giovedì 22 dicembre 2016

Simply clever

Quando si è dentro al cambiamento, è pressoché impossibile aver piena comprensione della sua portata, tanto meno prevedere quali ne saranno i tempi e i modi, e ancor meno prospettarne gli esiti. Già è tanto riuscire a cogliere alcune delle forze in atto, tentare di individuarne i vettori, costruire gerarchie di probabilità, ma nutrire convinzioni su quella che ne sarà la direttrice, o addirittura darle solidità di visione, non è che una scommessa: ci si può azzeccare, e allora ci si guadagna fama di profeta, oppure no, ma almeno l’ansia si è stemperata in letteratura di evasione.
Altra cosa, ovviamente, è osservare il cambiamento dallesterno, e altra ancora è analizzarne lo sviluppo e il risultato quando il processo può dirsi concluso, dove comunque nulla garantisce una migliore comprensione di cosa stia cambiando o sia cambiato, e di quanto, e di come, per limitarsi a esserne condizione minima necessaria.
A voler essere pignoli, in realtà, nessuna osservazione prescinde mai del tutto dallosservatore, che inevitabilmente altera sempre ciò che intende analizzare per il solo fatto di doverci necessariamente metter mano. In tal senso, anche senza dover ricorrere ad esempi come lentanglement di Schrödinger o il controtransfert di Freud, potremmo dire che si è sempre dentro al cambiamento che si intende comprendere, sia quando è in atto, sia quando è già compiuto, e nondimeno il bisogno di capire resta: la certezza di non poter mai cogliere del tutto lessenza del fenomeno non può paralizzarci, abbiamo il dovere di produrre modelli sempre migliori, pur rassegnandoci a sapere che non ne esiste uno perfetto.
Ma quale soluzione ci è data quando il cambiamento dentro il quale siamo ci ha sottratto ogni strumento per produrre un modello di realtà che sia dotato almeno di una coerenza di sistema? Non ci resta che la fierezza della contraddizione, lorgoglio della confusione, lesibizione di un Io-ossimoro che si fa vanto di essere «poco razionale», ma che nel saper «pensare con la sua testa» riesce a trovare, chissà come poi, garanzia di autocoscienza e di autodeterminazione.
Nessuno meglio di un esperto in messaggi pubblicitari sa cogliere lo spirito dei tempi, e allora ecco lo sproposito di un umanesimo «emozionalmente pragmatico», sospeso nel vuoto lasciato dalla crisi dei «veri valori» a urlare «sono», «posso», «voglio», senza saper dire cosa, nella convinzione che questo basti a dargli senso, «semplicemente». 
Siamo davvero messi male, almeno questo mi pare emerga chiaramente dal monologo di uno che non sa neppure trovare il bandolo del groviglio che lo avvolge e tuttavia pare decisamente convinto che il solo agitarvisi dentro possa bastare a renderlo «clever». Consegniamo agli storici questo documento che meglio di ogni altro parla della nostra impotenza. 

martedì 20 dicembre 2016

Giacché

Giacché nel linguaggio corrente è sempre più frequente luso di espressioni che invece fino a qualche tempo fa erano oggetto di severo biasimo per il loro eccesso di colore, penso sia ipocrita pretendere che ad astenersene debba essere proprio quel ceto politico che di continuo si rimprovera di essere troppo distante dalla gente comune, quindi ritengo sia del tutto fuori luogo dare addosso a Giachetti perché ha dato del «faccia di culo» a Speranza: concedo sia espressione forte, e anche volgare, ma non dimentichiamo che «volgo» sta per «popolo» e che «culo» è usato anche da Dante Alighieri (Inferno, XXVI).
In conclusione, direi che tutta questa indignazione nei confronti di Giachetti sia francamente immotivata: ritenendo spudoratamente incoerenti le odierne posizioni di Speranza sul Mattarellum rispetto a quelle che lo stesso sosteneva in passato, si è servito di un’immagine di forte impatto per dare maggiore efficacia alla propria riprovazione di tale atteggiamento, questo è tutto.
Non si trascuri, inoltre, che Giachetti nasce radicale, quindi ha nel sangue quella smania di visibilità mediatica che non si fa scrupolo di esser soddisfatta ricorrendo a provocazioni apparentemente estemporanee, ma in realtà assai ben studiate: cosa di meglio c’era, in una noiosa assise del Partito Democratico, per esser riscaldato dai riflettori dopo la gelata delle Comunali di Roma? Si chiuda un occhio, via, ché in fondo un «faccia di culo» non ha mai ucciso nessuno.
Post hoc, ma soprattutto propter hoc, andrebbe trovata un’espressione altrettanto pertinente per un tizio – Giachetti, appunto – che prima mi fa uno sciopero della fame per abolire il Porcellum, e poi mi vota lItalicum: io direi «testa di cazzo». 

