avuto problemi di convivenza con chi ha amato. Non solo: ci ha messo un «probabilmente».
Ora, per toccare con mano la correttezza di queste affermazioni, basta riandare all’intervista che Rosy Bindi ha concesso nel marzo dello scorso anno a Mariella Venditti per il settimanale A: un fidanzatino a 16 anni, altre due o tre storielle alla quale ella stessa sembra dare poca importanza, nessuna convivenza, nessun matrimonio. Dove sta l’insulto nel dire che «di problemi di convivenza con il vero amore non ne ha mai avuti»? Io direi si possa togliere pure il «probabilmente»
Ovviamente non c’è nulla di male nel vivere da single, soprattutto quando – ed è questo il caso – si tratta di una scelta. In quell’intervista, infatti, Rosy Bindi affermava: «Sono molto serena riguardo alle mie scelte... Tornassi indietro, rifarei ciò che ho fatto, perché non ho rinunciato a niente di essenziale». Direi ci sia abbastanza per prosciogliere Beppe Grillo da ogni accusa. Direi ci sia abbastanza anche per cogliere il fondo dell’insensibilità di Rosy Bindi al vero amore che può far sentire essenziale a due gay l’unirsi in matrimonio.

lunedì 16 luglio 2012

Parafrasi del «fare il frocio col culo degli altri»

Ivan Scalfarotto è gay, ma è pure vicepresidente del Pd. Tra le due cose, a chiacchiere, non dovrebbe esservi conflitto; di fatto, basta leggere ciò che il nostro scrive a commento dell’ultima assemblea nazionale del partito per capire che conflitto v’è, ed è bello grosso. Dal modo in cui lo risolve direi che Scalfarotto sia più vicepresidente del Pd che gay. A cominciare dal fatto che definisce «caciara», «casino», «gazzarra» – poi devono essergli finiti i sinonimi – le sacrosante proteste di quanti hanno contestato un documento politico che egli stesso non esita a riconoscere sordo e muto riguardo a quei «diritti che sono scontati in tutto il mondo civile».
Il Pd se ne fotte di ciò che i gay reclamano? Fa niente, tanto «le ragioni dell’uguaglianza delle persone omosessuali hanno una loro forza intrinseca e hanno dalla loro parte l’irresistibilità della storia». Intendiamoci. «Sono sufficienti le unioni civili? No. Si deve giungere a un compromesso e smettere di combattere? Men che mai. Rassegnarsi e tacere? Nemmeno per idea». Ma «umiliare il segretario per ciò che non ha detto invece di riconoscergli ciò che ha detto» non è bello. Già, ma che ha detto Bersani? Ha detto che al momento del matrimonio gay non se ne parla. Come Bindi. Come Fioroni. Però «ha detto la parola “omosessuali” molte più volte della parola “lavoratori”: un miracolo per una persona della sua cultura».  
Niente da fare, la platea non ha apprezzato il miracolo e si sono sollevate le proteste. Che non sono piaciute a Scalfarotto, perché «l’esasperazione è un lusso che possono permettersi i singoli cittadini, non chi ha la responsabilità di rappresentarli». Quando i singoli cittadini sono esasperati, chi li rappresenta non deve rappresentarne l’esasperazione, tanto per i matrimoni gay, «che al Pd, alla politica, alla Chiesa piaccia o no, è solo questione di tempo». Nel frattempo? Pazientare, per evitare che nel Pd si faccia «più aspro il muro contro muro tra favorevoli e contrari»

Chi rappresenta, Scalfarotto? Il partito, senza dubbio. Ne è vicepresidente, è naturale. Ma perché è stato scelto come vicepresidente? Perché è gay, senza dubbio: tra quelli che nel Pd hanno la sua età non spicca per altro «merito»: meno furbo di un Adinolfi, meno colto di un Civati... Qui, la radice del conflitto. E Scalfarotto lo risolve con la parafrasi del «fare il frocio col culo degli altri»: fa il vicepresidente del Pd con le ragioni degli eterosessuali ipocriti.
Solo un eterosessuale, e parecchio ipocrita, può affermare infatti che il Pd è «un partito di gente diversa, sul modello dei grandi partiti europei e delle grandi democrazie occidentali». Chi è gay dovrebbe sapere meglio di chiunque altro che è un aborto cattocomunista. Sui diritti civili, d’altronde, e in particolar modo su quelli relativi al genere, Dc e Pci sono sempre stati solidali nella rimozione. Non è cambiato molto, però il partito che ne ha raccolto i rimasugli ha un vicepresidente gay. Una foglia di fico, nemmeno grossa il necessario.   

