Ci sono matti che credono di
essere Napoleone e matti che credono di essere Talleyrand.
venerdì 9 dicembre 2016
martedì 6 dicembre 2016
Ma non subito
Era
training autogeno già alla vigilia, quando la paura di perdere
cominciava a incrinare la convinzione, maturata poi chissà come, che
il Sì avesse recuperato e fosse prossimo al sorpasso: si diceva che
in caso di sconfitta, che comunque poteva essere solo di stretta
misura, Matteo Renzi avrebbe avuto buon diritto di intestarsi quel
49, quel 48, quel 47 per cento, come espressione di una fiducia che
gli era rinnovata da mezza Italia, o quasi, mentre l’altra metà
gliela negava, certo, ma solo in forza dell’essere accozzaglia di
tutto il resto, roba buona a fare opposizione, ma incapace di
esprimere una credibile alternativa di governo.
Avesse
vinto il Sì, nessun problema: era chiaro, con ciò, che Matteo Renzi
avesse il consenso di più della metà del paese, che evidentemente
aveva voluto confermargli la fiducia che gli era stata espressa col
voto delle Europee del 2014. In entrambi i casi, le Politiche erano
da considerarsi mera formalità. Diventava irrilevante stabilire
quando indirle, altrettanto irrilevante stabilire con quale legge
elettorale tenerle, si poteva lasciar decidere a lui dell’una
e dell’altra cosa, secondo come
gli girava l’agenda.
Erano
i suoi a dargli voce, li avrete sentiti. Sgusciando la fava dal
baccello: «Di chi è la riforma
costituzionale? Sua, no? Giocoforza, allora, il Sì alla riforma sarà
un Sì anche a lui: la personalizzazione del referendum, dunque, è
più che legittima. Anzi no, come non detto, personalizzarlo è un
errore, non vi permettete di personalizzarlo. Mettendo da parte
l’antipatia nei suoi confronti, infatti, considerando il merito
della riforma, anche un elettore di Forza Italia o, perché no, del
M5S, se intellettualmente onesto, può trovarla buona, e votare Sì.
È chiaro, naturalmente, che poi andrà conteggiato come elettore che
vuole resti a Palazzo Chigi. Diciamo che la personalizzazione
continua ad essere legittima, ma solo per quanto può tornargliene di
comodo».
È
training autogeno anche adesso che la sconfitta si è rivelata assai
più pesante e, tutto sommato, poteva esserlo anche se il No avesse
vinto col 62, col 63, col 64 per cento, perché un uomo cui va il
consenso del 38, del 37, ma anche soltanto del 36 per cento di un
elettorato che ormai è tripolarizzato, può dirsi pienamente
legittimato a proporsi come più la credibile offerta di leadership
presente sul mercato. Solo l’Italicum
potrebbe mettersi di traverso, ma ci penserà la Consulta a
rottamarlo, e sì che era un gioiellino, tutta l’Europa
ce l’avrebbe invidiato. Presto,
allora, si voti.
Poi
c’è che il Sì ha raccolto il 40 per cento e 40 è un numero
portafortuna, perché è col 40 per cento che Matteo Renzi perse le
Primarie contro Pierluigi Bersani nel 2012 ed è col 40 per cento che
vinse le Europee del 2014: la fede cieca ci vede la fatale sinusoide,
dopo un 40 per cento con cui si perde c’è un 40 per cento con cui
si vince, e se ieri è col 40 per cento che si è perso, si vada
subito al voto perché sarà di certo col 40 per cento che il Pd
vincerà le Politiche.
È
impossibile capire quanto ci sia di qabbalàh in questo modo di
trarre indicazioni dal risultato del 4 dicembre, di certo trova un
senso pienamente intellegibile solo nella malata logica che assegna a
Matteo Renzi il ruolo di uomo indispensabile al paese, mentre in
realtà lo è solo ai suoi cortigiani, che continuano a reggergli lo
strascico anche adesso che dalla piazza s’è levata voce che il re
è nudo. Sono loro ad aver drogato per anni la sua autostima fino a
trasformarla in narcisismo paranoide, sono loro ad averlo portato
alle vette di un delirio, a tratti lucido, ma sempre meno, dal quale
ormai gli è consentito solo precipitare. Ma non subito. Mancano ancora le convulsioni, che di solito prendono tempo.
lunedì 5 dicembre 2016
[...]