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Ho una figlia che vive e lavora allestero, quindi credo di aver diritto a uninterlocuzione diretta con Giuliano Poletti, che prima dice: «Il paese non soffrirà ad averla più fra i piedi», e poi: «Chiedo scusa, mi sono espresso male».
Volevo innanzitutto dirgli che è un incommensurabile pezzo di merda e subito dopo, nel caso si ritenesse offeso, assicurarlo che mi ha travisato.

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Se quella che Renzi ha offerto allAssemblea nazionale del Pd era la tanto attesa analisi della sconfitta rimediata il 4 dicembre, provate a immaginare cosa sarebbe stata lanalisi di uneventuale vittoria, e quali reazioni avrebbe suscitato nella platea dell’Ergife. Cetre, cimbali, siringhe, e fra due ali di folla scossa da orgasmi multipli, su un tappeto di petali di rosa, ecco avanzare il mastodontico Io-Minchia del vincitore portato in spalla dai suoi fedelissimi. Una processione di quelle che Kerényi ci ha descritto in Dionysos, più o meno. E sarà pure bello aver salvato la Costituzione, ma è l’esserci risparmiati ’sta φαλλοφορία che non ha prezzo.

sabato 17 dicembre 2016

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Al M5S resta ununica scappatoia per non pagare a caro prezzo la leggerezza di aver candidato Virginia Raggi al Campidoglio, e chissà che non possa addirittura guadagnarci qualcosa: non più tardi di domenica o lunedì, deve ufficialmente chiederle di dimettersi, sperando che ella opponga una qualsiasi resistenza, anche blanda, fosse pure in forma dindugio, per espellerla subito dal movimento e, a seguire, prodursi pubblicamente in una spietata autocritica, meglio se esagerando in severità e in contrizione, su quanto sarà il caso di presentare come unimperdonabile concessione di autonomia decisionale, un cedimento alla logica che l’eletto non debba avere vincoli di mandato. Virginia Raggi dovrà necessariamente uscire a pezzi da questa autocritica: si dirà che troppo tardi si è compreso chi fosse davvero, che si è peccato di inescusabile leggerezza nel non saper comprendere per tempo di quali interessi fosse referente, eventualmente si concederà che per far breccia nellelettorato benpensante si è ceduto alla tentazione di candidare un volto carino, ma questo sarà il caso di non dirlo esplicitamente. Di notevole importanza sarà ammettere che una prova come quella del Comune di Roma ha investito il movimento di una responsabilità sentita tanto gravosa da portare ad avallare la scelta di alcuni tecnici che il Sindaco assicurava fossero di grande competenza, con ciò attenuando la rigorosità del controllo sul loro profilo morale, sul loro mondo di appartenenza, ecc.: il M5S ammetterà di essersi fidato troppo di Virginia Raggi, di averla lasciata fare troppo, di non essere intervenuto prima, quando si faceva strada il sospetto che le sue decisioni fossero improvvide o addirittura eteroguidate, e che di questo chiede scusa agli elettori, assicurando che non accadrà mai più. Indispensabile, su questo punto, rimarcare la differenza con le altre forze politiche, respingendo col dovuto sdegno ogni tentativo di equiparazione.

mercoledì 14 dicembre 2016

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Come poté, Michele Serra, prendere la tessera di un’associazione che appena cinque prima, nel 2006, in occasione del referendum sulla riforma costituzionale promossa dal centrodestra, si era apertamente schierata in favore del No e contro il Sì, per poi mobilitarsi a più riprese contro alcuni provvedimenti del governo Berlusconi, con ciò facendo quello che oggi, per l’aver assunto identica posizione in occasione del referendum sulla riforma costituzionale promossa dal governo Renzi, egli ritiene sia un uso indebito della sua funzione? O era un coglione allora, nel 2011, o è un ipocrita oggi, nel 2016.

