domenica 17 novembre 2013

Eventualmente stupido e cattivo

Massimo Adinolfi e Leonardo Tondelli corrono in soccorso di Nichi Vendola con strumenti retorici che a me paiono un pochino disonesti.
Il primo riduce tutta la faccenda a un «Vendola ride», poi separa il soggetto dal verbo, accantona il «Vendola» con quanto gli è d’attorno in contesto, e passa a difendere il «ride» dalla condanna morale che lungo i secoli è stata inflitta al riso da tutti i cupi bacchettoni che hanno considerato osceno il ridere, in sé e per sé. Vorresti accodarti a costoro? Penserai mica come Jorge ne Il nome della rosa che «chi ha un’anima non può permetterselo»? Sii buono con te stesso, via, e assolvi il «ride». Fatto? Bene, adesso rimetti «Vendola» accanto a «ride» e dimmi: quelle risate non ti diventano innocenti? No? E allora vuol dire che hai qualcosa di guasto dentro. Probabilmente ti sei fatto attaccare la rogna da Padellaro, Gomez e Travaglio. Diciamola com’è, sei un tipaccio da evitare, normale che Adinolfi ti ingiunga di tenerti a debita distanza. Così impari a dare addosso al povero Nichi.
In fondo che ha fatto di male? «Vendola – scrive Tondelli – doveva mediare tra i sindacati che volevano tenere aperto lo stabilimento e un’opinione pubblica che lo voleva chiuso; il suo ruolo richiedeva anche che mantenesse i rapporti con la proprietà. Un presidente di regione non dovrebbe farlo?». Via, che c’è di male a leccare un po’ il culo al factotum dei Riva complimentandosi per lo «scatto felino» col quale quello ha strappato il microfono di mano a un giornalista che aveva «la faccia da provocatore»? In fondo, come vuoi che si mantengano buoni rapporti con chi avvelena gente e ambiente, esporta capitali all’estero e semina mazzette? Bisogna scendere allo stesso livello, e il buon Nichi si è limitato a questo. 
Sicché, se Adinolfi ti compatisce perché ad indignarti mostri di essere cattivo, Tondelli ti sferza: Il Fatto Quotidiano – scrive – «non ha una grande fiducia nella tua memoria [perché] stralci d[i qu]ell’intercettazione erano stati pubblicati un anno fa dal Giornale»; «non ha molta fiducia nemmeno nella tua capacità di mantenere l’attenzione [perché] rispetto al Giornale di Sallusti il contenuto è molto semplificato [e dunque] non ti è richiesto di seguire un ragionamento o ricostruire un caso dagli indizi, ma di ascoltare una risata e di indignarti»; «presume che tu, di indignarti, abbia un certo bisogno»; insomma, se ti indigni, sei un «coglione», tanto più che, ogni volta che ti indigni, «loro [Padellaro, Gomez e Travaglio] realizzano un guadagno».
Vorrai mica essere considerato un «coglione» da Tondelli? Ha troppa stima di te, e ti implora di risparmiarglielo, sennò la delusione lo ferirebbe a morte. Ad Adinolfi, invece, dispiacerebbe doverti privare della familiarità che ti ha magnanimamente concesso: «Chi vuole rivendicare il diritto di ridere in privato di quel che gli pare? Chi, senza violare alcuna legge, vuole essere almeno un po’ scorretto? Chi vuole disporsi almeno una volta al telefono in modalità ironica, o di aperto sarcasmo, oppure di scherno e di macabra ironia, ecco: di un simile mostro morale cosa vogliamo fare? L’unica, mi rendo conto, è non telefonargli. Perciò vi prego: non telefonatemi, perché anche a me, ogni tanto, mi scappa».
In entrambi i casi, neanche troppo velatamente, siamo dinanzi alla promozione in campo di chi legge, se sottoscrive gli argomenti di chi scrive: se assolvi Nichi, dimostri di essere uno che non si fa infinocchiare dagli arruffapopoli, e Tondelli ti applica il bollino blu della persona di buon senso dotata di un sano realismo; in più dimostri di godere di buona salute morale, te lo certifica Adinolfi, che in premio ti concede la sua simpatia, almeno telefonica; sennò sei stupido o cattivo, eventualmente stupido e cattivo.
     

venerdì 15 novembre 2013

«Da noi c’è un clima avvelenato»



E lo va a dire a Bergoglio, che ha più vipere tra i piedi di quante ne abbia in testa la Medusa. Dev’essere stata ironia, non c’è dubbio.

lunedì 11 novembre 2013

Dubbi da cronopio


Dubbi da cronopio, caro Julio. Quando la compressa è effervescente, la sua disgregazione avviene nel bicchiere invece che nello stomaco, dunque il principio attivo è assunto in soluzione, con assorbimento agevolato e attenuazione dell’eventuale effetto aggressivo ai danni della mucosa gastrica, grazie alla diluizione. Nulla va perso del principio attivo nelle bollicine se non i gas prodotti dal processo di disgregazione della compressa, che sono solo il prodotto della reazione chimica tra l’acqua e gli eccipienti responsabili dell’effervescenza.


[Julio Cortázar, Carte inaspettate, Einaudi 2012 (pag. 276)]

[...]