Sono
note le ragioni che da qualche tempo rendono sempre meno attendibili
i sondaggi relativi alle intenzioni di voto, fino a materializzare
sempre più spesso il proverbiale granchio quando le opzioni si
riducono a due. C’è
innanzitutto il fatto che la
cosiddetta morte delle ideologie e la conseguente crisi dei partiti a
forte impronta identitaria hanno reso i corpi elettorali estremamente
fluidi. Per ottenere risultati più affidabili, quindi, sarebbe
necessario sondare campioni assai più ampi, ma questo comporterebbe
tempi troppo lunghi e costi spesso insostenibili: politica e
comunicazione corrono assai più in fretta di quanto abbiano mai
fatto, e non hanno più le risorse di cui godevano in passato.
Ma
accanto a questi fattori ve ne
è
un altro che non sembra affatto irrilevante, visto che sempre più
spesso viene chiamato in causa per dar ragione di errori di
previsione che talvolta arrivano ad essere tragicomicamente vistosi: sono sempre più numerosi, fra quanti sono contattati dagli istituti di
rilevamento, coloro che rifiutano di esprimere la propria
intenzione di voto o addirittura ne dichiarano una che non corrisponde a quella reale.
Su perché questo accada non c’è
unanimità di parere, ma sembra che sia preminente il timore di
esprimere un’intenzione
di voto che si ritiene possa incorrere in un maggioritario giudizio
di deprecazione: «C’è
chi mente per vergogna», ha sintetizzato Oscar Mazzoleni, che
insegna Scienze politiche all’Università
di Losanna, per spiegare perché negli Usa tutti i sondaggi dessero
la vittoria a Hillary Clinton.
Pare
pretendere qualche sostegno, all’indomani
del voto del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, la tesi che
«stavolta i sondaggi ci hanno azzeccato», minimizzando il
fatto che, fino a quando ne è stata possibile la diffusione, ma
anche dopo, quando pateticamente camuffati ne trapelavano comunque
gli aggiornamenti, non abbiano mai assegnato al No un vantaggio
maggiore di
7-8 punti, mentre il risultato gliene dà 20.
È uno scarto che ci
consegna un’Italia
in cui almeno 2 o 3 milioni di persone avevano una qualche forma di
imbarazzo nel dichiararsi a favore del No, e hanno mentito, dicendo che avrebbero votato Sì o schermendosi si dicevano ancora indecise. E io credo che a tanto
possa quantizzarsi l’Italia
che ha creduto nella solidità culturale, prim’ancora
che politica, di una possibile età
renziana, e che naturalmente ora non ci crede più.
Non è per sminuire
l’importanza di un risultato che ha numerose altre implicazioni –
ci tornerò sopra – ma la prima considerazione che ritengo utile è
relativa proprio a questo dato: prima che la guida del governo, Renzi
ha perso lo smalto dell’uomo che inaugura un’epoca.
Molto peggio
che aver preso finalmente atto che c’è chi ti odia più di quanto
tu credessi, è scoprire che un di più ti odiava, ma aveva qualche
riserva nel fartelo sapere, e ora non più.
sabato 3 dicembre 2016
Perché
Sono
passati undici anni da quando gli italiani furono chiamati a
esprimersi sulla legge 40/2004, ma per me è come fosse ieri, perché
la gran parte delle mie odierne convinzioni relative a società,
politica e diritto hanno fondamento nella lezione che ho tratto da
quella tornata referendaria, e fu lezione durissima.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento l’approvò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dell’ovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nell’obiettivo di far mancare il quorum con l’invito all’astensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento l’approvasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con l’illegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso l’errore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento l’approvò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dell’ovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nell’obiettivo di far mancare il quorum con l’invito all’astensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento l’approvasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con l’illegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso l’errore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.
martedì 29 novembre 2016
lunedì 28 novembre 2016
La ragione non ha taciuto
Sono convinto che sarà il
Sì a vincere, e credo che sia sempre stato in vantaggio sul No, anche
quando i sondaggi dicevano il contrario, per la semplice ragione –
qui il lettore mi consenta il bisticcio – che non basta aver
ragione per aver ragione, anzi, talvolta può addirittura rivelarsi
un handicap, e di questo avremo ulteriore conferma lunedì prossimo,
con l’approvazione di una
riforma costituzionale che non doveva nemmeno essere mai scritta,
perché a promuovere un processo che revisiona un terzo della
Costituzione non può essere il Governo, e l’input non può esser
dato da un Presidente della Repubblica che condiziona la sua
rielezione all’impegno che in tal senso dovrà assumersi chi poi
egli sceglierà come Presidente del Consiglio, e ad approvare il
testo di una riforma costituzionale, che perciò già in nuce è cosa aberrante, non può essere un Parlamento eletto con una legge
elettorale dichiarata incostituzionale, autorizzato a legiferare in
regime di prorogatio al solo fine di assicurare la continuità dello
Stato, di certo non a riscrivere le regole sulle quali è fondato.