martedì 13 dicembre 2016

Segnalibro

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Quando sento i soloni della politica e della cultura, seguiti a ruota dai loro epigoni in sedicesimo, lamentare che il web ribolle dodio, mi vien voglia di dir loro: zitti, per carità di Dio, state zitti, ché senza il web tutto questodio lo vedreste nelle strade, e invece della gragnucola di tweet insultanti vedreste piovere sampietrini, invece delle migliaia di like a un’invettiva rancorosa vedreste dei linciaggi, lasciate che ogni esasperato possa sfogare tutta la rabbia attraverso i cavi che collegano la sua incubatrice a questo cyberspazio in cui ogni sollevamento popolare, ogni rivoluzione, ogni guerra civile, si risolve in stragi e devastazioni tutte virtuali, lasciando al potere chi ci stava, e nella merda chi ci resta.
E farei loro l’esempio del governo Gentiloni, direi: non ci fosse internet per sfogare la sacrosanta indignazione che nasce nel vedere che a Palazzo Chigi s’insedia un esecutivo fotocopia di quello che venti milioni di No hanno mandato affanculo il 4 dicembre, non avreste in piazza a far danni materiali almeno un decimo di quanti su Twitter o su Facebook la stemperano in uno zotico improperio o in un acido sarcasmo? Ma che dico, ne basterebbe un centesimo per mettere a dura prova le forze dell’ordine, e senza dubbio ci scapperebbe il morto, forse due, dieci, ventisette, cinquantuno.
Non mi fraintendete: anch’io, come voi che presidiate le rendite di posizione di chi da tempo ha svuotato di sostanza la democrazia lasciandone solo il guscio vuoto, per giunta tutto ammaccato, trovo inescusabili certe espressioni che grondano livore, ma direi che vi convenga chiudere un occhio e lasciar scorrere, riservandovi semmai un’altezzosa levata di sopracciglio sulla bestiale volgarità della plebe che intasa i social network. Lasciateli sfogare sulla tastiera, probabilmente a loro basterà ancora per molto, e questo vi consentirà di continuare a preservare il Palazzo. Sennò poi a chi potreste offrire consulenza? 

Corrispondenze

[Qui riporto quanto un lettore scrive nella pagina dei commenti al post qui sotto e, a seguire, la mia risposta.]

Egregio dottore, io fatico ancora a capire cosa c'era di sbagliato nel ridurre il numero dei parlamentari, i costi della politica, gli stipendi dei consiglieri regionali (che oggi guadagnano più del Presidente degli Stati Uniti), abolire il CNEL, sopprimere le provincie come greppia dei partiti modificandone l'assetto, introdurre il referendum consultivo, garantire la governabilità di un paese per 5 anni e un percorso legislativo più efficiente, con data certa per la formazione delle leggi. Appartengo ai sognatori del SI, e forse ho sbagliato - è un mio limite - ma tutti quelli con cui ho parlato e che hanno votato no, mi hanno detto che l'hanno fatto per delusione circa la politica economica di Renzi, perché sono esasperati per la difficoltà a trovare lavoro, o per il problema dei migranti, o per la buona scuola, o per tutta una serie di motivi che nulla hanno a che fare con il merito del referendum. Alla domanda "Cosa non ti convinceva della riforma proposta?" la risposta era un imbarazzato cambio di argomento. A mio modesto parere Renzi ha pagato l'errore strategico di trasformare il referendum in un plebiscito sulla sua persona, l'eccessiva sicurezza sulla bontà delle proprie ragioni, che è stata scambiata per arroganza, la mancata percezione del grado di disperazione raggiunto da strati sempre più ampi della popolazione e la scarsa sensibilità verso gli umori della gente (vedi problema migranti), che con il voto hanno inteso mandargli un potente segnale di malessere. Non sono cose di poco conto, certamente, ma per contro va sottolineato come l'agglomerato del no (non chiamiamola accozzaglia se no si offendono) che spaziava dai neofascisti all'estrema sinistra, era unito solo dal desiderio di defenestrare l'odiatissimo toscano, ma nessuno di loro mi pare in grado di esprimere una proposta politica credibile ed alternativa all'attuale maggioranza (tranne voler credere ai proclami dei grillini, che ancora ci devono spiegare con chi vorrebbero allearsi per formare un governo, o alle velleità di Salvini). Smaniano per andare subito al voto con una legge sub judice e si rifiutano di elaborarne un'altra. Grande prova di maturità politica. Renzi non sarà il meglio che poteva esprimere l'Italia, ma nel prossimo futuro io vedo solo il ritorno al proporzionale per fottere Grillo e al consociativismo della prima Repubblica, e non vedo alcun segno di progresso democratico in questo. Mi sbaglio?
Cordialmente
Giuseppe G.



