Come poté, Michele Serra, prendere la tessera di un’associazione che appena cinque prima, nel 2006, in occasione del referendum sulla riforma costituzionale promossa dal centrodestra, si era apertamente schierata in favore del No e contro il Sì, per poi mobilitarsi a più riprese contro alcuni provvedimenti del governo Berlusconi, con ciò facendo quello che oggi, per l’aver assunto identica posizione in occasione del referendum sulla riforma costituzionale promossa dal governo Renzi, egli ritiene sia un uso indebito della sua funzione? O era un coglione allora, nel 2011, o è un ipocrita oggi, nel 2016.
mercoledì 14 dicembre 2016
martedì 13 dicembre 2016
[...]
Quando
sento i soloni della politica e della cultura, seguiti a ruota dai
loro epigoni in sedicesimo, lamentare che il web ribolle d’odio,
mi vien voglia di dir loro: zitti, per carità di Dio, state zitti,
ché senza il web tutto quest’odio
lo vedreste nelle strade, e invece della
gragnucola di tweet insultanti vedreste piovere sampietrini, invece
delle migliaia di like a un’invettiva rancorosa vedreste dei
linciaggi, lasciate che ogni esasperato possa sfogare tutta la rabbia
attraverso i cavi che collegano la sua incubatrice a questo
cyberspazio in cui ogni sollevamento popolare, ogni rivoluzione, ogni
guerra civile, si risolve in stragi e devastazioni tutte virtuali,
lasciando al potere chi ci stava, e nella merda chi ci resta.
E farei
loro l’esempio del governo Gentiloni, direi: non ci fosse internet
per sfogare la sacrosanta indignazione che nasce nel vedere che a
Palazzo Chigi s’insedia un esecutivo fotocopia di quello che venti
milioni di No hanno mandato affanculo il 4 dicembre, non avreste in
piazza a far danni materiali almeno un decimo di quanti su Twitter o
su Facebook la stemperano in uno zotico improperio o in un acido sarcasmo? Ma che dico, ne basterebbe un
centesimo per mettere a dura prova le forze dell’ordine, e senza
dubbio ci scapperebbe il morto, forse due, dieci, ventisette,
cinquantuno.
Non mi fraintendete: anch’io, come voi che presidiate
le rendite di posizione di chi da tempo ha svuotato di sostanza la
democrazia lasciandone solo il guscio vuoto, per giunta tutto
ammaccato, trovo inescusabili certe espressioni che grondano livore,
ma direi che vi convenga chiudere un occhio e lasciar scorrere,
riservandovi semmai un’altezzosa levata di sopracciglio sulla
bestiale volgarità della plebe che intasa i social network.
Lasciateli sfogare sulla tastiera, probabilmente a loro basterà
ancora per molto, e questo vi consentirà di continuare a preservare
il Palazzo. Sennò poi a chi potreste offrire consulenza?
Corrispondenze
[Qui
riporto quanto un lettore scrive nella pagina dei commenti al post
qui sotto e, a seguire, la mia risposta.]
Egregio
dottore, io fatico ancora a capire cosa c'era di sbagliato nel
ridurre il numero dei parlamentari, i costi della politica, gli
stipendi dei consiglieri regionali (che oggi guadagnano più del
Presidente degli Stati Uniti), abolire il CNEL, sopprimere le
provincie come greppia dei partiti modificandone l'assetto,
introdurre il referendum consultivo, garantire la governabilità di
un paese per 5 anni e un percorso legislativo più efficiente, con
data certa per la formazione delle leggi. Appartengo ai sognatori del
SI, e forse ho sbagliato - è un mio limite - ma tutti quelli con cui
ho parlato e che hanno votato no, mi hanno detto che l'hanno fatto
per delusione circa la politica economica di Renzi, perché sono
esasperati per la difficoltà a trovare lavoro, o per il problema dei
migranti, o per la buona scuola, o per tutta una serie di motivi che
nulla hanno a che fare con il merito del referendum. Alla domanda
"Cosa non ti convinceva della riforma proposta?" la
risposta era un imbarazzato cambio di argomento. A mio modesto parere
Renzi ha pagato l'errore strategico di trasformare il referendum in
un plebiscito sulla sua persona, l'eccessiva sicurezza sulla bontà
delle proprie ragioni, che è stata scambiata per arroganza, la
mancata percezione del grado di disperazione raggiunto da strati
sempre più ampi della popolazione e la scarsa sensibilità verso gli
umori della gente (vedi problema migranti), che con il voto hanno
inteso mandargli un potente segnale di malessere. Non sono cose di
poco conto, certamente, ma per contro va sottolineato come
l'agglomerato del no (non chiamiamola accozzaglia se no si offendono)
che spaziava dai neofascisti all'estrema sinistra, era unito solo dal
desiderio di defenestrare l'odiatissimo toscano, ma nessuno di loro
mi pare in grado di esprimere una proposta politica credibile ed
alternativa all'attuale maggioranza (tranne voler credere ai proclami
dei grillini, che ancora ci devono spiegare con chi vorrebbero
allearsi per formare un governo, o alle velleità di Salvini).