Il No ha ragione senza
neppure dover entrare nel merito delle modifiche che questa riforma
intende apportare alla Costituzione, e a entrarci ne acquista
ulteriormente, perché è proprio nel merito che essa rivela quanto
non fosse affatto necessaria, tanto meno urgente, rivelando che, a
dispetto di quanto afferma chi l’ha
scritta, non semplifica affatto il processo legislativo, né ne
abbrevia i tempi, né riduce i costi della politica, se non in misura
irrisoria, mentre invece di sicuro riduce il peso della sovranità
popolare e cancella ogni distinzione tra potere esecutivo e potere
legislativo.
È una riforma costituzionale (in realtà, una revisione
costituzionale) che non ha visto affatto il concorso ampio e
adeguatamente rappresentativo di tutte le forze politiche alle quali
fosse stato dato dal voto popolare un esplicito mandato in tal senso,
ma il passivo consenso di un Parlamento di nominati costantemente
ricattati dalle segreterie dei partiti, e arriva al vaglio
referendario in forza di una formalità procedurale più volte
forzata fino al limite della sua rottura, per farsi momento di
divisione invece che di condivisione, e solo perché ostinatamente concepita come posta
di una scommessa tutta personale.
Ogni ragione è dalla parte del No,
ma questo non gli darà ragione, c’è
da esserne certi, perché il piano sul quale ragione e torto sono
chiamati a confrontarsi – quello del diritto, che poi è il piano
dove la logica si fa imperativa – è ormai da tempo devastato
dall’ignoranza e dall’arbitrio. E tuttavia occorre spendersi in favore del No, per lasciar traccia che, seppur costretta ad aver torto, la ragione non ha taciuto.
domenica 27 novembre 2016
sabato 26 novembre 2016
Ignorantia more geometrico demonstrata
Ve
ne fosse stato bisogno, ecco un altro
saggio di quell’incompetenza che, più ancora dell’insopportabile
arroganza che pure le è indissolubilmente intrecciata, è tratto
comune e distintivo degli uomini e delle donne che stanno a corte di
Matteo Renzi: la Consulta boccia la riforma della pubblica
amministrazione scritta da Marianna Madia per la parte che dovrebbe
darle attuazione attraverso i decreti legislativi, e la sentenza
rivela quale sia il vizio di fondo di chi da qualche anno occupa
abusivamente le stanze del Palazzo, per giunta menando vanto del proprio analfabetismo istituzionale come segno di freschezza giovanile: l’illegittimità
costituzionale è contestata al punto in cui il Governo dovrebbe
agire in intesa con le Regioni, ma si dà potere di farlo solo previo
loro parere, peraltro non vincolante: una roba che per sottofondo chiede «e
qui comando io / e questa è casa mia».
[...]
Incorrendo
nell’erronea affermazione che l’inventore della ghigliottina morì
ghigliottinato (in realtà la morte di Joseph-Ignace Guillotin si
ebbe per sepsi da Bacillus anthracis), Gianfranco Fini (L’aria
che tira – La7, 25.11.2016)
ci offre l’occasione di chiederci cosa possa assicurare a un falso
storico la fortuna che talvolta pare francamente inspiegabile a
fronte delle contestazioni che, com’è nel caso qui preso ad
esempio, seguono puntuali e inoppugnabili ad ogni suo rilancio. Credo
si tratti di quella che solitamente è detta «morale della favola»:
anche quando si può dimostrare che una narrazione riporta in modo
infedele gli eventi che si incarica di rappresentare, essa non perde
forza persuasiva se dà risposta all’attesa di un paradigma
universalmente valido. In altri termini, direi che un falso storico
rimane convincente anche quando si rivela tale, se è in grado di
illustrare in modo efficace la norma che ci si aspetterebbe fosse
necessariamente attiva in ogni situazione analoga a quella di cui il
narrato si offre a esempio. Semplificando ancora, e riportando al
caso in questione: anche se non è vero, è bene che l’inventore
della ghigliottina muoia ghigliottinato per dar ragione del
proverbiale «chi la fa
l’aspetti».
A corollario possiamo aggiungere che, per venire incontro a questa
esigenza, non è necessario che il falso storico stravolga del tutto
la realtà degli eventi, perché a rendere efficacemente emblematica
la norma che vuole illustrare possono bastare anche modifiche
marginali, com’è
nel caso, in tutto analogo a quello di monsieur Guillotin, offerto
dall’adagio «Gioacchino facette ’a
legge e Gioacchino murette ’mpiso»
(in realtà, Gioacchino Murat non fu impiccato, ma fucilato), dove è
evidente come una forca si presti assai meglio di un plotone di
esecuzione a rappresentare il cappio nel quale spesso finiamo per
infilare involontariamente il collo.