La vicenda personale di Silvio Berlusconi scuote violentemente il partito che si identifica nella sua persona, mettendone a rischio l’integrità, tra il rischio di scissione e quello di dissoluzione. Siamo dinanzi al paradigma del movimento politico che lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader, poco importa se fin dalla fondazione, com’è in questo caso, o per sopravvenuta mutazione.
I motivi perché questo accade e i modi in cui questo si realizza possono essere analizzati col metro psicologico, con quello sociologico o con quello che integra entrambi nel metodo scientifico che è proprio della psicologia sociale. Quale che sia lo strumento di analisi, tuttavia, ciò che porta un movimento politico a ritenere vantaggioso investire tutto se stesso in un solo uomo rimane un bel rompicapo, sicché ciascuna delle espressioni fin qui usate per significare questa scelta («si identifica nella sua persona», «lega irreversibilmente le proprie sorti a quelle del proprio leader», «investe tutto se stesso in un solo uomo») ne danno conto solo in un aspetto, che non la risolve interamente.
In realtà, siamo dinanzi ad una scelta che è – insieme – di totale investimento, piena identificazione e indissolubile legame, ma anche di un di più, che è quanto questa scelta produce in ordine alla struttura del movimento politico, alle relazioni tra i suoi membri, tra i suoi membri e il leader, e alla percezione che essi sono indotti ad avere di ciò che è «dentro» e di ciò che è «fuori» il perimetro della «pars» fatta «partito».
Anche così caratterizzata nella sua natura, tuttavia, la scelta non svela ancora le sue ragioni, rimandandole però ad una condizione di necessità che sembrerebbe renderle cogenti. In pratica, ciò che porta un movimento politico a fare del proprio leader la ragion sufficiente della propria esistenza non sarebbe neppure una «scelta», ma una decisione necessitata dalla inadeguatezza delle opzioni alternative.

Qui ritorna la questione che prima abbiamo in qualche modo accantonato dichiarando legittima l’analisi del fenomeno sia sul piano psicologico, sia su quello sociologico, sia su quello di intersecazione dei due piani: la condizione di necessità è posta da fattori esterni, da fattori interni o dalla combinazione di fattori esterni e interni? Per meglio dire: nel fare del proprio leader l’intestatario unico ed esclusivo di un dominio che coincide con la «pars» nella quale si decide l’inclusione, si risponde a una necessità che è nell’individuo, eventualmente in ciò che fa dell’individuo un polo relazionale, o a una forza maggiore posta da una determinata struttura della relazione? Ancora meglio, cioè prendendo a esempio proprio il caso di specie: cos’è che porta a ritenere naturale, se non giusto, che il destino di un movimento politico sia indissolubilmente vincolato a quello del suo leader? Dipende dalla «pulsione gregaria» che costituisce la caratteristica indispensabile per poter essere reclutati in movimenti politici di questo genere o si tratta piuttosto di un effetto collaterale della cosiddetta «personalizzazione della politica» dopo la crisi dei partiti a forte impronta ideologica?
Quello di Silvio Berlusconi sembrerebbe offrirsi come caso di scuola a dimostrare la validità della seconda ipotesi, come d’altronde è per gli altri movimenti politici che hanno mosso i passi dopo la «morte dell’ideologia»: quale miglior esempio di Forza Italia per la dimostrazione dell’assunto che, al venir meno di un saldo sistema ideologico di riferimento, un movimento politico sia in qualche modo costretto a investire tutto su un nome, una faccia, una storia personale? Non bastasse questo esempio, si pensi alla crisi in cui l’Italia dei Valori è precipitata dopo l’infortunio televisivo che ha del tutto rovinato la già malferma reputazione di Antonio Di Pietro, o a quella, seppur meno drammatica, cui irreversibilmente pare andare incontro la Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Sennò si pensi a un movimento che pure pare in buona salute, com’è il M5S, ma che nessuno riesce a immaginare integro ad un’eventuale uscita di scena di Beppe Grillo.

Trattandosi di movimenti politici che sono nati tutti dopo la crisi del partito che trovava la propria ragion d’essere (o almeno la sua intestazione nominale) in un’ideologia (o almeno in una tradizione ideologica) di riferimento (nel caso della Lega Nord, possiamo dire che sia nata in questa crisi), parrebbe di poter ragionevolmente concludere che il fenomeno sia possibile solo alle condizioni poste da un contesto che favorisca (come in realtà ha favorito) la trasformazione della fidelizzazione ideologica in un eterogenea e spuria serie di fattori che concorrono al reclutamento di fan sotto un’insegna di cui è titolare un leader carismatico. In parte è vero, ma solo in parte, perché il «partito» che nel culto della personalità del proprio leader vede un momento indispensabile del farsi «pars» non è un oggetto nuovo, anzi, è la forma più ancestrale di appartenenza a un gruppo della specie umana.
In tal senso, nell’appartenenza ad un movimento politico che fa del proprio leader – insieme – capo indiscutibile ed entità totemica possiamo riconoscere un momento di regressione della vita di gruppo alle forme claniche e tribali. Da ciò, tuttavia, non è lecito inferire che il partito a forte impronta ideologica sia esente da tali forme di regressione, basti pensare alle esperienze totalitaristiche del secolo scorso.
In buona sostanza, sembrerebbe che il fattore esterno (la «personalizzazione della politica») sia solo in grado di potenziare quello interno (la «pulsione gregaria»), semplicemente latente anche quando sembri assente. Ce n’è di che mettere da parte tanta inutile discussione politica per una più proficua riflessione sulla psicopatologia dei gruppi. Il fatto è che abbondiamo di notisti, opinionisti e retroscenisti, e difettiamo di esperti delle patologie relazionali. 
   

domenica 10 novembre 2013

Cécile Kyenge? E Yara Gambirasio, allora?