Smaniano per andare subito al voto con una legge sub judice e si
rifiutano di elaborarne un'altra. Grande prova di maturità politica.
Renzi non sarà il meglio che poteva esprimere l'Italia, ma nel
prossimo futuro io vedo solo il ritorno al proporzionale per fottere
Grillo e al consociativismo della prima Repubblica, e non vedo alcun
segno di progresso democratico in questo. Mi sbaglio?
Cordialmente
Giuseppe
G.
Sì,
si sbaglia. Sbaglia, innanzitutto, nel dare della riforma
costituzionale bocciata il 4 dicembre una descrizione infedele, in
tutto simile a quella spacciata dai propagandisti del Sì. Se fra gli
scopi della riforma c’era
veramente quello di ridurre il numero dei parlamentari, perché non
ridurre anche il numero dei deputati? In quale altro paese c’è
un rapporto 1:80.000 tra eletto ed elettore? Se fra i suoi scopi
c’era
quello di ridurre i costi della politica, perché non limitarsi a
dimezzare gli stipendi dei parlamentari? Di più: perché bocciare
ogni iniziativa legislativa fin qui promossa in tal senso? Le
risulta, poi, che la riforma contemplasse una riduzione degli
stipendi dei consiglieri regionali? E le risulta che, cambiando nome
alle province, chiamandole città metropolitane, venga ad essere
ridotto il controllo delle segreterie dei partiti sulle
amministrazioni locali? Pensa che a garantire la governabilità di un
paese per 5 anni (ma perché poi non per 10, per 15 o per 20?) debba
pensare la Costituzione? E allora perché non fare della legge
elettorale un suo articolo? In quanto al «percorso legislativo più
efficiente», scherza, vero? La riforma ne prevedeva una dozzina e
l’art.
70, quello relativo alle pertinenze del nuovo Senato, implicava la
necessità di un ricorso permanente alla Consulta per sanare i
conflitti di attribuzione in materia. Ma, poi, perché su tutto
questo avremmo dovuto decidere a pacchetto? E ancora, e prima, si
arriva alla revisione di un terzo della Costituzione nel modo in cui
ci si è arrivati? Senza alcun esplicito mandato popolare? Per
impulso di un Presidente della Repubblica che accetta la rielezione
solo se il Parlamento gli dà garanzia che la revisione sarà fatta?
E a promuoverne l’iter,
conducendolo poi come lo si è condotto, lei crede igienico sia
l’esecutivo? Lei si definisce un «sognatore del Sì», ma
la riforma non era un sogno: era un incubo. Dice che tutti
quelli con cui ha parlato e che le hanno espresso l’intenzione
di votare No le hanno detto che l’avrebbero
fatto per tutta una serie di motivi che nulla avevano a che fare con
il merito della riforma. E a chi vuole imputare questa impropria
strumentalizzazione del referendum? Chi l’ha
fatto diventare un voto sul governo? Chi lo ha insistentemente
personalizzato cercando di trasformarlo in un plebiscito?
Lei riconosce che questo sia stato un errore, ma pensa che Renzi l’abbia
pagato. E come? Sul piatto aveva messo il ritiro della politica e
invece si è limitato a dimettersi dalla Presidenza del Consiglio
pilotando la crisi verso un governo fotocopia del suo e presieduto da
un prestanome. Questo sarebbe il prezzo pagato per aver spaccato il
paese al solo fine di tentare un rafforzamento delle sue posizioni?
Mi fa venire il sospetto che abbia voglia di scherzare. Quando poi
dice che in Renzi abbiamo scambiato per arroganza l’eccessiva
sicurezza sulla bontà delle proprie ragioni, il sospetto è che voglia prendermi in giro. Avrà avuto modo di sentirlo nel faccia a faccia con
Giovanni Minoli: egli stesso fa ammissione di essere arrogante (e impulsivo e cattivo), e in
un modo molto compiaciuto che direi arroganza dell’arroganza.
Lei prosegue la sua difesa della riforma oltre termine massimo
concedendo che il tempo e le energie che il governo vi ha sprecato
sopra e attorno sarebbero state meglio impiegate nel cogliere il grado di
disperazione raggiunto da strati sempre più ampi della popolazione.
E le sembra poco? No, non le sembra poco, ma cosa le sembra che
bilanci tanta bestialità? Il fatto che chi ha votato No non sia in
grado di esprimere una proposta politica credibile ed alternativa
all’attuale
maggioranza. E che c’entra?