sabato 14 luglio 2012

Ma Avvenire ci prova

Con la sentenza n. 151 del 1° aprile 2009 la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la legge n. 40 del 19 febbraio 2004 ai punti in cui essa imponeva il limite alla produzione di embrioni in numero non superiore a tre e il loro impianto in soluzione unica e da realizzare immediatamente, così attenuando, anche se di poco, gli effetti della legge più crudele e più cretina scritta da questo Parlamento. Di poco, ma non pochissimo, perché i bambini nati grazie alla fecondazione medicalmente assistita dopo la sentenza della Corte Costituzionale sono stati 294 in più.
Si tratta di 294 bambini che da grandi potranno recuperare il numero di Avvenire di venerdì 13 luglio 2012 per leggere : «Nei 357 centri che praticano la fecondazione artificiale il numero degli embrioni prodotti e poi congelati è esploso passando in due anni da 763 a 16.280, gli embrioni tolti dal ghiaccio per ottenere una gravidanza sono cresciuti con quasi altrettanta rapidità (da 1.255 a 8.779), ma questi incrementi vertiginosi non si riscontrano poi nel numero di “bimbi in braccio”, certamente aumentati (da 10.212 a 12.506), ma di certo non con la progressione spaventosa dell’andirivieni di vite umane dentro e fuori dai freezer».
Non avranno da sforzarsi troppo per capire che non dovrebbero essere al mondo: in ossequio alla logica che lamenta la sorte degli embrioni non impiantati, non dovevano nascere. Infatti, «per ottenere un bambino [grazie alle tecniche di fecondazione assistita] occorre creare [sic!] una media di dieci embrioni, un costo biologico ed umano intollerabile».
Meglio rinunciare al bambino, dunque? Sì, non vale nove embrioni. Difficile farlo capire al bambino, soprattutto quando sarà diventato adulto. Ma Avvenire ci prova. 

giovedì 12 luglio 2012

[...]

Una volta tanto si può sottoscrivere ciò che si legge su Avvenire: «Se il senso della detenzione e della pena è di tendere alla rieducazione del condannato, allora l’ergastolo è una contraddizione in termini». Molto bene, ma quel «fine pena mai» non è a ricalco dell’eterno espiare all’inferno? 