Credo che tutto questo valga
anche per la «post-verità»:
tanto più credibile non quanto più verosimile, ma quanto più utile
a confermare un pregiudizio morale, spesso neppure coscientemente
avvertito.
giovedì 24 novembre 2016
Ammàzzate-oh!
Paolo Mieli (Ottoemezzo,
23.11.2016) ritiene sia assurdo credere che Vincenzo De Luca abbia
mai realmente pensato che Rosy Bindi meriti d’essere
ammazzata, e ancor più assurdo credere che quel suo «da
ucciderla» possa mai intendersi come un mandato, ancorché
preterintenzionale, trattandosi palesemente di interiezione
estemporanea, equivalente a un «ma va’
a mori’
ammazzata!». Sono d’accordo
con lui, d’altronde
allo stesso modo era da intendersi quella lettera aperta pubblicata
da l’Espresso
nel giugno del 1971, e di cui Paolo Mieli era tra i firmatari, nella
quale Luigi Calabresi era indicato come il responsabile della
morte di Giuseppe Pinelli: non una sentenza la cui esecuzione era
affidata a qualche volenteroso giustiziere, ma un
innocente «ammàzzate-oh!».
martedì 22 novembre 2016
Bravo D’Alimonte
Su
due cose stanno battendo il ferro, e da mesi, Renzi e i suoi:
(1) la
legge elettorale detta Italicum
non c’entra
niente con la riforma costituzionale sulla quale si vota il 4
dicembre (non farebbero affatto «combinato disposto», come
sostengono quanti si oppongono all’una,
all’altra
o a entrambe);
(2) nelle intenzioni di chi si è tanto speso, e tanto
si spende, perché vengano approvate entrambe non c’è
mai stata quella di cambiare la forma di governo (che non cambierebbe
affatto, dicono, se entrambe fossero approvate).
Poi arriva
D’Alimonte,
che ha scritto entrambe, e manda tutto in vacca:
(1) «Come sapete,
Renzi tiene distinta la riforma costituzionale dalla riforma
elettorale. Io invece ritengo che questo sia un errore, perché gli
italiani devono capire che siamo di fronte a una scelta che si fonda
sulla combinazione tra il nuovo sistema di voto, l’Italicum,
e i cambiamenti costituzionali. Insieme queste due riforme disegnano
un modello di democrazia rappresentativa diverso da quello che ha
caratterizzato il nostro sistema politico a partire dal 1948»;
(2)
«Il cosiddetto Italicum è una riforma in fondo molto semplice, al
di là di certe tecnicalità. Il suo punto di forza è che noi
elettori saremo messi in condizione di scegliere “direttamente”
il governo del paese. Lo dico senza mezzi termini perché non mi
spaventa l’accusa
di tanti costituzionalisti che con l’Italicum
si cambia la forma di governo».
Più linguacciuto di Calderoli,
capace di assai più stretta sintesi (d’altronde
si sa come son fatti, i professoroni), però altrettanto onesto, anzi di più, perché, per dire chiaro e tondo che aveva scritto «una porcata», Calderoli impiegò anni, e invece D’Alimonte lo dice ora, prima che le sue porcate vengano approvate, bravo D’Alimonte.
Avrebbe meritato di avere più voce in questa campagna referendaria per sei quinti centrata sul taglio dei costi della politica, anzi addirittura sul «taglio dei politici», sarebbe stato bello sentirlo dire che «questa questione è abbastanza irrilevante», «non è la parte più importante della riforma», però merita di essere gonfiata perché «serve a mobilitare consenso».
Questo ci sarebbe piaciuto sentire, e invece per mesi ci è toccato patire i pippotti mandati a memoria dagli uommene scic e dalle femmene pittate coi quali Renzi ci ha intasato tutti i canali di comunicazione: la riforma costituzionale non ha niente a che vedere con l’Italicum, non cambia la forma di governo, serve a risparmiare denaro pubblico, è l’ultima chance per evitare il default... Meglio, molto meglio, D’Alimonte: «La riforma poteva essere fatta meglio». Nel senso che, dovendo far fuori la democrazia parlamentare, il presidenzialismo poteva essere meno implicito, ma, si sa, anche chi è onesto non può sempre essere esplicito come vorrebbe.
[Tutti
i virgolettati sono tratti dalla lezione tenuta dal professor Roberto
D’Alimonte al Convegno del Bancoper’s tenutosi lo scorso 29
ottobre e pubblicata su Il Foglio di martedì 22 novembre.]