Sono diventate agglomerato, come benevolmente concede rinunciando a
dire accozzaglia, perché contrarie alla riforma, non perché
intenzionate a offrire un’alternativa
di governo. Forse che all’indomani
del referendum sul divorzio c’era da attendersi un governo guidato
dai radicali? Credo che lei debba chiarirsi un po’ le idee sul
significato che vuol dare al voto del 4 dicembre, perché mi pare
patente la contraddizione tra affermare che fosse in questione una
riforma costituzionale che chiunque poteva trovare buona,
indipendentemente dalla sua appartenenza a questo o quel partito e
dal sostegno a questo o quel governo, e poi pretendere che quanti
l’hanno trovata cattiva adesso abbiano il dovere di presentarsi
uniti alle prossime elezioni politiche. Lei trova che l’accozzaglia
– pardon, l’agglomerato – mostri l’insana smania di andare
subito al voto, probabilmente per incassare i dividendi della
vittoria del No. A me pare che questa smania sia più di Renzi e dei
suoi, convinti che il 40% di Sì andrebbe tutto al Pd, ma in entrambi
i casi si tratta di impressioni, penso si possa trascurare la
questione. Di certo c’è che la legge sub judice era quella che
tutta l’Europa ci avrebbe copiato, tant’era giusta e buona e
bella, e adesso fa paura innanzitutto a chi l’ha scritta perché
favorirebbe il M5S. Direi che con la riforma costituzionale bocciata
dal popolo e con quella della pubblica amministrazione bocciata dalla
Consulta faccia un trittico che illustra a dovere l’asineria di chi
le ha scritte. Renzi non
sarà il meglio che poteva esprimere l’Italia,
dice. Anche su questo non mi trova d’accordo:
penso che al livello in cui era caduta non potesse esprimere altro, e
che è difficile, ma non impossibile, possa anche far peggio. Sia
chiaro che, nel caso, questi ultimi due anni e mezzo si riveleranno essere stati determinanti.
lunedì 12 dicembre 2016
[...]
Fosse
morto, capirei la festa, ma Matteo Renzi è ancora vivo, ed è molto
più pericoloso adesso che prima, perché la bestia del narcisismo dà
il peggio di se stessa quando si rintana ferita. Non c’è ragione di far
festa, dunque, d’altronde si è solo evitato che scempiasse la
Costituzione: continua a mantenere il controllo del partito, del
parlamento e del governo, e in fondo cosa ha perso? Solo quel merdoso
sorrisetto che ci ha propinato a reti unificate ventiquattr’ore al
giorno, sette giorni su sette, per più di due anni e mezzo. E
dovrebbe bastar questo per far festa? Dovremmo credere che abbia
perso il controllo sull’informazione solo perché ora qualche
editorialista non gli lecca più il culo come gliel’ha leccato fino
alle 22,59 del 4 dicembre? Dovremmo credere che la sua cosca sia in
rotta solo perché al momento sul web i suoi picciotti non scaricano
più la lupara, come hanno fatto fino all’altrieri, su chiunque
azzardi un critica al loro boss? Siamo seri, via, l’avete sentito a
caldo? Gli è uscito un «non credevo che mi odiassero così» del
quale, a leggerlo come si deve, dovreste aver paura. Al pagliaccio sta colando via il trucco, ora
vedrete la sua vera faccia.
venerdì 9 dicembre 2016
martedì 6 dicembre 2016
Ma non subito
Era
training autogeno già alla vigilia, quando la paura di perdere
cominciava a incrinare la convinzione, maturata poi chissà come, che
il Sì avesse recuperato e fosse prossimo al sorpasso: si diceva che
in caso di sconfitta, che comunque poteva essere solo di stretta
misura, Matteo Renzi avrebbe avuto buon diritto di intestarsi quel
49, quel 48, quel 47 per cento, come espressione di una fiducia che
gli era rinnovata da mezza Italia, o quasi, mentre l’altra metà
gliela negava, certo, ma solo in forza dell’essere accozzaglia di
tutto il resto, roba buona a fare opposizione, ma incapace di
esprimere una credibile alternativa di governo.
Avesse
vinto il Sì, nessun problema: era chiaro, con ciò, che Matteo Renzi
avesse il consenso di più della metà del paese, che evidentemente
aveva voluto confermargli la fiducia che gli era stata espressa col
voto delle Europee del 2014. In entrambi i casi, le Politiche erano
da considerarsi mera formalità. Diventava irrilevante stabilire
quando indirle, altrettanto irrilevante stabilire con quale legge
elettorale tenerle, si poteva lasciar decidere a lui dell’una
e dell’altra cosa, secondo come
gli girava l’agenda.
Erano
i suoi a dargli voce, li avrete sentiti. Sgusciando la fava dal
baccello: «Di chi è la riforma
costituzionale? Sua, no? Giocoforza, allora, il Sì alla riforma sarà
un Sì anche a lui: la personalizzazione del referendum, dunque, è
più che legittima. Anzi no, come non detto, personalizzarlo è un
errore, non vi permettete di personalizzarlo. Mettendo da parte
l’antipatia nei suoi confronti, infatti, considerando il merito
della riforma, anche un elettore di Forza Italia o, perché no, del
M5S, se intellettualmente onesto, può trovarla buona, e votare Sì.
È chiaro, naturalmente, che poi andrà conteggiato come elettore che
vuole resti a Palazzo Chigi. Diciamo che la personalizzazione
continua ad essere legittima, ma solo per quanto può tornargliene di
comodo».