La voce del padrone



Nell’estate del 1976 scoppiarono violente rivolte in molte carceri italiane per le drammatiche condizioni di invivibilità cui versavano i detenuti. La risposta dei radicali fu immediata: sciopero della fame ad oltranza. Chiedevano un’amnistia, penserete. No, chiedevano un aumento dell’organico degli agenti di custodia. Lo sciopero della fame durò 73 giorni e s’interruppe solo alla promessa del Presidente del Consiglio, che a quei tempi era Giulio Andreotti, di interessarsi della questione nel giro di pochi mesi.
Non accadde e il problema rimase senza soluzione, per riaggravarsi ancora di lì a poco, sicché nel 1978 si decise un’amnistia in favore di alcuni reati: soluzione emergenziale, in linea con la filosofia del far tutto male, in fretta e solo quando costretti. 
Ai radicali sembrò una soluzione insufficiente: «Questo disegno di legge è un atto borbonico di clemenza. Non un provvedimento di ordine pubblico per l’efficienza della giustizia. Non libera i giudici della valanga di processi minori, per consentire loro di celebrare subito, senz’alibi, quelle migliaia di processi gravi e importanti. Serve a liberare, ma neppure subito solo le Preture» (Notizie Radicali, 28.7.1978).
Quando poi, nel 1981, si votò in Parlamento una legge delega per l’amnistia e l’indulto (favorevoli DC, Psi, Psdi e Pri, astenuti Pci, Msi e Indipendenti di Sinistra), i radicali votarono contro (insieme al Pli). Il deputato radicale Gianfranco Spadaccia ne spiegò le ragioni a Radio Radicale in questo modo: «Abbiamo votato contro per due motivi. Primo, perché quest’amnistia nasce da uno stato di necessità e noi non ci sentiamo corresponsabili di questo stato di necessità che si è determinato, perché siamo stati gli unici ad indicare una linea di politica alternativa nel campo della giustizia e del diritto. In secondo luogo, riteniamo l’amnistia insufficiente anche a risolvere questo stato di necessità. In fondo, questa volta l’amnistia è stata presentata senza ipocrisie: si è detto che le carceri erano troppo affollate e l’arretrato giudiziario si è enormemente accumulato, per cui era necessario sfollare le carceri ed eliminare un notevole numero di procedimenti giudiziari. Noi consideriamo restrittiva questa impostazione, perché nel 1978 noi abbiamo avuto un’altra amnistia e abbiamo avuto liberati 6-7.000 detenuti ed abbiamo avuto un decongestionamento che non è durato più di un anno: un anno dopo l’affollamento era tornato ai livelli precedenti alla concessione dell’amnistia. Ma il vero motivo per cui siamo contrari è perché l’amnistia non corregge le cause che determinano l’affollamento delle carceri… Noi chiediamo la depenalizzazione di alcuni reati, l’abolizione della carcerazione in attesa di giudizio, la riforma degli agenti di custodia, l’attuazione piena della riforma carceraria, la riforma del codice di procedura penale, investimenti per il potenziamento delle strutture carcerarie e via di seguito…» (Radio Radicale, 14.11.1981).
Analoga posizione in occasione dell’amnistia per reati punibili fino a un massimo di 4 anni che ci fu nel 1990. In Commissione Giustizia era passato un emendamento che estendeva il provvedimento di clemenza in favore dei reati connessi alla detenzione e all’uso delle cosiddette droghe leggere. Il radicale Mauro Mellini, che pure aveva votato a favore, spiegava che «non è l’inclusione o l’esclusione di alcuni reati a risolvere la questione» (Radio Radicale, 10.1.1990): senza la depenalizzazione di quei reati, il problema era destinato a riproporsi…

Sfogliando queste pagine di storia radicale, ritrovo le mie posizioni, peraltro espresse in più occasioni su queste pagine, e fin dal giugno dello scorso anno: «Senza una riforma della giustizia che elimini la vergogna della detenzione preventiva e stabilisca pene alternative alla carcerazione per i reati meno gravi – ho scritto – e senza la depenalizzazione dei reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti, senza politiche che invertano la rotta sui problemi posti dall’immigrazione, un’amnistia servirebbe solo a rimandare la soluzione del problema, che probabilmente si riproporrebbe in dimensioni analoghe, e in breve tempo».
Continuo a pensarla così e penso che col concentrare tutte le energie sulla richiesta di amnistia, fino ad allucinarla come «soluzione strutturale» dei problemi della giustizia in Italia, Marco Pannella e i suoi seguaci stiano dando ulteriore prova, se ce n’era bisogno, che la logica radicale ha subìto una mutazione che la snatura in sterile cocciutaggine, consegnando i loro sbattimenti all’irrilevanza.
Non è accaduto d’improvviso, ma per avvitamento, nella convinzione che all’amnistia si possa arrivare solo mascherando la sua valenza emergenziale in questione di principio, centrale, a dispetto di quel sano pragmatismo che è il pilastro del metodo riformatore liberale.
L’amnistia non sarebbe affatto la soluzione definitiva dell’annoso problema carcerario italiano, ma ormai i radicali si sono giocati ogni possibilità di proporla come provvedimento d’urgenza e gli ultimi passaggi della loro azione politica segnano un’involuzione che non potrà avere altra lisi che nell’abbandono di questa iniziativa per un’altra ancora più disperata, in quell’ossessivo gioco al rilancio che è la sola arma di chi non ha niente da perdere perché ha già perso tutto. E il tragicomico arriva a quattro giorni di digiuno e di silenzio.
Ovviamente non può limitarsi a stare zitto solo lui, ci mancherebbe altro: dovrà tacere anche Radio Radicale, che quando si tratta di incassare denaro pubblico è «la radio del Parlamento e di tutti i partiti, dei congressi e dei dibattiti, il microfono nei tribunali e nelle vostre case», ma di fatto è il suo megafono personale: se lui tace, deve restare spento. Oh, naturalmente non si tratta di un diktat, la sospensione delle trasmissioni sarà proposta al direttore dell’emittente, il dottor Paolo Martini, al quale sarà dato modo di decidere in piena autonomia, ma sarà il caso che autonomamente decida di chiudere i microfoni, sennò – è notorio – lo aspettano cazzi amari. «Lunica radio senza filtri, senza mediazioni, senza veline», recita lo spot, ma mica è detto che non abbia un padrone:  «in una voce la sua  tutte le voci».
   

martedì 10 luglio 2012

[...]