Rinviato a giudizio per le offese rivolte a Cécile Kyenge, Roberto Calderoli solleva due obiezioni.
La prima è relativa al giudizio immediato, chiesto dal pm e concesso dal gip: «Generalmente celerità fa rima con efficienza, ma in materia di giustizia penso abbia una certa rilevanza anche il rispetto delle procedure. Adesso inoltrerò una richiesta perché il Ministro della Giustizia attivi un’ispezione al Tribunale di Bergamo affinché venga appurato se ci sono state irregolarità in questa vicenda».
Non gli sta bene che la faccenda sia risolta in tempi brevi, è evidente, ma appellarsi al rispetto delle procedure è scelta infelice, nel merito e nel metodo. Nel merito: «Quando la prova appare evidente [e in questo caso c’è tanto di video che prova l’offesa rivolta Roberto Calderoli a Cécile Kyenge], salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini [e in questo non si capisce come potrebbe], il pubblico ministero chiede il giudizio immediato se la persona sottoposta alle indagini è stata interrogata sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova [e in questo caso così è stato]» (art. 453 c.p.p.); «Entro novanta giorni dall’iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335, il pubblico ministero trasmette la richiesta di giudizio immediato alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari [e così è stato in questo caso]» (art. 454 c.p.p.); «Il giudice, entro cinque giorni, emette decreto con il quale dispone il giudizio immediato [come ha legittimamente disposto in questo caso] ovvero rigetta la richiesta» (art. 455 c.p.p.). Dove sarebbe venuto meno il rispetto delle procedure?
E qui veniamo al metodo: che senso ha – per meglio dire: che senso cerca – il chiedere al Ministro della Giustizia un’ispezione al Tribunale di Bergamo, quando basta sfogliare le pagine del Codice di Procedura Penale? Pare evidente che l’appello non sia alla Giustizia, ma al Ministro, anzi, a questo Ministro della Giustizia, e da Senatore, anzi, da Vicepresidente del Senato.
Seconda obiezione: «Auspico – ha detto Roberto Calderoli – la medesima solerzia ed efficienza anche per la risoluzione del caso di Yara Gambirasio. Parenti e amici attendono giustizia da quasi tre anni per lei, anche se capisco bene che una frase detta in un comizio sia molto più grave dell’omicidio di una tredicenne innocente».
Un vero e proprio delirio, in apparenza. Che per giunta si concede pure il lusso dell’ironia. Su quale piano, infatti, si può proporre un’interpolazione tra un caso come quello che vede vittima Cécile Kyenge e un caso come quello che vede vittima Yara Gambirasio? Non su quello logico, perché sappiamo bene chi ha dato dell’«orango» a Cécile Kyenge, ma ancora non abbiamo un presunto colpevole dell’assassinio di Yara Gambirasio. Né su quello giudiziario, perché nel primo caso è in questione la decisione del giudice, nel secondo il lavoro dell’inquirente. Dovremmo concludere che a Roberto Calderoli manchi una rotella, ma sarebbe conclusione affrettata e, tutto sommato, ingenerosa.
Con la prima obiezione, infatti, si attua il tentativo di coinvolgimento di Anna Maria Cancellieri, che dopo il caso Ligresti non può più respingerne alcuno. Può disporre un’ispezione al Tribunale di Bergamo? Senza dubbio. Ma qui ce ne sono gli estremi? Domanda irrilevante: se è prevalso il momento «umanitario» su quello «legaritario» nel caso Ligresti, perché non dovrebbe prevalere nel caso Calderoli? So bene che anche questa interpolazione non regge sul piano giudiziario, ma regge su quello della stessa logica che giustifica, con la seconda obiezione sollevata, il tentativo di coinvolgere la pancia di chi, fermato dalla Polizia Stradale per aver superato i limiti di velocità, si lamenti della multa elevata a suo carico, perché «intanto i responsabili della strage di Ustica sono ancora impuniti»

[...]


«Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti, avessero più amor proprio degli altri e più stima di sé, e i timidi meno. Tutto il contrario. I timidi, per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di sé, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e, occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario per la contraria cagione, cioè per aver poca cura o concetto di sé, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l’amor proprio degli altri, e n’hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo nemomamente, ma di porsene a rischio benché leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così, per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro»

Giacomo Leopardi, Zibaldone (4037-4038)

Filottete

Ricordati di vivere (Bompiani, 2013) si presenta come un libro di memorie: «Se mi decido a scrivere non è per rivendicare meriti o per riscattare torti, non sono spinto da risentimenti e neppure da nostalgia… Scrivo per sottoporre la mia esistenza a un esame…» (pag. 7). A leggerlo come autoesame, però, ci si distrae: tutta l’attenzione va nel cogliere gli istanti di contraddizione tra come ce la ricordavamo noi e come ce la racconta Claudio Martelli, e ci si perde la dimensione più autentica del libro, che è quella lirica, anzi, epica. D’altronde non ha indice dei nomi e, giunti in fondo, si sente che la trama era un pretesto. Abbandonato sull’isola di Lemno, Filottete ripete: «Io so poche cose, ma le ricordo benissimo» (pag. 594). 

venerdì 8 novembre 2013

Domanda

Mettete conto che io dica a un architetto: «Non ti sei mai laureato, non hai mai sostenuto l’esame di abilitazione professionale, eserciti abusivamente»; che quello, offeso, mi metta sotto il muso un regolare certificato di laurea e il tesserino d’iscrizione all’Ordine degli Architetti, esigendo che mi scusi; e che allora io gli dica: «Niente scuse, era solo per verificare se eri in regola». Domanda: se quello mi afferra la testa e me la fracassa sul tecnigrafo – sarà permalosetto, non ci piove – ma ha torto?
Mi direte che ha ragione, ma che da quella passa al torto, perché nulla giustifica mai la violenza. Ok, concesso, e allora consentite una variante. Mettete conto che, invece di fracassarmi la testa sul tecnigrafo, quello mi chieda: «Ma, scusa, se avevi qualche dubbio sulla regolarità dei miei titoli di studio, non bastava consultare il Registro Nazionale degli Architetti? Non potevi chiedermi di mostrarti l’attestato di laurea?»; e che allora io risponda: «Offenderti mi sembrava il sistema più sicuro». Domanda: se non mi ha fracassato la testa prima, sbaglia a fracassarmela ora? Ok, ok, ho capito, siete tipini miti, civilissimi, e «la violenza mai, in nessun caso». Come non detto, ritiro la domanda e ve ne faccio un’altra.
Mettetevi nei panni dell’architetto, e dite: quale reazione pensate  sia la più giusta nei confronti di uno stronzone della mia caratura? Mi date del matto e mi mandate a fare in culo? Mi denunciate per diffamazione? Vi armate di tanta santa pazienza per spiegarmi che agire come ho agito non è bello, e non sta bene, e non si fa? Oppure ritenete che la cosa più giusta da fare sia niente? Se siete propensi a credere che quest’ultima sia la migliore soluzione, vi avverto: sono uno stronzone di notevole caratura e, dopo aver appurato che non esercitate abusivamente la professione di architetto, mi sta prendendo l’irrefrenabile curiosità di sapere se vostra madre, vostra sorella e vostra moglie siano davvero donne oneste e morigerate, e per farmela passare sto per dirvi che sono tutte e tre delle grandissime puttane, che a mio parere è «il sistema più sicuro» per accertarmi che non lo siano. E dunque?