È
training autogeno anche adesso che la sconfitta si è rivelata assai
più pesante e, tutto sommato, poteva esserlo anche se il No avesse
vinto col 62, col 63, col 64 per cento, perché un uomo cui va il
consenso del 38, del 37, ma anche soltanto del 36 per cento di un
elettorato che ormai è tripolarizzato, può dirsi pienamente
legittimato a proporsi come più la credibile offerta di leadership
presente sul mercato. Solo l’Italicum
potrebbe mettersi di traverso, ma ci penserà la Consulta a
rottamarlo, e sì che era un gioiellino, tutta l’Europa
ce l’avrebbe invidiato. Presto,
allora, si voti.
Poi
c’è che il Sì ha raccolto il 40 per cento e 40 è un numero
portafortuna, perché è col 40 per cento che Matteo Renzi perse le
Primarie contro Pierluigi Bersani nel 2012 ed è col 40 per cento che
vinse le Europee del 2014: la fede cieca ci vede la fatale sinusoide,
dopo un 40 per cento con cui si perde c’è un 40 per cento con cui
si vince, e se ieri è col 40 per cento che si è perso, si vada
subito al voto perché sarà di certo col 40 per cento che il Pd
vincerà le Politiche.
È
impossibile capire quanto ci sia di qabbalàh in questo modo di
trarre indicazioni dal risultato del 4 dicembre, di certo trova un
senso pienamente intellegibile solo nella malata logica che assegna a
Matteo Renzi il ruolo di uomo indispensabile al paese, mentre in
realtà lo è solo ai suoi cortigiani, che continuano a reggergli lo
strascico anche adesso che dalla piazza s’è levata voce che il re
è nudo. Sono loro ad aver drogato per anni la sua autostima fino a
trasformarla in narcisismo paranoide, sono loro ad averlo portato
alle vette di un delirio, a tratti lucido, ma sempre meno, dal quale
ormai gli è consentito solo precipitare. Ma non subito. Mancano ancora le convulsioni, che di solito prendono tempo.
lunedì 5 dicembre 2016
[...]
Sono
note le ragioni che da qualche tempo rendono sempre meno attendibili
i sondaggi relativi alle intenzioni di voto, fino a materializzare
sempre più spesso il proverbiale granchio quando le opzioni si
riducono a due. C’è
innanzitutto il fatto che la
cosiddetta morte delle ideologie e la conseguente crisi dei partiti a
forte impronta identitaria hanno reso i corpi elettorali estremamente
fluidi. Per ottenere risultati più affidabili, quindi, sarebbe
necessario sondare campioni assai più ampi, ma questo comporterebbe
tempi troppo lunghi e costi spesso insostenibili: politica e
comunicazione corrono assai più in fretta di quanto abbiano mai
fatto, e non hanno più le risorse di cui godevano in passato.
Ma
accanto a questi fattori ve ne
è
un altro che non sembra affatto irrilevante, visto che sempre più
spesso viene chiamato in causa per dar ragione di errori di
previsione che talvolta arrivano ad essere tragicomicamente vistosi: sono sempre più numerosi, fra quanti sono contattati dagli istituti di
rilevamento, coloro che rifiutano di esprimere la propria
intenzione di voto o addirittura ne dichiarano una che non corrisponde a quella reale.
Su perché questo accada non c’è
unanimità di parere, ma sembra che sia preminente il timore di
esprimere un’intenzione
di voto che si ritiene possa incorrere in un maggioritario giudizio
di deprecazione: «C’è
chi mente per vergogna», ha sintetizzato Oscar Mazzoleni, che
insegna Scienze politiche all’Università
di Losanna, per spiegare perché negli Usa tutti i sondaggi dessero
la vittoria a Hillary Clinton.
Pare
pretendere qualche sostegno, all’indomani
del voto del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, la tesi che
«stavolta i sondaggi ci hanno azzeccato», minimizzando il
fatto che, fino a quando ne è stata possibile la diffusione, ma
anche dopo, quando pateticamente camuffati ne trapelavano comunque
gli aggiornamenti, non abbiano mai assegnato al No un vantaggio
maggiore di
7-8 punti, mentre il risultato gliene dà 20.
È uno scarto che ci
consegna un’Italia
in cui almeno 2 o 3 milioni di persone avevano una qualche forma di
imbarazzo nel dichiararsi a favore del No, e hanno mentito, dicendo che avrebbero votato Sì o schermendosi si dicevano ancora indecise. E io credo che a tanto
possa quantizzarsi l’Italia
che ha creduto nella solidità culturale, prim’ancora
che politica, di una possibile età
renziana, e che naturalmente ora non ci crede più.
Non è per sminuire
l’importanza di un risultato che ha numerose altre implicazioni –
ci tornerò sopra – ma la prima considerazione che ritengo utile è
relativa proprio a questo dato: prima che la guida del governo, Renzi
ha perso lo smalto dell’uomo che inaugura un’epoca.