Il Festival di Spoleto ha smesso ormai da tempo di essere la splendida rassegna di musica, arte, cultura e spettacolo ideata da Gian Carlo Menotti nel 1958, ma quest’anno, giunto alla sua 55ª edizione, ha toccato il fondo con un programma che includeva un ciclo di prediche sui sette vizi capitali tenute da Rino Fisichella, Vincenzo Paglia, Enzo Bianchi, Gianfranco Ravasi… Probabilmente si voleva cogliere la cifra dei tempi nel cosiddetto «ritorno del sacro», ma per rappresentarla non si è trovato niente di meglio che una passerella di chierici da salotto coi loro scialbi fervorini.

sabato 7 luglio 2012

venerdì 6 luglio 2012

Corrispondenze

Caro ***, alcuni mesi fa, davanti a un piatto di strangozzi al cartoccio, Giovanni Fontana mi ha rivelato che Luca Sofri si sentiva trollato dai rilievi critici che di tanto in tanto gli andavo muovendo da queste pagine (9 post sugli oltre 12.000 degli 8 anni di Malvino). Sono rimasto a bocca aperta, con la forchetta a mezz’aria. Giovanni avrà pensato che la cosa mi avesse gravemente offeso, almeno questa è l’impressione che mi ha dato nel suo affannarsi a minimizzare. In realtà, era caduto il velo dietro il quale Luca Sofri mi era sempre sembrato uno spocchioso stronzetto: l’ho visto nudo, un poveraccio. Giacché la pena è sorella del disprezzo, credo di esser riuscito a balbettare solo qualcosa del tipo: «Digli di star tranquillo, non scriverò più un rigo che lo riguardi». Intendo mantenere la promessa ed è per questo che ti prego di scusarmi, ma non farò alcun commento all’articolo che mi hai segnalato. Ti abbraccio,

L.

giovedì 5 luglio 2012

Coda

Avvenire riprende l’intervista che l’altrieri il cardinale Angelo Amato ha rilasciato a L’Osservatore Romano e che ho commentato nel post qui sotto. Accanto, per dar forza alle affermazioni di Sua Eminenza («la mafia è intrinsecamente anticristiana», «don Pino Puglisi è stato ucciso in quanto sacerdote»), la notizia del «primo caso in cui la Chiesa vieta la celebrazione dei funerali per un boss di mafia».
Si trattava di Giuseppe Lo Mascolo, deceduto in carcere pochi giorni dopo l’arresto che gli inquirenti avevano disposto ritenendolo un esponente di spiccolo della cosca di Siculiana (Ag). Mafioso solo nell’imputazione, dunque, e in attesa del processo: tanto è bastato, tuttavia, a negargli i funerali religiosi concessi, non più di due settimane fa, a Gennaro Sortino, potente boss mafioso agrigentino dalla fedina penale più lunga di un romanzo. È che il Sortino era morto prima della beatificazione di don Puglisi, il Lo Mascolo dopo, a conferma che la scoperta della natura «intrinsecamente anticristiana» della mafia è assai recente, direi contestuale alla beatificazione di don Puglisi.
Se però la mafia è «intrinsecamente anticristiana», che senso dare alla decisione di monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, di «non tenere la celebrazione eucaristica ma la semplice Liturgia della Parola»? In altri termini: che senso ha pregare cristianamente sul cadavere di un tizio intrinsecamente anticristiano?  