[...]
Gli
mancavano solo kneych in testa, barba e payot a incorniciargli il
viso e taled sulle spalle, e poi l’avresti
scambiato per rabbi
Jehida Löw ben Bezalel chiamato a rispondere del suo ultimo golem davanti
al Consiglio degli Anziani: «Al referendum non giudichiamo Renzi»;
e poi: «Non condivido le sue motivazioni: l’obiettivo
non è tagliare le poltrone».
Povero Napolitano, con Monti e Letta nessun problema, ma stavolta la
creaturona gli è scappata di mano: personalizza, fa il populista, insomma, smerda la Qabbalah.
lunedì 21 novembre 2016
A due settimane dal referendum del 4 dicembre
A due settimane dal
referendum del 4 dicembre mi accorgo che sulla tessera elettorale non
ho più spazi liberi per la certificazione del voto, ma la grave
forma di allergia che da sempre mi si scatena a meno di tre metri da
un qualsiasi sportello della pubblica amministrazione mi pone seri
ostacoli al suo rinnovo, al punto da considerare l’ipotesi
di soprassedere, unendomi così ai tanti che di sicuro anche
stavolta, per le più svariate ragioni, si asterranno.
Sì, ma poi
come giustificarlo? Mettiamo caso, per esempio, che fra qualche anno
un nocillo o un limoncello accenda a fine cena la discussione sul
referendum del 2016, e qualcuno mi chieda cosa votai in quella
occasione, che figura rimedierei a rispondere che preferii astenermi
perché la tessera elettorale aveva esaurito gli spazi per il bollo e
mi scocciava rinnovarla?
Nell’ipotesi
che vinca il Sì, e di conseguenza l’Italia
sia già proiettata nel luminoso futuro che così le si aprirebbe fin
dal 5 dicembre, ci farei la figura di chi non vi ha contribuito in
alcun modo, nemmeno con un No del quale dirmi pentito, offrendo così
al Partito della Nazione il mio pentimento a edificazione del più
alto sentimento patrio.
Nell’ipotesi
che vinca il No, invece, rimedierei comunque il meritato biasimo per
non aver fatto nulla per tirar fuori il paese dalla palude nella
quale senza alcun dubbio ci ritroveremmo, senza poter offrire neppure
uno «sbagliai» in onore di chi a
ragione paventava tanta sciagura.
No, è chiaro che in entrambi i
casi rimedierei una figura di merda. Se voglio scansare la rottura di
cazzo del rinnovo della tessera elettorale, devo costruirmi una
solida argomentazione in favore dell’astensione, tanto più perché in giro non se ne vede, ma devo sbrigarmi, perché al 4 dicembre manca poco.
La
fretta, tuttavia, non deve venire a detrimento della solidità della mia
posizione. Piglierò il meglio del tiepidume che è girato in questi
ultimi mesi, e con un pezzetto da chi «non ho deciso ancora, deciderò
all’ultimo
minuto», uno da chi «ho deciso, ma non dico cosa voterò», uno da
chi «la riforma fa schifo, ma è meglio che niente», uno da chi «il
Sì, non so, però, col No, vince l’instabilità», vedrete, saprò rabberciare un vestitino di onestà intellettuale da far morir
di invidia anche i più scaltri criptorenziani che non fanno il tifo per il Sì perché temono vinca il No e anche i più scafati pseudoantirenziani che «la Costituzione va salvata, sì, però che schifo ’st’accozzaglia».
domenica 20 novembre 2016
[...]
A
me pare che il «da ucciderla»
di cui tanto si è parlato in questi ultimi giorni fosse un’iperbole,
figura retorica cui peraltro Vincenzo De Luca ricorre di continuo.
Certo, per sua stessa natura, l’iperbole
può risultare irritante come ogni altra forma di eccesso, ma questo
non consente in alcun modo di prendere alla lettera l’immagine
che le dà effetto. Ritengo esagerate, dunque, le reazioni che hanno
fatto seguito all’intervista
mandata in onda qualche sera fa da Matrix,
nella quale peraltro l’affermazione
cadeva in un inciso, e trovo francamente strumentale il leggerla come
una condanna a morte in stile mafioso.
Direi che quel «da
ucciderla» sia da considerare
in questi termini: se alla politica non fossero di regola preclusi
quei mezzi che altrimenti le darebbero continuazione in guerra
secondo il noto adagio di Carl von Clausewitz, l’eliminazione
fisica di un avversario sarebbe pienamente legittima, e con
l’iperbole
lo diventa, perché l’eccesso
col quale essa si incarica di rappresentare una data situazione mira
a rivelarne la natura alterandone il grado. Messa in questo modo,
penso che la questione perda il peso che le si è inteso dare, per
offrirsi eventualmente solo come spunto a una eventuale discussione
sull’uso
delle figure retoriche nel dibattito politico, se non fosse che
sarebbe un doppione di quella già tenutasi sulla «rottamazione».