Molto peggio
che aver preso finalmente atto che c’è chi ti odia più di quanto
tu credessi, è scoprire che un di più ti odiava, ma aveva qualche
riserva nel fartelo sapere, e ora non più.
sabato 3 dicembre 2016
Perché
Sono
passati undici anni da quando gli italiani furono chiamati a
esprimersi sulla legge 40/2004, ma per me è come fosse ieri, perché
la gran parte delle mie odierne convinzioni relative a società,
politica e diritto hanno fondamento nella lezione che ho tratto da
quella tornata referendaria, e fu lezione durissima.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento l’approvò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dell’ovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nell’obiettivo di far mancare il quorum con l’invito all’astensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento l’approvasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con l’illegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso l’errore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento l’approvò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dell’ovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nell’obiettivo di far mancare il quorum con l’invito all’astensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento l’approvasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con l’illegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso l’errore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.
martedì 29 novembre 2016
lunedì 28 novembre 2016
La ragione non ha taciuto
Sono convinto che sarà il
Sì a vincere, e credo che sia sempre stato in vantaggio sul No, anche
quando i sondaggi dicevano il contrario, per la semplice ragione –
qui il lettore mi consenta il bisticcio – che non basta aver
ragione per aver ragione, anzi, talvolta può addirittura rivelarsi
un handicap, e di questo avremo ulteriore conferma lunedì prossimo,
con l’approvazione di una
riforma costituzionale che non doveva nemmeno essere mai scritta,
perché a promuovere un processo che revisiona un terzo della
Costituzione non può essere il Governo, e l’input non può esser
dato da un Presidente della Repubblica che condiziona la sua
rielezione all’impegno che in tal senso dovrà assumersi chi poi
egli sceglierà come Presidente del Consiglio, e ad approvare il
testo di una riforma costituzionale, che perciò già in nuce è cosa aberrante, non può essere un Parlamento eletto con una legge
elettorale dichiarata incostituzionale, autorizzato a legiferare in
regime di prorogatio al solo fine di assicurare la continuità dello
Stato, di certo non a riscrivere le regole sulle quali è fondato.
Il No ha ragione senza
neppure dover entrare nel merito delle modifiche che questa riforma
intende apportare alla Costituzione, e a entrarci ne acquista
ulteriormente, perché è proprio nel merito che essa rivela quanto
non fosse affatto necessaria, tanto meno urgente, rivelando che, a
dispetto di quanto afferma chi l’ha
scritta, non semplifica affatto il processo legislativo, né ne
abbrevia i tempi, né riduce i costi della politica, se non in misura
irrisoria, mentre invece di sicuro riduce il peso della sovranità
popolare e cancella ogni distinzione tra potere esecutivo e potere
legislativo.
È una riforma costituzionale (in realtà, una revisione
costituzionale) che non ha visto affatto il concorso ampio e
adeguatamente rappresentativo di tutte le forze politiche alle quali
fosse stato dato dal voto popolare un esplicito mandato in tal senso,
ma il passivo consenso di un Parlamento di nominati costantemente
ricattati dalle segreterie dei partiti, e arriva al vaglio
referendario in forza di una formalità procedurale più volte
forzata fino al limite della sua rottura, per farsi momento di
divisione invece che di condivisione, e solo perché ostinatamente concepita come posta
di una scommessa tutta personale.
Ogni ragione è dalla parte del No,
ma questo non gli darà ragione, c’è
da esserne certi, perché il piano sul quale ragione e torto sono
chiamati a confrontarsi – quello del diritto, che poi è il piano
dove la logica si fa imperativa – è ormai da tempo devastato
dall’ignoranza e dall’arbitrio. E tuttavia occorre spendersi in favore del No, per lasciar traccia che, seppur costretta ad aver torto, la ragione non ha taciuto.
domenica 27 novembre 2016
sabato 26 novembre 2016
Ignorantia more geometrico demonstrata
Ve
ne fosse stato bisogno, ecco un altro
saggio di quell’incompetenza che, più ancora dell’insopportabile
arroganza che pure le è indissolubilmente intrecciata, è tratto
comune e distintivo degli uomini e delle donne che stanno a corte di
Matteo Renzi: la Consulta boccia la riforma della pubblica
amministrazione scritta da Marianna Madia per la parte che dovrebbe
darle attuazione attraverso i decreti legislativi, e la sentenza
rivela quale sia il vizio di fondo di chi da qualche anno occupa
abusivamente le stanze del Palazzo, per giunta menando vanto del proprio analfabetismo istituzionale come segno di freschezza giovanile: l’illegittimità
costituzionale è contestata al punto in cui il Governo dovrebbe
agire in intesa con le Regioni, ma si dà potere di farlo solo previo
loro parere, peraltro non vincolante: una roba che per sottofondo chiede «e
qui comando io / e questa è casa mia».
[...]