Forse ho posto la questione nel modo sbagliato, vediamo se riesco a sistemarla nel modo giusto. Usciamo dall’ipotesi e entriamo in un caso concreto.
Prendiamo Riccardo Magi, al quale Marco Pannella ha dato del truffatore e del ladro: truffatore per aver detto di aver raccolto 44.000 firme per Roma Sì Muove, quando le firme – così Marco Pannella ha detto ai microfoni di Radio Radicale in almeno quattro occasioni – non erano più di 26.000; ladro per aver sottratto le firme raccolte dalla sede radicale di Via di Torre Argentina. Visto che le firme erano davvero 44.000 e che da Via di Torre Argentina erano state portate vie da Riccardo Magi solo perché gli avevano detto fossero d’ingombro, possiamo dire si trattasse di offese belle e buone? Marco Pannella dice di no. Dice che quello gli è sembrato «il sistema più sicuro» per accertarsi se le cose stessero come affermava Riccardo Magi.
Tutto questo è accaduto nel corso della direzione di Radicali italiani del 2 novembre, e Riccardo Magi, che è un tipo mite, civilissimo, e che fin lì non aveva sporto denuncia a Marco Pannella, a questa spiegazione non gli ha rotto una sedia in testa, né l’ha mandato a fare in culo, né ha ritenuto necessario dirgli almeno «guarda, Marco, che ti sei comportato di merda». E qui non è il caso che riformuli la domanda.   

[...]

Un altro argomento, e ottimo argomento, in sfavore di Anna Maria Cancellieri: «Se il mondo finisse domani, sarebbe meglio dare un beneficio giusto a una persona piuttosto che non darlo a nessuno, quale che sia il criterio. Il mondo però continua. E questo tipo di scelte dovranno essere compiute mille altre volte. Usare un criterio ingiusto pur di migliorare lo stato delle cose di oggi potrebbe peggiorare lo stato delle cose di domani» (regcoffeeblog).

«È questa, la realtà!»

mercoledì 6 novembre 2013

Investimento a costo zero


A smorzare gli entusiasmi di chi alla vista di Bergoglio che liscia il poveretto zeppo di bozzi si è lanciato a peso morto in parallelismi sbilenchi col Gesù tra i lebbrosi, urge chiarire che la patologia di cui è affetto il lisciato è la neurofibromatosi di tipo 1, altrimenti detta morbo di Recklinghausen, niente affatto contagioso. Insomma, si è trattato di un investimento a costo zero. 

[...]


martedì 5 novembre 2013

Si troveranno quattro o cinque volontari?

Da come paiono mettersi le cose a Palazzo Madama, Anna Maria Cancellieri non sarà tenuta a dimettersi. Doveva chiarire, ma non ha chiarito niente, non ha detto nulla di più quanto avesse già detto ai giornalisti in questi ultimi giorni. Era amica della famiglia Ligresti, si può negarle di avere amici, da ministro? Sentiva il bisogno di farsi empatica col pregiudicato, si vorrà mica vietarle l’empatia? Ha detto: «Qualsiasi cosa io possa fare conta su di me», ma non ha fatto niente. Cioè sì. Cioè no. Insomma, sì, ma no. E le credono. Come potrebbero non crederle? Porta in aula il puro distillato del familismo e dell’arrangiarsi, i pilastri del saper vivere allitaliana.
Le credono, così pare prevalga l’idea che la scarcerazione di Giulia Maria Ligresti sia stato un atto dovuto, che le sue condizioni cliniche fossero incompatibili con la detenzione in carcere. Anoressia, capite? Unanoressica ci mette anni per crepare, ma una Ligresti può metterci anche soltanto tre mesi. Un sostegno psicologico sarebbe stato inutile, per convincerla a mangiare era necessario mandarla a casa. Fatto, è stata salvata una vita. Chi è così bestia da sollevare la questione egalitaria rammentando che in carcere si continua a morire per cancro, aids e perfino per tubercolosi?
In quanto al Guardasigilli, pare che la maggioranza del Senato le creda, o voglia crederle, perché le sue spiegazioni non fanno affatto chiarezza, sicché crederle esprime atto di fede. Si sarebbe interessata a un caso umano, ma l’interessamento non sarebbe andato oltre la segnalazione alle autorità competenti, tutte a lei soggette, e non si capisce in quale misura la segnalazione non avesse implicito l’effetto di induzione. Analogie col caso Ruby? Non diciamo sciocchezze.
Si sarebbe interessata ad altri casi analoghi, però – dice – «negli ultimi tre mesi», in pratica è il caso di Giulia Maria Ligresti che le ha fatto venir voglia di attivarsi per risolvere analoghe situazioni critiche, visto che dal 28 aprile al 17 luglio non risultano suoi interventi.
C’è perfino qualche senatore che ha detto sia del tutto «naturale» che un ministro si attivi personalmente in favore dei casi che arrivano alla sua persona, poco importa se il modo in cui vi arrivano costituisca via privilegiata rispetto a quella mille volte più tortuosa di chi non abbia famiglia facoltosa, o neppure famiglia, di chi non sia simpatico al cappellano penitenziario, di chi non abbia l’indirizzo di Rita Bernardini o di Luigi Manconi, di non abbia soldi per pagarsi un avvocato decente, e insomma al magistrato di sorveglianza non abbia modo di far arrivare il suo urlo di dolore. 
Insomma, a Palazzo Madama, è prevalsa la tesi che sia meglio salvarne uno che nessuno, poco importa se chi si salva sia immancabilmente un potente. Mica è colpa sua se trova il modo precluso ad altri, no?