Credo che invece l’attenzione
possa più proficuamente applicarsi a considerare il casus
belli: «Ci abbiamo
perso un 1,5-2% di voti», dice Vincenzo De Luca, con ciò
chiarendo in cosa abbia avvertito la ferita che, almeno nelle
intenzioni da lui attribuite a Rosy Bindi, ritiene intendesse esser
mortale, dando con ciò legittimità a una risposta che in guerra è
sempre ben commisurata all’offesa,
perché uccidere chi vuole ucciderti è il senso primo e ultimo di
ogni impresa bellica. Va tuttavia fatto presente che tale
perdita non ha impedito a Vincenzo De Luca di vincere su Stefano
Caldoro, suo più diretto concorrente, con quasi il 3% in più di
voti, e dunque la questione va posta in questi termini:
«da ucciderla»,
sia, ma quando? Lì per lì, quando la ferita sembrava potesse essere
mortale, o anche dopo che l’esito
non si è rivelato tale? Chiudiamo
un occhio sull’iperbole,
ma chiariamo se in guerra si debba o meno fare prigionieri. Così,
giusto per sapere come comportarci il giorno che Vincenzo De Luca
dovesse capitarci sotto mano finalmente disarmato.
venerdì 18 novembre 2016
Credere, tradire, vivere
Ero una lucertola, e beato prendevo il sole sul lucernario di un museo di paleontologia, e di sotto c’era lo scheletro di un dinosauro, che a palpebre socchiuse, attraverso il vetro, miravo e rimiravo. Un gran bel dinosauro, devo dire. E più lo guardavo, più mi piaceva. Al punto che a un tratto l’orgoglio di classe animale mi ha fatto sbottare: «Che cosa straordinaria, ’sta nostra rettilitudine!».
Neanche il tempo di pensarlo, ed ecco che davanti mi si para un ragazzino, e fa per acciuffarmi. Per una frazione d’attimo resto di stucco: «E che ci fa quassù, un ragazzino?». Riparo subito sotto una tegola, ma la sorpresa mi fa indugiare il tanto da costringermi a lasciargli la coda in mano. «Fa niente – provo a consolarmi, pensando a quello che ho evitato, col cuore ancora in gola e il moncone sanguinante – tanto poi mi ricresce». E qui, di soprassalto, mi sveglio.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Per evitare l’imbarazzo, sorvolo sul significato e vado ai dettagli, a partire da quel bisillabo comune a lucertola e a lucernario. Non è una buona idea, perché l’attenzione mi scivola subito su quella rettilitudine, cui m’avvedo basta togliere una sillaba perché diventi rettitudine, ed ecco che di sponda l’imbarazzo mi schianta: sempre inconsciamente – e chi lo avrebbe mai detto – a Ernesto Galli della Loggia riconosco pure onestà intellettuale. E non basta, perché è evidente io senta che un’affinità ci unisce.
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più d’un geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però dev’esserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più d’un geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però dev’esserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».
martedì 8 novembre 2016
L’impercettibile crepa
Ieri
sera, a Porta a
porta,
si è parlato di Tiziana Cantone, la donna che, esasperata dalla
gogna mediatica di cui era stata fatta oggetto in seguito alla
diffusione di alcuni video che la riprendevano nel corso di incontri
sessuali da lei avuti qualche tempo addietro, qualche settimana fa si
è tolta la vita, e Bruno Vespa chi mi invita a madrina della
sventurata? Selvaggia Lucarelli, fresca di condanna per diffamazione
e a breve ancora alla sbarra per rispondere di concorso
in intercettazione abusiva e violazione della privacy.
Mi figuro
proprio a questo modo l’impercettibile crepa che dal bordo della tazza di un cesso prima o poi si allargherà in
un immenso buco nero che ingoierà tutta la nostra galassia.
lunedì 7 novembre 2016
Cinque anni e mezzo fa
Fu Roberto De Mattei, cinque anni e mezzo fa, a darci la spiegazione teologica di un terremoto,
quello che alcuni giorni prima si era avuto in Giappone, e anche quella volta fu dai microfoni di Radio Maria. Disse che «le catastrofi
sono talora esigenza della giustizia divina, della quale sono giusti
castighi», aggiungendo che «le
nostre colpe possono essere
personali o collettive, possono essere le colpe di un singolo o
quelle di un popolo, ma, mentre Dio premia e castiga i singoli
nell’eternità,
è sulla terra che premia o castiga le nazioni, perché le nazioni
non hanno vita eterna».