Per secoli, da secoli

Ne ho già parlato alcuni giorni fa, ma sarà il caso di tornare sulla beatificazione di don Pino Puglisi, che un decreto della Congregazione delle Cause dei Santi ha di recente dichiarato martire «in odium fidei». Ho scritto che si tratta di una mistificazione: «Non è stato ucciso perché era un prete, ma nonostante il fatto che lo fosse». Il cardinale Angelo Amato, invece, afferma: «È stato ucciso in quanto sacerdote, non perché immerso in attività socio-politiche particolari. Ucciso in quanto predicava la dottrina cristiana ed educava i giovani a vivere con coerenza il loro battesimo. Non per altro. Non andava contro nessuno» (L’Osservatore Romano, 3.7.2012).
Ripeto: non regge. I preti uccisi dalla mafia si conterebbero a dozzine o dobbiamo ritenere che quelli che la mafia non uccide siano preti che vengono meno al dovere di predicare la dottrina cristiana? Ribadisco: proclamare don Puglisi beato perché martire  «in odium fidei» è un ignobile mezzuccio per ascrivere al suo ministero quelle virtù civili che abbiamo visto esaltate nell’esempio di tanti laici – politici, sindacalisti, magistrati, giornalisti, ecc. – che si sono spesi nella lotta alla mafia a prezzo della loro vita.
E non regge neanche la definizione che Sua Eminenza dà dei mafiosi, che «apparentemente – afferma – sembrano molto devoti», mentre invece fanno parte di «un’organizzazione che, più che “religiosa”, è essenzialmente “idolatrica”». Così fosse, perché non si ha traccia di un solo decreto della Congregazione per la Dottrina della Fede che condanni l’errore? Se «la mafia è intrinsecamente anticristiana», come afferma Sua Eminenza, perché sono rarissime, e tutte assai recenti, le condanne della Chiesa? Perché, al contrario, tante contiguità tra basso ed alto clero con ogni segmento del fenomeno mafioso, per secoli, da secoli?
 

martedì 3 luglio 2012

Due chiese attaccate in Kenia: 17 morti e 50 feriti

Poco frequentate pure in Africa, si direbbe.

Ingroia si va preparando a una discesa in campo?

Viene il sospetto che la trattativa Stato-Mafia sia destinata a rimanere ipotesi. Pare che Antonio Ingroia non riesca proprio a trovare argomenti che possano reggere in dibattimento. Si direbbe che manchi della scorza di Henry John Woodcock, il quale è proprio in dibattimento che ama saggiare la solidità delle sue ipotesi, tanto poi che gliene fotte se si rivelano fragili. Ingroia, no. Ingroia vorrebbe avere prove toste, non ne trova e si lamenta.
Questa è la sensazione che si ricava da un suo lungo intervento ospitato dal blog di Beppe Grillo, nel quale il più estroverso pm della Procura di Palermo denuncia i silenzi che gli impedirebbero di dare corpo al suo teorema. Fa nomi? No, si limita ad allusioni, peraltro assai generiche. In un passaggio, per esempio, denuncia «reticenze, a volte anche istituzionali», ma non aggiunge altro, come trattenuto da una reticenza.
Non si capisce bene cosa voglia, Ingroia, non si capisce bene con chi ce labbia. Non fosse il magistrato scrupoloso che tutti ammirano, si direbbe che parli a vanvera come un politico, anzi, come un magistrato che stia meditando di lasciare la magistratura per darsi alla politica. Daltronde non sarebbe il primo. Raccogliere prove per muovere unaccusa che in tribunale risulti fondata e degna di condanna, si sa, è compito gravoso che impone enormi sacrifici, in paziente studio e tacito raccoglimento. Da politico, invece, ci si può lasciare andare a insinuazioni oblique, a denunce ardite, a truci invettive, senza avere pressoché alcun onere di dimostrare quello che si afferma, potendolo fare quasi sempre impunemente, anche quando si arriva alla calunnia, che in bocca a un politico suona sempre come libertà di opinione. Una pacchia, insomma.
Ingroia si va preparando a una discesa in campo? Troppo serio per farlo, dicevamo, ma i numeri ci sarebbero tutti. «L’Italia è un paese di irresponsabili», dice, e chi non lo pensa? Ogni italiano ritiene di essere persona responsabile in mezzo a tanti irresponsabili. Insomma, la base elettorale potrebbe essere assai ampia.