Bene, il caso sembra archiviato. Di fatto si riaprirà col primo poveraccio che morirà in carcere. In questo merda di paese dove il favore s’è mangiato il diritto si troveranno quattro o cinque volontari che ne porteranno la bara in spalla fino a via Arenula urlando da basso ad Anna Maria Cancellieri di affacciarsi al balcone?

lunedì 4 novembre 2013

La frattura tra «umanitario» e «legalitario»


È buona norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni garbati. Ahimè, non sempre è possibile. Spesso, infatti, fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in rissa. Quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile, io ricorro a un espediente che mi si è rivelato sempre efficace: prendo in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata onestà e d’indole affabile, e devo confessare che, quando li ho trovati solidi fino al punto da cambiare idea, dichiararmi sconfitto è stato un piacere.
Il guaio è che con la ristrettissima cerchia di persone cui riconosco tali meriti vado d’accordo su quasi tutto, mentre sul poco che ci vede in disaccordo non vale la pena di polemizzare, perché attiene per lo più a differenze di gusto. Stavolta, però, sul caso Cancellieri, mi è offerta l’opportunità, e da Massimo Bordin, che non ha eguali, a mio modesto avviso, per intelligenza, rettitudine e signorilità. Posso così trascurare del tutto gli argomenti che in favore del Guardasigilli sono stati fin qui prodotti da ingenuità o malafede, con ciò evitando il rischio di scivolare nell’invettiva, per prendere in considerazione solo quelli che Massimo Bordin ha esposto nel corso della rassegna stampa di lunedì 4 novembre, dai microfoni di Radio Radicale.
Occorre, tuttavia, una precisazione: i suoi argomenti, in realtà, sono controargomenti, rapide e asciutte annotazioni polemiche a margine degli articoli di quanti stigmatizzavano la condotta del Ministro della Giustizia. Argomenti non per questo meno efficaci di una vera e propria difesa del suo operato, e con una ben chiara linea, tutta in punta di principio. E qui mi pare ci sia il primo punto debole dell’argomentazione offerta da Massimo Bordin, perché in difesa di questo principio, che è quello più correntemente detto «umanitario», un altro principio, quello più correntemente detto «legalitario», trova modo di essere degradato a mera pulsione «giustizialista», a cieco arco riflesso che trasforma il sacrosanto bisogno di giustizia in bieco desiderio di vendetta, in crudele accanimento su un capro espiatorio che perde ogni dignità di persona per farsi vittima sulla quale una plebe inferocita abbia a sfogare ogni sorta di disagio e di malessere.
Perché il principio «umanitario» possa degradare in tal modo quello «legalitario» occorre dimostrare che il primo non sia meno «giusto» del secondo, ma che anzi il primo abbia in sé una logica che non si esaurisce nella pietà, ma fa vera «giustizia», mentre il secondo piega la «legge» a un’urgenza deterrente o punitiva che riduce il colpevole, e spesso anche solo il presunto colpevole, al reato ascrittogli da un’accusa che considera ogni garanzia un ostacolo al soddisfacimento di quella urgenza. Sembrerebbe d’essere, in buona sostanza, dinanzi a quanti vogliono a tutti i costi vedere nell’operato di Anna Maria Cancellieri un abuso di potere trascurando gli elementi che fanno della sua «umanità» la più genuina espressione di ciò che la «legge» deve essere per realizzare «giustizia».
Qui potremmo levitare ai massimi sistemi. Potremmo farci aiutare da Jacques Derrida nel definire la relazione tra «legge» e «giustizia» (Force de loi, 1994). Potremmo addirittura riandare alla filogenesi del diritto come espressione di quella «teologia politica» che si assume il compito irrealizzabile di trovare in terra un equilibrio, se non la sintesi, di «carità» e «verità» (Der Nomos der Erde, 1974). Meglio rimanere con i piedi a terra e, pur riconoscendo nel caso Cancellieri tutti gli elementi che consentono una presa di posizione istintivamente «umanitaria» o «legalitaria», limitiamoci a considerare esclusivamente quelli che reggono sul piano razionale.
Non c’è ombra di dubbio che il provvedimento in favore di Giulia Ligresti sia stato «umanitario» o che in tal modo sia presentabile a chi lo considera inopportuno per il solo fatto di aver avuto il primum movens nell’interessamento personale del Guardasigilli. In primo luogo, tuttavia, è da risolvere un problema che di fatto è posto dall’ambiguità della difesa in favore di Anna Maria Cancellieri. Da un lato, infatti, si afferma che l’interessamento personale ci sia stato, d’altronde appare innegabile dalla lettura della conversazione telefonica intercorsa il 17 luglio tra il ministro e Gabriella Fragni, nella quale, però, non si fa mai cenno a Giulia Ligresti, ma solo a suo padre. Torneremo ancora su questa telefonata, per quello che lo stesso Massimo Bordin non ha difficoltà ad ammettere sia il suo contenuto «imbarazzante», d’intanto limitiamoci a rilevare che l’interessamento personale di  Anna Maria Cancellieri in favore di Giulia Ligresti è dato per certo nella telefonata intercorsa tra Antonino Ligresti e Gabriella Fragni, il mese dopo, prima che le condizioni della detenuta siano definite a rischio dai sanitari. Significherebbe che l’interessamento personale del ministro ci sia stato in previsione di un rischio di là da venire, e di fatto non accertabile in anticipo.