Incorrendo
nell’erronea affermazione che l’inventore della ghigliottina morì
ghigliottinato (in realtà la morte di Joseph-Ignace Guillotin si
ebbe per sepsi da Bacillus anthracis), Gianfranco Fini (L’aria
che tira – La7, 25.11.2016)
ci offre l’occasione di chiederci cosa possa assicurare a un falso
storico la fortuna che talvolta pare francamente inspiegabile a
fronte delle contestazioni che, com’è nel caso qui preso ad
esempio, seguono puntuali e inoppugnabili ad ogni suo rilancio. Credo
si tratti di quella che solitamente è detta «morale della favola»:
anche quando si può dimostrare che una narrazione riporta in modo
infedele gli eventi che si incarica di rappresentare, essa non perde
forza persuasiva se dà risposta all’attesa di un paradigma
universalmente valido. In altri termini, direi che un falso storico
rimane convincente anche quando si rivela tale, se è in grado di
illustrare in modo efficace la norma che ci si aspetterebbe fosse
necessariamente attiva in ogni situazione analoga a quella di cui il
narrato si offre a esempio. Semplificando ancora, e riportando al
caso in questione: anche se non è vero, è bene che l’inventore
della ghigliottina muoia ghigliottinato per dar ragione del
proverbiale «chi la fa
l’aspetti».
A corollario possiamo aggiungere che, per venire incontro a questa
esigenza, non è necessario che il falso storico stravolga del tutto
la realtà degli eventi, perché a rendere efficacemente emblematica
la norma che vuole illustrare possono bastare anche modifiche
marginali, com’è
nel caso, in tutto analogo a quello di monsieur Guillotin, offerto
dall’adagio «Gioacchino facette ’a
legge e Gioacchino murette ’mpiso»
(in realtà, Gioacchino Murat non fu impiccato, ma fucilato), dove è
evidente come una forca si presti assai meglio di un plotone di
esecuzione a rappresentare il cappio nel quale spesso finiamo per
infilare involontariamente il collo.
Credo che tutto questo valga
anche per la «post-verità»:
tanto più credibile non quanto più verosimile, ma quanto più utile
a confermare un pregiudizio morale, spesso neppure coscientemente
avvertito.
giovedì 24 novembre 2016
Ammàzzate-oh!
Paolo Mieli (Ottoemezzo,
23.11.2016) ritiene sia assurdo credere che Vincenzo De Luca abbia
mai realmente pensato che Rosy Bindi meriti d’essere
ammazzata, e ancor più assurdo credere che quel suo «da
ucciderla» possa mai intendersi come un mandato, ancorché
preterintenzionale, trattandosi palesemente di interiezione
estemporanea, equivalente a un «ma va’
a mori’
ammazzata!». Sono d’accordo
con lui, d’altronde
allo stesso modo era da intendersi quella lettera aperta pubblicata
da l’Espresso
nel giugno del 1971, e di cui Paolo Mieli era tra i firmatari, nella
quale Luigi Calabresi era indicato come il responsabile della
morte di Giuseppe Pinelli: non una sentenza la cui esecuzione era
affidata a qualche volenteroso giustiziere, ma un
innocente «ammàzzate-oh!».
martedì 22 novembre 2016
Bravo D’Alimonte
Su
due cose stanno battendo il ferro, e da mesi, Renzi e i suoi:
(1) la
legge elettorale detta Italicum
non c’entra
niente con la riforma costituzionale sulla quale si vota il 4
dicembre (non farebbero affatto «combinato disposto», come
sostengono quanti si oppongono all’una,
all’altra
o a entrambe);
(2) nelle intenzioni di chi si è tanto speso, e tanto
si spende, perché vengano approvate entrambe non c’è
mai stata quella di cambiare la forma di governo (che non cambierebbe
affatto, dicono, se entrambe fossero approvate).
Poi arriva
D’Alimonte,
che ha scritto entrambe, e manda tutto in vacca:
(1) «Come sapete,
Renzi tiene distinta la riforma costituzionale dalla riforma
elettorale. Io invece ritengo che questo sia un errore, perché gli
italiani devono capire che siamo di fronte a una scelta che si fonda
sulla combinazione tra il nuovo sistema di voto, l’Italicum,
e i cambiamenti costituzionali. Insieme queste due riforme disegnano
un modello di democrazia rappresentativa diverso da quello che ha
caratterizzato il nostro sistema politico a partire dal 1948»;
(2)
«Il cosiddetto Italicum è una riforma in fondo molto semplice, al
di là di certe tecnicalità. Il suo punto di forza è che noi
elettori saremo messi in condizione di scegliere “direttamente”
il governo del paese. Lo dico senza mezzi termini perché non mi
spaventa l’accusa
di tanti costituzionalisti che con l’Italicum
si cambia la forma di governo».
Più linguacciuto di Calderoli,
capace di assai più stretta sintesi (d’altronde
si sa come son fatti, i professoroni), però altrettanto onesto, anzi di più, perché, per dire chiaro e tondo che aveva scritto «una porcata», Calderoli impiegò anni, e invece D’Alimonte lo dice ora, prima che le sue porcate vengano approvate, bravo D’Alimonte.
Avrebbe meritato di avere più voce in questa campagna referendaria per sei quinti centrata sul taglio dei costi della politica, anzi addirittura sul «taglio dei politici», sarebbe stato bello sentirlo dire che «questa questione è abbastanza irrilevante», «non è la parte più importante della riforma», però merita di essere gonfiata perché «serve a mobilitare consenso».