lunedì 2 luglio 2012

Da ricovero immediato

Chi è divorato da una fede non smetterà mai di lamentare limiti alla sua libertà religiosa, perché questa sarebbe pienamente realizzata solo se tutti ne fossero divorati in egual modo: tutto quello che si oppone a tal fine, che assorbe ogni istante della sua esistenza, è sentito come insopportabile violenza. Così è per Marco Pannella, che anche nella finale di un torneo di calcio che ha tenuto col cuore in gola almeno un centinaio di milioni tra italiani e spagnoli non ha mancato di lamentare l’ennesima censura alla sua eroicomica battaglia per l’amnistia: le prime pagine di tutti i quotidiani e le aperture di tutti i tg non parlavano che di Italia-Spagna, come non sospettare che il regime intendesse così distrarre le masse dal suo digiuno? Non è tutto, perché il subdolo diversivo era intriso di fetido nazionalismo.
Da ridere? Da piangere? Da ricovero immediato, direi. Ma forse è meglio ascoltare tutto dalla sua viva voce, così, prima di chiamare l’ambulanza, piangiamo o ridiamo, a piacere.


Chi è divorato dalla fede calcistica e stravede per la Nazionale, sintonizzandosi per caso su Radio Radicale a tre ore e mezzo dalla partita, al sentire questa micidiale gufata, si sarà toccato le palle. Al 4-0, probabilmente, si sarà riproposto di sputare in un occhio a Pannella, alla prima occasione. Ma chi è divorato da una fede, dicevamo, manca di buon senso.
I pochi radicali ai quali ne è rimasto un etto farebbero bene ad arrossire.  

venerdì 29 giugno 2012

Dava fastidio alla mafia, punto.


Il suo nome è ormai da tempo nel pantheon laico di quanti vollero testimoniare a prezzo della vita il loro impegno contro la mafia, ma ora, a quasi vent’anni dalla morte, per Pino Puglisi arriva pure la beatificazione. Non stupisce che ci sia voluto tutto questo tempo, perché si sa che la Chiesa ha culo di pietra e passo lento. D’altronde, con tutti questi preti che stuprano bambini, riciclano denaro sporco e ai mafiosi non fanno mancare i sacramenti, neanche in latitanza, farne beato uno pulito conviene. Serve a dare una mano di bianco alla facciata, via, e poi è legittimo. Quello che stupisce, invece, è che don Puglisi venga beatificato perché martire «in odio alla fede», formula che rimanda a quel «sarete odiati in mio nome» che si legge in Mt 24, 9, in Mc 13, 13 e in Lc 21, 17. Qui sta il punto: don Puglisi fu ucciso da un non cattolico perché cattolico? Insomma, fu fatto fuori per questioni di fede o perché scassava la minchia ai fratelli Graviano come avrebbe potuto scassargliela un ateo, un musulmano o un confuciano?

Sì, non c’è dubbio che chi l’ha voluto morto non dovesse essere un buon cristiano. Nel suo covo, come quasi tutti i mafiosi, chi l’ha ucciso avrà avuto una Bibbia sul comodino e immagini di santi alle pareti, ma glissiamo sul paradosso, evitiamo di chiederci perché i mafiosi siano tutti  così attaccati, se non alla sostanza, almeno alla forma della tradizione cattolica: concediamo che la fede di chi ha ucciso don Puglisi non fosse autentica. Vale anche per la gran parte dei cristiani che quotidianamente cadono in altri peccati altrettanto mortali, ma concediamo che la religiosità di chi ha ucciso don Puglisi sia vuota di ogni genuino senso cristiano, e che cioè chi ruba, fornica e presta falsa testimonianza sia ancora sulla carta un cattolico, seppure peccatore, ma che questo non valga per i fratelli Graviano. Sì, ma questo basta per dire che don Puglisi è stato ammazzato «in odium fidei»? Basta a far di lui un martire della fede?

Via, non regge. I mafiosi non odiano la Chiesa, anzi. Difficile trovarne uno che non sia stato battezzato e che non battezzi i propri figli. Difficilissimo trovarne uno che non si sia sposato con rito religioso. Facilissimo, invece, trovarne di devoti. In generale, diciamo che, se possono, i mafiosi amano avere buoni rapporti col mondo ecclesiastico. Tra i correntisti dello Ior o nei loculi della Basilica di Sant’Apollinare cos’è più facile trovare, un ateo, un musulmano, un confuciano o un mafioso? E allora con quale faccia di culo si promulga che don Puglisi è stato assassinato «in odio alla fede»? Non è stato ucciso perché era un prete, ma nonostante il fatto che lo fosse. Dava fastidio alla mafia, punto.  