D’altro canto, però, si afferma che l’interessamento del Guardasigilli in nulla sarebbe diverso da quello speso in favore di altri detenuti, e dunque non sarebbe «personale» nel senso che gli si intende dare per insinuare un trattamento di favore. Bene, tale affermazione regge solo sul piano formale, perché in sostanza è falsa: degli oltre 100 casi portati all’attenzione di Anna Maria Cancellieri solo 6 hanno avuto un esito analogo a quello che riguardava Giulia Ligresti, e si tratta di casi in cui l’interessamento del ministro c’è stato solo dopo che le condizioni dei detenuti erano state definite a rischio dai sanitari, oltre al fatto che hanno ottenuto analoghi benefici solo poco prima e poco dopo la scarcerazione di Giulia Ligresti. Ovviamente quest’ultimo rilievo può sembrare malizioso, ma assume un discreto peso se rapportato ai detenuti morti in carcere dal momento in cui Anna Maria Cancellieri è diventato ministro della Giustizia ad oggi.
L’obiezione a questi dati, che hanno significato per nulla ambivalente, è che il Guardasigilli fa quello che può, a partire dai casi che arrivano alla sua attenzione. È obiezione che solleva un problema più grosso di quello che intendeva risolvere, perché i canali che consentono a un detenuto di arrivare o no al ministro della Giustizia sono giocoforza diversi, sicché arrivarci o no costituisce un elemento di discrimine che è posto a priori della sua carcerazione. Nel caso di Giulia Ligresti sappiamo i modi in cui era posto. Sarà stata millanteria, ma Salvatore Ligresti ha vantato di essere stato utile alla carriera di Anna Maria Cancellieri: non è in questione perché l’abbia fatto, ma il fatto che abbia ritenuto di poterlo fare con la possibilità di essere creduto.
In quanto alle intercettazioni telefoniche che hanno sollevato il caso, appare in tutta evidenza che la famiglia Ligresti vantava nei confronti di Anna Maria Cancellieri dei crediti di natura tutt’altro che amicale. Anzi, ad essere onesti, sembra che l’aver dato un impiego a suo figlio, descritto dai Ligresti come un buono a nulla, fosse stato solo un investimento, che sembrava dare scarso profitto a fronte del costo. Poco importa cosa pensasse Anna Maria Cancellieri dei Ligresti prima di essere messa a corrente del contenuto di queste intercettazioni, e poco importa cosa pensi ora: di fatto si è posta nella condizione di lasciar credere ai Ligresti di poter tornare loro di qualche utilità. Poco importa, dunque, se nella faccenda ci siano gli estremi del reato, anche se questa non è questione da accantonare: ciò che importa è che quanto Giulia Ligresti ha avuto modo di ottenere sia di fatto negato a quanti non hanno una famiglia che possa rivolgersi a un ministro con la stessa convinzione di poter vantare crediti.
Qui cadono tutte le possibili obiezioni relative al ruolo realmente svolto da Anna Maria Cancellieri nella scarcerazione di Giulia Ligresti, perché a chiunque il ministro abbia inoltrato la richiesta di accertamenti riguardo alle condizioni della detenuta era la richiesta di un ministro e aveva via privilegiata. Pare evidente, infatti, che non ci sia bisogno si sostanzi un elemento di induzione o di costrizione perché una richiesta del genere abbia possibilità di avere buon esito in misura direttamente proporzionale al ruolo che chi la sollecita occupa nella scala gerarchica che dal Guardasigilli scende fino al detenuto. 
Non c’era bisogno di abuso di potere, bastava il potere discrezionalmente esercitato dal ministro, che in questo caso è fin troppo chiara negazione dell’elemento cardine del principio «legalitario», che è quello dell’uguaglianza dinanzi alla «legge». In tal senso, possiamo affermare che un intervento «umanitario» che di fatto realizza un momento di disuguaglianza dinanzi alla «legge» rimane «umanitario», ma non è necessariamente «giusto». La lesione si realizza nella telefonata del 17 luglio ed era prefigurata nei rapporti tra Anna Maria Cancellieri e la famiglia Ligresti, come è già accaduto nel maggio dello scorso anno, quando il Guardasigilli era ministro degli Interni: una proprietà dei Ligresti fu occupata da un centro sociale e lo sgombero avvenne a tempo di record. La proprietà privata è sacra, non c’è dubbio, e lo sgombero era necessario. Non meno necessario, però, di quelli che invece non vengono effettuati a soli 10 giorni dall’occupazione, come accadde l’anno scorso con la Torre Galfa dei Ligresti. Non ci sono prove che Anna Maria Cancellieri si sia attivata in quella occasione, ma oggi come può respingere il sospetto?
A parte, dicevo, ci sarebbe da commentare nel dettaglio la telefonata del 17 luglio. Anna Maria Cancellieri non si limita a consolare unamica, ma fa suoi i pesanti giudizi sulla magistratura ai quali si lascia andare la moglie di un detenuto, avalla le risibili attenuanti che basterebbero a scagionarlo e dà colpa dellaccaduto a come vanno le cose in Italia. Basterebbe questo a renderla incompatibile con la carica che riveste. 

domenica 3 novembre 2013

Anna Maria Cancellieri tra i «radicali»