Questo ci sarebbe piaciuto sentire, e invece per mesi ci è toccato patire i pippotti mandati a memoria dagli uommene scic e dalle femmene pittate coi quali Renzi ci ha intasato tutti i canali di comunicazione: la riforma costituzionale non ha niente a che vedere con l’Italicum, non cambia la forma di governo, serve a risparmiare denaro pubblico, è l’ultima chance per evitare il default... Meglio, molto meglio, D’Alimonte: «La riforma poteva essere fatta meglio». Nel senso che, dovendo far fuori la democrazia parlamentare, il presidenzialismo poteva essere meno implicito, ma, si sa, anche chi è onesto non può sempre essere esplicito come vorrebbe.
[Tutti
i virgolettati sono tratti dalla lezione tenuta dal professor Roberto
D’Alimonte al Convegno del Bancoper’s tenutosi lo scorso 29
ottobre e pubblicata su Il Foglio di martedì 22 novembre.]
[...]
Gli
mancavano solo kneych in testa, barba e payot a incorniciargli il
viso e taled sulle spalle, e poi l’avresti
scambiato per rabbi
Jehida Löw ben Bezalel chiamato a rispondere del suo ultimo golem davanti
al Consiglio degli Anziani: «Al referendum non giudichiamo Renzi»;
e poi: «Non condivido le sue motivazioni: l’obiettivo
non è tagliare le poltrone».
Povero Napolitano, con Monti e Letta nessun problema, ma stavolta la
creaturona gli è scappata di mano: personalizza, fa il populista, insomma, smerda la Qabbalah.
lunedì 21 novembre 2016
A due settimane dal referendum del 4 dicembre
A due settimane dal
referendum del 4 dicembre mi accorgo che sulla tessera elettorale non
ho più spazi liberi per la certificazione del voto, ma la grave
forma di allergia che da sempre mi si scatena a meno di tre metri da
un qualsiasi sportello della pubblica amministrazione mi pone seri
ostacoli al suo rinnovo, al punto da considerare l’ipotesi
di soprassedere, unendomi così ai tanti che di sicuro anche
stavolta, per le più svariate ragioni, si asterranno.
Sì, ma poi
come giustificarlo? Mettiamo caso, per esempio, che fra qualche anno
un nocillo o un limoncello accenda a fine cena la discussione sul
referendum del 2016, e qualcuno mi chieda cosa votai in quella
occasione, che figura rimedierei a rispondere che preferii astenermi
perché la tessera elettorale aveva esaurito gli spazi per il bollo e
mi scocciava rinnovarla?
Nell’ipotesi
che vinca il Sì, e di conseguenza l’Italia
sia già proiettata nel luminoso futuro che così le si aprirebbe fin
dal 5 dicembre, ci farei la figura di chi non vi ha contribuito in
alcun modo, nemmeno con un No del quale dirmi pentito, offrendo così
al Partito della Nazione il mio pentimento a edificazione del più
alto sentimento patrio.
Nell’ipotesi
che vinca il No, invece, rimedierei comunque il meritato biasimo per
non aver fatto nulla per tirar fuori il paese dalla palude nella
quale senza alcun dubbio ci ritroveremmo, senza poter offrire neppure
uno «sbagliai» in onore di chi a
ragione paventava tanta sciagura.
No, è chiaro che in entrambi i
casi rimedierei una figura di merda. Se voglio scansare la rottura di
cazzo del rinnovo della tessera elettorale, devo costruirmi una
solida argomentazione in favore dell’astensione, tanto più perché in giro non se ne vede, ma devo sbrigarmi, perché al 4 dicembre manca poco.
La
fretta, tuttavia, non deve venire a detrimento della solidità della mia
posizione. Piglierò il meglio del tiepidume che è girato in questi
ultimi mesi, e con un pezzetto da chi «non ho deciso ancora, deciderò
all’ultimo
minuto», uno da chi «ho deciso, ma non dico cosa voterò», uno da
chi «la riforma fa schifo, ma è meglio che niente», uno da chi «il
Sì, non so, però, col No, vince l’instabilità», vedrete, saprò rabberciare un vestitino di onestà intellettuale da far morir
di invidia anche i più scaltri criptorenziani che non fanno il tifo per il Sì perché temono vinca il No e anche i più scafati pseudoantirenziani che «la Costituzione va salvata, sì, però che schifo ’st’accozzaglia».
domenica 20 novembre 2016
[...]
A
me pare che il «da ucciderla»
di cui tanto si è parlato in questi ultimi giorni fosse un’iperbole,
figura retorica cui peraltro Vincenzo De Luca ricorre di continuo.
Certo, per sua stessa natura, l’iperbole
può risultare irritante come ogni altra forma di eccesso, ma questo
non consente in alcun modo di prendere alla lettera l’immagine
che le dà effetto. Ritengo esagerate, dunque, le reazioni che hanno
fatto seguito all’intervista
mandata in onda qualche sera fa da Matrix,
nella quale peraltro l’affermazione
cadeva in un inciso, e trovo francamente strumentale il leggerla come
una condanna a morte in stile mafioso.