Niente
di diverso da ciò che padre Giovanni Cavalcoli ha detto dai
microfoni di Radio Maria a commento degli eventi sismici che
nelle ultime settimane hanno devastato ampie aree di Marche e Umbria, con la sola differenza che per il Giappone, cinque
anni e mezzo fa, non veniva avanzava alcuna ipotesi sulla causa del
castigo, mentre qui il peccato è stato individuato nell’approvazione
da parte del Parlamento italiano di una legge che riconosce le unioni
civili tra persone dello stesso sesso. Differenza che tuttavia
possiamo ritenere irrilevante, perché, fra i castighi che Roberto De
Mattei portò a esempio dei casi in cui «talora Dio si serve delle grandi catastrofi per raggiungere un fine alto
della sua giustizia», non mancò «il
fuoco che cadde su Sodoma».
Cinque
anni e mezzo fa, in Italia, nessuno protestò, di conseguenza la Cei e la Santa Sede non ritennero opportuno contestare le affermazioni di Roberto De Mattei, né i responsabili di Radio Maria pensarono fosse necessario dissociarsene. Perché nessuno protestò? Ci è lecito supporre che agli italiani non dia alcun fastidio l’idea
che Dio possa servirsi di una catastrofe naturale per castigare
un’intera nazione, ma solo a patto che a esserne colpita non sia la loro.
giovedì 3 novembre 2016
[...]
La
riservatezza mi obbliga a non poter rivelare luogo, data e
circostanza dell’incontro che ho
avuto con Matteo Renzi, ma non posso trattenermi dal confessare la
piacevolissima impressione che ne ho tratto, mutando radicalmente
l’opinione che avevo sul suo
conto. In due ore abbiamo spaziato in lungo e in largo, dai cieli
della teoria al basso cazzeggio, e al selfie col quale abbiamo chiuso
la nostra chiacchierata, con la reciproca promessa di rivederci,
tutto quello che avevo sempre pensato di lui era già interamente
rottamato, senza riserva.
Matteo Renzi è un simpaticone, con tratti del carattere che ho dovuto sorprendermi a trovare
straordinariamente amabili, e poi è incredibilmente colto, e, per
quanto possa sembrare poco rilevante, è assai più carino di come
appare in tv. Contrariamente a quanto appare – in parte, per la
superficialità con la quale lo si osserva e, in parte, per la posa
che fa scudo alla sua timidezza – Matteo Renzi ha modi fini e
delicati, e poi è dotato di grandissima sensibilità, di un garbo
che ha l’inconfondibile cifra
del vero signore, di una nobiltà d’animo
che non ha nulla di costruito. Insomma, è tutto il contrario di come mi era
apparso fino a un minuto prima di poterci parlare.
Dopo tutto quello
che ho scritto su di lui dal 2010 ad oggi, capirete che ho il dovere
di fare ammenda e di rimangiarmi pubblicamente i severi giudizi che
ho espresso sull’uomo e sul
politico. Solo ora mi avvedo di quanto fossero ingiusti, talvolta
perfino odiosi: Matteo Renzi è persona seria e onesta, e, credetemi, ha un
altissimo profilo morale, un notevole retroterra culturale, gusti
insospettabilmente raffinati, e
aggiungerei che ha pure un notevole sex appeal (e sia chiaro che lo
dico da eterosessuale incallito).
Con ciò penso di aver fatto
adeguatamente sgombro il campo da ogni sospetto che il mio giudizio
sulla riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a esprimere
un parere il 4 dicembre possa essere segnato da un malevolo
pregiudizio su chi l’ha voluta
così com’è, perché purtroppo continuo a pensare che sia una riforma
di merda, e per le ragioni che ho già ampiamente espresso. Di qui, lo sconcerto: non so darmi spiegazione del come
un tale schifo possa esser stato partorito da chi ho scoperto unire a
una genuina fede democratica, a uno sconfinato amore per l’Italia,
a vaste e profonde conoscenze in ogni campo del sapere, a una
formidabile capacità argomentativa, il profilo del vero galantuomo.
Sconcerto che mi auguro possa corroborare la mia già tanto celebrata qualità di analisi, da qualche tempo in crisi, dando una svecchiata al mio stile.