I tomi II e IV dell’Opera omnia di Gaetano Salvemini (Feltrinelli, 1961-1978) e numerosi articoli di Ernesto Rossi per Il Mondo, soprattutto quelli pubblicati tra il 1949 e il 1952, poi raccolti in Settimo: non rubare (Laterza, 1954), contengono passaggi di estrema durezza nella condanna dei privilegi che producono disparità di trattamento dinanzi alla legge, e che di fatto sono la negazione della democrazia. Non c’è da stupirsene: erano radicali, e per un radicale lo stato di diritto è a fondamento di ogni libertà e di ogni giustizia che non siano vuote parole, ma concreta sostanza del vivere civile. Non si fa alcuna fatica a immaginare, dunque, cosa avrebbero scritto su un caso come quello di Anna Maria Cancellieri.
Avrebbero scritto che da almeno due decenni è in affettuosissimi rapporti con un imprenditore plurindagato e plurincondannato che sempre ha unto tutto quello che poteva ungere per procacciarsi appalti a danno dei suoi concorrenti. Che suo figlio è stato dipendente di questo imprenditore, traendone un utile esorbitante se rapportato alle sue prestazioni, come andava lamentando chi a saldo le aveva chiesto un favore che non veniva corrisposto con la sollecitudine desiderata. Che nell’adoperarsi per corrispondere questo favore, se non in abuso d’ufficio, è incorsa in un odioso uso della discrezionalità d’intervento.
Salvemini e Rossi, però, erano anche superbi polemisti e non avrebbero avuto alcuna difficoltà a spezzare le zampette di chi prova a difendere l’operato di Anna Maria Cancellieri. «Non è intervenuta solo in favore di Giulia Ligresti, ma anche di altri sei detenuti»: sì, ma basta un’occhiata alle date per capire che i sei fortunati le servissero da alibi. «Se rimaneva in carcere, Giulia Ligresti poteva morire»: dunque bisogna addebitare ad Anna Maria Cancellieri tutti i decessi avvenuti in carcere da quando è Guardasigilli? «Ma le intercettazioni portano a escludere che si sia trattato di corruzione, concussione o altro reato»: sia, ma in discussione non è il penale, ma la disciplina e l’onore che la Costituzione chiede ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, e nel caso di un ministro della Giustizia, al venir meno di onore e disciplina, vengono meno credibilità ed affidabilità, sicché si è in presenza di un gravissimo vulnus allistituzione e a quanto listituzione è chiamata a difendere. «Anna Maria Cancellieri deve dimettersi», avrebbe concluso Salvemini; e Rossi, che era appena un poco più sanguigno, avrebbe aggiunto: «Deve farlo subito».

Quelli che oggi si fanno chiamare «radicali»? Meglio non parlarne. Cioè parliamone.
Anna Maria Cancellieri era ospite al XII Congresso di Radicali Italiani, e non poteva eludere la questioncina che la invischia. L’ha trattato nel seguente modo, e mi pare che le reazioni dei «radicali» lì convenuti non abbiano bisogno di commento. 


Alla signora sono bastate due vuote chiacchiere sulla «umanità» e un indecoroso appello alla «onestà intellettuale» per cavarsela alla grande. Non poteva essere altrimenti: si è detta in favore di amnistia e indulto (tanto non è lei a dover decidere, la cosa non la impegna, tuttal più le torna utile, soprattutto adesso) e ha degnato della sua presenza un congresso disertato dall’80% degli stessi «radicali» (non ci vanno perché sanno che è del tutto inutile, tanto l’esito si decide altrove, e prima). Come dire, ci si dà una mano, e va a capire chi ne abbia più bisogno, se una manica di sfessati ormai buoni solo a reggere il logoro strascico di un vecchio matto o un ministro della Giustizia che ormai sembra avere la fiducia solo di chi sul caso Ruby votò la mozione Paniz. Salvemini e Rossi? Morti da tempo, in tutti i sensi. 

sabato 2 novembre 2013

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Lui non era nipote di Mubarak e lei non aveva dato lavoro al figlio del Guardasigilli.

giovedì 31 ottobre 2013

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Sulla questione «voto palese o voto segreto» risparmiamoci l’excursus storico dalla Grecia antica ai nostri giorni, e limitiamoci a considerare che, oggi, a lamentare la decisione di ricorrere al voto palese lì dove era pratica corrente quello segreto, decisione presa a maggioranza semplice dalla Giunta per il Regolamento di Palazzo Madama, sono proprio quelli che, ieri, lamentavano l’intoccabilità della Costituzione, chiedendone modifiche col voto a maggioranza semplice: gli articoli della Costituzione non sono mica le Tavole della Legge, dicevano ieri, e oggi, a sentirli, sembra che a portare giù dal Sinai il Regolamento del Senato sia stato Mosè in persona. Non è la prima volta che i servi di Silvio Berlusconi mostrano tenuta malferma su questioni di principio, e di certo non sarà l’ultima, ma è che di principi ne hanno uno solo, la fedeltà al padrone. La questione di merito, in casi come questi, si riduce a questione di metodo, e questa non può che risolversi nella presa d’atto dell’esito di un voto. Prosaicamente: l’hanno preso in culo e devono farsene una ragione. 