giovedì 28 giugno 2012

Uno sforzo di immaginazione

Fate uno sforzo di immaginazione, pensate all’Italia del 1870 e fate conto che di lì in poi le cose siano andate in altro modo: confisca di tutti i beni ecclesiastici, sgozzamenti di preti e frati, la Basilica di San Pietro rasa al suolo, il Papa-Re in esilio… Brutto, eh? Senza dubbio, ma è che sul finale il Risorgimento ha preso una brutta piega, Garibaldi si annoiava a Caprera, ai Savoia è venuto un cagotto e hanno anticipato di un’ottantina d’anni la fuga a Brindisi... Insomma, l’Italia è diventata repubblica e si respira un feroce laicismo… Brrrr...
Ora fate un altro sforzo e immaginate le conseguenze a distanza. Immaginate Sua Santità girovagare per il mondo in lungo e in largo, coperto di sola autorità spirituale, scalzo (ha le cipolle agli alluci che fanno una grande tenerezza), elemosinando a destra e a manca un tozzo di solidarietà per le persecuzioni che i suoi devoti subiscono in Italia (ogni tanto una suora si dà fuoco, ma le autorità italiane dichiarano che si è trattato di autocombustione mistica), distribuendo rosari a capi di stato, rockstar e bomber… Richard Gere, avete presente? Si è fatto tatuare lAddolorata in petto. Premio Nobel a Sua Santità, senza meno…
Suppongo non dobbiate sforzarvi troppo per immaginare che essere cattolico, o almeno dichiarare simpatie per il cattolicesimo, anche senza saperne un cazzo, sia diventata cosa fighissima – tranne che in Italia, ovviamente – ma che i cosiddetti principi non negoziabili abbiano giocoforza smussato i loro spigoletti aguzzi… Come fai a raccogliere simpatie a Hollywood se dici che le checche sono persone disturbate che hanno bisogno di essere curate? Devi essere carino, via. Cerca di non citare Manuele II Paleologo e, se ti fanno domande imbarazzanti, fai lo slalom. Per esempio: «Meglio evitare in linea generale le pratiche dell’aborto, della clonazione e dell’eutanasia. Però i casi sono specifici e vanno analizzati uno per uno» (AdnKronos, 27.6.2012). Così, infatti, ha detto Sua Santità.

Non parlo di Benedetto XVI, ovviamente, ma del Dalai Lama. Se quelle brutte bestie dei cinesi non l’avessero buttato fuori dal Tibet nel 1959, vi regnerebbe ancora. Era una teocrazia di stampo feudale, più o meno, e vi risparmio i dettagli orripilanti, rimando ai tre volumi di James Morris (Pax Britannica, 1992).
«I casi sono specifici e vanno analizzati uno per uno», bravo il nostro Tenzin Gyatso, sei inafferrabile come un’anguilla. Ma da chi? A chi spetta analizzare e decidere? Chi deciderebbe in Tibet, e come, se fossi ancora assiso in trono?

mercoledì 27 giugno 2012

[..]

Ci pensavo ieri sera, Roberto Benigni non mi ha mai fatto ridere. Dovrei indagare, ma non ho tempo.

Corrispondenze

Malvi’, senti questa. Spadaccia è andato a trovare Lusi in carcere a spiegargli perché Bonino ce l’aveva mandato: «Certe decisioni e certi voti sono sempre dolorosi, non solo per la ragione ovvia che riguardano e mettono in gioco la libertà di un parlamentare, ma perché nascono da una scelta difficile nel conflitto fra valori e principi a cui comunque si tiene, ma fra i quali bisogna scegliere quale privilegiare e quale sacrificare. Scegliere come? Con la responsabilità politica e con il senso di opportunità». Riesci a decriptare?
***


Non mi pare ci sia niente di oscuro, caro ***: certi principi avrebbero spinto a votare contro l’arresto, ma il senso di opportunità ha spinto a votare a favore. È gioco di squadra, e funziona, vedi il caso Papa: anche lì non c’erano esigenze cautelari che giustificassero l’arresto, ma i radicali votarono a favore, poi però l’andarono a trovare in carcere e l’opera di misericordia corporale conquistò un iscritto. Non mi stupirei se anche a Lusi venisse voglia di pigliar tessera radicale, non mi stupirei se iniziasse uno sciopero della fame al quale si unisse pure la Bonino, contro la barbarie della detenzione in attesa di giudizio. Se invece lo piglia lo sconforto e s’ammazza in carcere, tocca a Pannella saltare sul cadavere per gridare: «Amnistia, amnistia, amnistia!». E qui, infine, ci sarà lisi del conflitto fra principi e senso di opportunità.