E fino al 5 dicembre, davvero, non ne parliamo più.
venerdì 28 ottobre 2016
La Pala Radolovich / 2
Fate
finta di dover riprodurre un quadro di Caravaggio, un quadro che
Caravaggio potrebbe aver dipinto, ma di cui si è persa ogni traccia,
o che non ha mai dipinto, ma di cui abbiate dalla specifica di una
commessa qualche indicazione riguardo ai soggetti che in esso avrebbero dovuto figurare e alla disposizione che il gruppo avrebbe dovuto assumere nel dipinto: come procedereste?
Se avete appena un minimo di serietà,
probabilmente comincereste col campionare i volti dei personaggi
raffigurati nei quadri che sono con certezza attribuiti al
Caravaggio. Con un programmino in grado di ridarveli in 3D,
probabilmente provvedereste a sceglierne le pose e le espressioni che
possano esservi utili a riprodurli nella scena che dovete costruire.
Se volete ottenere un risultato brillante, probabilmente toglierete o
aggiungerete qualche barba, in modo da ricreare personaggi
apparentemente nuovi, o addirittura costruire degli ibridi (per
esempio, fronte e occhi dal Bacchino
malato,
naso e bocca dal Ragazzo
con cesta di frutta,
ecc.). Costruiti o, per meglio dire, ricostruiti a questo modo i
volti dei personaggi che poi riporterete sul dipinto, probabilmente
procedereste a fare altrettanto coi vestiti, facendo in modo che i
panneggi siano congrui alle posture, che quasi certamente saranno a
forte impronta drammatica, con vividi effetti di torsione o
sospensione. Probabilmente, poi, passereste a rifinire l’assieme,
ovviamente dando massima attenzione alla luce: ruotereste di qualche
grado quella testa, inclinereste un po’
a destra quel busto...
Ora immaginate che all’uzzolo
di mettervi a caraveggiare sia disponibile pure un certo budget. Niente di
spropositato, sia chiaro, diciamo un 10-20.000 euro, giusto il
necessario per la supervisione da parte di uno storico dell’arte
e di un grafico. Bene, procedendo a questo modo, pensate di poter
sperare in un risultato decente? Mi spiego meglio. Non dico che il
vostro Caravaggio debba far piangere di commozione Vittorio Sgarbi, e
nemmeno che non debba sollevare perplessità in chi abbia una pur
superficiale conoscenza dell’opera
del Caravaggio, ma, ancorché vogliate proporlo come mero
divertissement intellettuale, per poi annunciare che il tal giorno,
in tal luogo, «grazie
alle moderne tecnologie»
presenterete
al pubblico un inedito del Caravaggio «o
almeno come avrebbe dovuto essere il dipinto»,
quanto si è fin qui detto non sarebbe il minimo? E dunque cosa c’era
da aspettarsi dall’annuncio
dato dal Museo del Banco di Napoli di cui vi ho parlato pochi giorni
fa? E in realtà che cosa è stato presentato al pubblico?
È presto
detto: un giovinotto dallo scilinguagnolo giulivo a far da cicerone nelle stanze dell’archivio
del museo; due scale appoggiate a una scaffalata; tre tizie
biancovestite con un paio d’ali a tracolla lì sopra appollaiate in
posa instabile; una qualcerta addobbata presuntivamente a Madonna a
qualche piolo più in basso; e, sotto, quattro sacripanti coperti di
pezze che un anticipo di simpatia sollecitava a credere secentesche. Una patetica pantomima da far rivalutare il presepe
vivente di Roccaravindola come performance
teatrale di altissimo livello. Questa sarebbe la Pala
Radolovich,
a detta di chi ha organizzato – sonora pernacchia – l’evento.
Non c’ero, ho preso orrore della cosa da un video di Mattino
Tv. E ogni altro commento è superfluo.
giovedì 27 ottobre 2016
[...]
Voglio spezzare una lancia in favore di Matteo Renzi, ma
in subordine all’eventualità
che persona a lui vicina sia attualmente sottoposta a intercettazione
telefonica e un domani dovesse essere diffuso un colloquio svoltosi
tra i due in queste ore: non si biasimi la
sua euforia per un terremoto che cade a fagiuolo per strappare
a Bruxelles qualche miliarduccio a copertura di mance, bonus e
cotillons pre-elettorali, si sia indulgenti se nei toni o nelle espressioni potrà dare l’impressione
di uno che si rallegri come per una provvidenziale botta di culo.
Cercate di mettervi nei panni dell’ometto,
chessò, se proprio non riuscirete ad assolverlo, provate a trovargli un’attenuante
nel fatto che è Capricorno.
Tutto
il mio schifo preventivo, invece, per chi domani, dalla prima pagina di questo o quel quotidiano filogovernativo, dirà: «Visto? Ora Bruxelles provasse a dirgli no, poi sarà chiaro di chi è stata la colpa della deriva populista».
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