martedì 29 ottobre 2013

lunedì 28 ottobre 2013

Bacino, ancora niente

Twitto poco – dall’apertura dell’account ad oggi ho calcolato una media di 1,4 tweet al giorno – e la ragione sta nel fatto che «in 140 battute entrano tre splendidi endecasillibi o una scatarrata di insulti, ma non si riesce ad argomentare un cazzo» (@lmcastaldi, 19.3.2012 il primo tweet, mettevo le mani avanti). Sì, tra il certame in versi e la rissa da suburra c’è anche la conversazione mondana, che spesso può essere brillante anche solo monosillabando, concordo, ma quella non è il mio forte. O c’è il link a quella strepitosa cosuccia che si è postata due minuti fa sul proprio blog, non sarebbe un vero peccato se l’umanità se la perdesse? Tre o quattro volte l’ho fatto anch’io, però provando subito dopo un certo imbarazzo, e ho preferito accontentarmi che il post fosse segnalato da altri, quando capitava. Poi ci sarebbe pure il commento televisivo in diretta, e non nego che può esser pure divertente, ma almeno per me è sempre a un passo dal deprimente. Idem per il ribattere ai tweet altrui, chessò – faccio un esempio – quelli di Roberto Formigoni: anche quando ti alza la palla per darti l’opportunità di una micidiale schiacciata, e non c’è tweet che non te ne alzi una, schiacci, rischiacci, rischiacci ancora, ma poi finisci per chiederti «è più cretino lui a provocare o io a cascarci?». Twitter, insomma, non fa per me. Non in scrittura per lo meno, perché in lettura lo considero un simpatico spioncino. Simpatico, però pericoloso, perché può dare la stessa illusione di stare a far sociologia che si può coltivare porgendo orecchio alle chiacchiere in metrò o in fila al supermercato… Vabbe’, basta così, sennò prendo la tangente, in fondo si trattava solo della premessa a un post che prende spunto da due scambi di battute che ho avuto poco meno di un mese fa su Twitter.
Era la sera di martedì 1° ottobre, tutto il social network vibrava nell’attesa di quello doveva accadere l’indomani, e su cosa dovesse accadere sembrava non ci fosse ombra di dubbio: Silvio Berlusconi avrebbe tolto la fiducia al governo, questo avrebbe significato la spaccatura del Pdl, la fine del Ventennio… Figurarsi. Figurarsi se a questa possibilità, che – occorre sottolineare – era pur sempre soltanto una possibilità, Silvio Berlusconi non avrebbe messo riparo da par suo. C’era solo un modo, ed era quello di non far cadere il governo, per prendere tempo. Significava fare una micidiale figura di merda, peraltro mostrandosi sconfitto due volte agli occhi del mondo, in casa e fuori. Il voto a Palazzo Madama era solo di lì a poche ore dall’annuncio ufficiale che avrebbe votato la sfiducia e i suoi fedelissimi lo avevano sottoscritto con parole di fuoco. Il governo sarebbe caduto? Chissà. I cinque senatori a vita di fresca nomina, qualche «responsabile», una dozzina di grillini… Poteva non cadere, e allora la sconfitta sarebbe stata atroce. O poteva cadere, ma chi gli assicurava che si andasse alle urne? Certo non il Quirinale. Dalle urne, d’altronde, chi gli assicurava di non prendere legnate? E poi: avrebbe potuto ricandidarsi? La Giunta per le elezioni e le immunità del Senato avrebbe funzionato anche a Camere sciolte, e di lì a due o tre settimane la Corte di Appello avrebbe emesso la sentenza sulla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Poteva ricorrere in Cassazione anche su quella, ma intanto, a Camere sciolte, non sarebbe stato più senatore e una qualsiasi procura avrebbe potuto chiedere, e ottenere, un provvedimento di custodia cautelare nei suoi confronti per una delle tante accuse che gli pendono sul groppone. Che fare, dunque? Il governo, innanzitutto, non doveva cadere. Questo gli avrebbe dato modo di congelare la scissione del Pdl che sembrava essere cosa fatta con l’annuncio della costituzione di un gruppo parlamentare da parte dei cosiddetti «governativi». Doveva scongiurarla. Doveva prendere tempo. Solo così avrebbe avuto modo di rosolare le «colombe», evitando per giunta di dover usare lo spiedo lungo che era servito per Gianfranco Fini. Non c’era altra soluzione: doveva votare la fiducia al governo. Il resto si sarebbe visto poi, ma votare la fiducia era indispensabile. Era un prezzo enorme? Lo sarebbe stato per chiunque avesse avuto un minimo di dignità, anche solo due grammi, ma la sola dignità di Silvio Berlusconi sta nella cura dei cazzi suoi.
Ecco, per spiegare per quale ragione lo stupore generale del 2 ottobre poteva trovare spiegazione solo nella piatta ottusità di quanti continuano a rimanere ogni volta spiazzati dalle sue trovate solo perché usano la loro testa invece di provare a ragionare con la sua, ci ho messo le oltre 2.500 battute spazi inclusi dellultimo capoverso. Ok, sarò verboso, convengo, ma ognuno ha i propri limiti, e non sono riuscito ad argomentare più sinteticamente. Dovendo ridurre il tutto a 140 battute – erano le 22.00, la mattina dopo avevo la sveglia alle 5.00, un post su queste pagine mi avrebbe preso troppo tempo potevo far meglio di così?  


Boh, non saprei dire. Anche a posteriori, non saprei dire. Sta di fatto che, anche a fronte di ciò tutto che Silvio Berlusconi ci ha mostrato di se stesso da quando è «sceso in campo» fino a quella sera, il tweet destò perplessità. Due perplessità. Una, espressa in modo garbato, rivelava il buon senso chi la sollevava, e il buon senso – consentitemi la digressione, che piglio a prestito da Ortega y Gasset  non viene mai meno al dovere di trattare il prossimo alla pari. Ma il buon senso è uno strumento efficace per prevedere le mosse di chi ha per solo movente la lucida disperazione di chi avverte il pericolo  reale o allucinato – di aver tutto da perdere? Silvio Berlusconi è un criminale. O un malato. O entrambe le cose. Dinanzi ad un soggetto del genere la logica che regge il buon senso non può essere più efficace di quanto possa esserlo la conoscenza dell’anatomia felina nella gabbia di un leone che non mangia da una settimana.  


Proprio perché non reggeva al buon senso, la previsione era probabile. E così i fatti si sono incaricati di renderla possibile fino allinevitabile.
La seconda perplessità era espressa in tuttaltro modo. Sul fondo, riportato alla luce dalla frequentazione con gli Angelucci, era ben evidente la nascita in quel di Castellammare di Stabia, mentre tutto intorno ai margini dellabrasione persisteva il sottile strato di smalto spennellato in quel di Londra. 


Quasi un mese è passato. Silvio Berlusconi ha ormai ricompattato il partito. Pare sia intenzionato a candidare sua figlia alle prossime elezioni. Bacino, ancora niente. 



sabato 26 ottobre 2013