lunedì 25 giugno 2012

«Manifestamente inammissibile»

Quattro giorni fa la Consulta ha rigettato come «manifestamente inammissibile» la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 194 che era stata sollevata dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto. Quattro giorni per riprendersi dalla mazzata e Avvenire manda il professor Francesco D’Agostino a lamentarsene in prima pagina: «Sia dalla sentenza della Consulta che dai commenti favorevoli che essa ha suscitato – scrive – si percepisce come si sia cristallizzata in Italia, dopo quasi trentacinque anni dall’approvazione della legge 194, un’inadeguata percezione scientifica, etica e sociale dell’interruzione di gravidanza [a fondamento della quale c’è] la tesi che afferma il primato della donna (ovviamente ritenuta persona) rispetto al nascituro (ovviamente pensato come chi persona dovrebbe ancora diventare, in attesa della nascita)».
Il problema, dunque, è il primato della donna sull’embrione: è evidente che D’Agostino lo ritenga ingiusto. È altrettanto evidente, tuttavia che, laddove si realizzi un conflitto tra la salute fisica e psichica della donna e il prosieguo della gestazione (la condizione contemplata dall’art. 4 della legge 194), non consentire l’interruzione volontaria di gravidanza significhi negare il primato della donna sull’embrione, sì, ma solo per affermare quello dell’embrione sulla donna, tertium non datur.


Ora, la massima espressione del primato dell’embrione sulla donna si ha nel caso in cui una donna decida di non abortire anche laddove la gravidanza metta in serio pericolo la sua stessa vita. Decisione estrema, senza dubbio, ma estrema quanto quella di abortire, perché, ammesso e non concesso che gravida ed embrione abbiano pari dignità di persona, in entrambi i casi ne è sacrificata una.
Bene, parrebbe che la decisione di sacrificarsi pur di portare avanti la gravidanza sia legittima, ma non quella di abortire: in entrambi i casi sarebbe sacrificata una persona, ma nel primo caso non si pone alcun problema. Non per D’Agostino, per lo meno, né per Avvenire, che in questi casi non fa mai mancare il paginone di elogio alla santa che ha scelto di morire pur di portare a termine la gravidanza, anche quando la gravidanza non giunge a termine e insieme muoiono il feto e la gravida.
Ora, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 194 era stata sollevata dal giudice di sorveglianza del Tribunale di Spoleto sull’assunto che l’embrione sia «un “essere” provvisto di un’autonoma soggettività giuridica della cui tutela l’ordinamento deve farsi carico»: ammesso e non concesso che lo sia, questa tutela è prioritaria rispetto a quella della donna che da una gravidanza possa trarre danno alla sua salute fisica e psichica? Se è questo che D’Agostino intende affermare, la tutela dell’embrione non può essere che a discapito della donna. Perché non dirlo chiaramente? Perché non dire chiaramente che, in presenza di conflitto, non deve essere data opportunità di scelta?


Non è  l’unica incongruenza ad emergere da questo editoriale. Dopo averci fracassato i coglioni per mesi e mesi sul fatto che la magistratura italiana stesse attentando ad una legge come quella che pone infiniti limiti alla fecondazione assistita, legge voluta dal Parlamento e confermata (diciamo così) da un referendum popolare, Avvenire si lamenta che non sia andato a buon fine l’attentato che un magistrato ha mosso alla legge 194?
La si ritiene legge ingiusta? Perché non sottoporla ancora a referendum? Che ci vuole a raccogliere mezzo milione di firme? «Nessuna forza politica italiana tra quelle che contano – lamenta  D’Agostino vuole riaprire la questione dell’aborto. E non la vuole riaprire non a seguito di decisioni conseguenti a discussioni aperte, esplicite, innovative, ma piuttosto per una sorta di diffusa percezione, che induce a pensare che sia meglio non riaprire una questione così scottante». Dobbiamo ritenere che anche chi rinuncia a un nuovo referendum abbia paura di scottarsi. Un principio non negoziabile si arrende a una paura così meschina?