Direi che quel «da
ucciderla» sia da considerare
in questi termini: se alla politica non fossero di regola preclusi
quei mezzi che altrimenti le darebbero continuazione in guerra
secondo il noto adagio di Carl von Clausewitz, l’eliminazione
fisica di un avversario sarebbe pienamente legittima, e con
l’iperbole
lo diventa, perché l’eccesso
col quale essa si incarica di rappresentare una data situazione mira
a rivelarne la natura alterandone il grado. Messa in questo modo,
penso che la questione perda il peso che le si è inteso dare, per
offrirsi eventualmente solo come spunto a una eventuale discussione
sull’uso
delle figure retoriche nel dibattito politico, se non fosse che
sarebbe un doppione di quella già tenutasi sulla «rottamazione».
Credo che invece l’attenzione
possa più proficuamente applicarsi a considerare il casus
belli: «Ci abbiamo
perso un 1,5-2% di voti», dice Vincenzo De Luca, con ciò
chiarendo in cosa abbia avvertito la ferita che, almeno nelle
intenzioni da lui attribuite a Rosy Bindi, ritiene intendesse esser
mortale, dando con ciò legittimità a una risposta che in guerra è
sempre ben commisurata all’offesa,
perché uccidere chi vuole ucciderti è il senso primo e ultimo di
ogni impresa bellica. Va tuttavia fatto presente che tale
perdita non ha impedito a Vincenzo De Luca di vincere su Stefano
Caldoro, suo più diretto concorrente, con quasi il 3% in più di
voti, e dunque la questione va posta in questi termini:
«da ucciderla»,
sia, ma quando? Lì per lì, quando la ferita sembrava potesse essere
mortale, o anche dopo che l’esito
non si è rivelato tale? Chiudiamo
un occhio sull’iperbole,
ma chiariamo se in guerra si debba o meno fare prigionieri. Così,
giusto per sapere come comportarci il giorno che Vincenzo De Luca
dovesse capitarci sotto mano finalmente disarmato.
venerdì 18 novembre 2016
Credere, tradire, vivere
Ero una lucertola, e beato prendevo il sole sul lucernario di un museo di paleontologia, e di sotto c’era lo scheletro di un dinosauro, che a palpebre socchiuse, attraverso il vetro, miravo e rimiravo. Un gran bel dinosauro, devo dire. E più lo guardavo, più mi piaceva. Al punto che a un tratto l’orgoglio di classe animale mi ha fatto sbottare: «Che cosa straordinaria, ’sta nostra rettilitudine!».
Neanche il tempo di pensarlo, ed ecco che davanti mi si para un ragazzino, e fa per acciuffarmi. Per una frazione d’attimo resto di stucco: «E che ci fa quassù, un ragazzino?». Riparo subito sotto una tegola, ma la sorpresa mi fa indugiare il tanto da costringermi a lasciargli la coda in mano. «Fa niente – provo a consolarmi, pensando a quello che ho evitato, col cuore ancora in gola e il moncone sanguinante – tanto poi mi ricresce». E qui, di soprassalto, mi sveglio.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Ai piedi del divano scorgo il libro sul quale mi sono appisolato e il significato del sogno mi è subito chiaro: leggendolo non me ne sono accorto, ma questo Credere, tradire, vivere (il Mulino, 2016) deve avermi strappato simpatia per il suo autore, che è Ernesto Galli della Loggia. Troppo imbarazzante per poter esser percepita in modo conscio, evidentemente, e di qui il sogno.
Per evitare l’imbarazzo, sorvolo sul significato e vado ai dettagli, a partire da quel bisillabo comune a lucertola e a lucernario. Non è una buona idea, perché l’attenzione mi scivola subito su quella rettilitudine, cui m’avvedo basta togliere una sillaba perché diventi rettitudine, ed ecco che di sponda l’imbarazzo mi schianta: sempre inconsciamente – e chi lo avrebbe mai detto – a Ernesto Galli della Loggia riconosco pure onestà intellettuale. E non basta, perché è evidente io senta che un’affinità ci unisce.
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più d’un geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però dev’esserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».
Certo, lui è un rettile di grossa taglia, fa la sua splendida figura in una delle più ampie sale di un museo strapieno di preistoria, solenne testimone di uno sconvolgente cataclisma che ha estinto tutta la sua specie e cambiato la faccia del pianeta, mentre io sono poco più d’un geco e poco meno di un ramarro, sto rintanato sotto una tegola, e in fondo che mi è capitato? Una disavventura di poco conto. E però dev’esserci qualcosa che me lo fa sentire affine. Ma cosa?
Provo a capire rileggendo i passi che ho sottolineato, ma non trovo niente che possa spiegarlo. «D’altronde – mi dico – per loro stessa natura i sogni sono ingannevoli...».
Iscriviti a:
Post (Atom)