Sì, si sbaglia. Sbaglia, innanzitutto, nel dare della riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre una descrizione infedele, in tutto simile a quella spacciata dai propagandisti del Sì. Se fra gli scopi della riforma c’era veramente quello di ridurre il numero dei parlamentari, perché non ridurre anche il numero dei deputati? In quale altro paese c’è un rapporto 1:80.000 tra eletto ed elettore? Se fra i suoi scopi c’era quello di ridurre i costi della politica, perché non limitarsi a dimezzare gli stipendi dei parlamentari? Di più: perché bocciare ogni iniziativa legislativa fin qui promossa in tal senso? Le risulta, poi, che la riforma contemplasse una riduzione degli stipendi dei consiglieri regionali? E le risulta che, cambiando nome alle province, chiamandole città metropolitane, venga ad essere ridotto il controllo delle segreterie dei partiti sulle amministrazioni locali? Pensa che a garantire la governabilità di un paese per 5 anni (ma perché poi non per 10, per 15 o per 20?) debba pensare la Costituzione? E allora perché non fare della legge elettorale un suo articolo? In quanto al «percorso legislativo più efficiente», scherza, vero? La riforma ne prevedeva una dozzina e l’art. 70, quello relativo alle pertinenze del nuovo Senato, implicava la necessità di un ricorso permanente alla Consulta per sanare i conflitti di attribuzione in materia. Ma, poi, perché su tutto questo avremmo dovuto decidere a pacchetto? E ancora, e prima, si arriva alla revisione di un terzo della Costituzione nel modo in cui ci si è arrivati? Senza alcun esplicito mandato popolare? Per impulso di un Presidente della Repubblica che accetta la rielezione solo se il Parlamento gli dà garanzia che la revisione sarà fatta? E a promuoverne l’iter, conducendolo poi come lo si è condotto, lei crede igienico sia l’esecutivo? Lei si definisce un «sognatore del Sì», ma la riforma non era un sogno: era un incubo. Dice che tutti quelli con cui ha parlato e che le hanno espresso l’intenzione di votare No le hanno detto che l’avrebbero fatto per tutta una serie di motivi che nulla avevano a che fare con il merito della riforma. E a chi vuole imputare questa impropria strumentalizzazione del referendum? Chi l’ha fatto diventare un voto sul governo? Chi lo ha insistentemente personalizzato cercando di trasformarlo in un plebiscito? Lei riconosce che questo sia stato un errore, ma pensa che Renzi l’abbia pagato. E come? Sul piatto aveva messo il ritiro della politica e invece si è limitato a dimettersi dalla Presidenza del Consiglio pilotando la crisi verso un governo fotocopia del suo e presieduto da un prestanome. Questo sarebbe il prezzo pagato per aver spaccato il paese al solo fine di tentare un rafforzamento delle sue posizioni? Mi fa venire il sospetto che abbia voglia di scherzare. Quando poi dice che in Renzi abbiamo scambiato per arroganza l’eccessiva sicurezza sulla bontà delle proprie ragioni, il sospetto è che voglia prendermi in giro. Avrà avuto modo di sentirlo nel faccia a faccia con Giovanni Minoli: egli stesso fa ammissione di essere arrogante (e impulsivo e cattivo), e in un modo molto compiaciuto che direi arroganza dell’arroganza. Lei prosegue la sua difesa della riforma oltre termine massimo concedendo che il tempo e le energie che il governo vi ha sprecato sopra e attorno sarebbero state meglio impiegate nel cogliere il grado di disperazione raggiunto da strati sempre più ampi della popolazione. E le sembra poco? No, non le sembra poco, ma cosa le sembra che bilanci tanta bestialità? Il fatto che chi ha votato No non sia in grado di esprimere una proposta politica credibile ed alternativa all’attuale maggioranza. E che c’entra? Sono diventate agglomerato, come benevolmente concede rinunciando a dire accozzaglia, perché contrarie alla riforma, non perché intenzionate a offrire un’alternativa di governo. Forse che all’indomani del referendum sul divorzio c’era da attendersi un governo guidato dai radicali? Credo che lei debba chiarirsi un po’ le idee sul significato che vuol dare al voto del 4 dicembre, perché mi pare patente la contraddizione tra affermare che fosse in questione una riforma costituzionale che chiunque poteva trovare buona, indipendentemente dalla sua appartenenza a questo o quel partito e dal sostegno a questo o quel governo, e poi pretendere che quanti l’hanno trovata cattiva adesso abbiano il dovere di presentarsi uniti alle prossime elezioni politiche. Lei trova che l’accozzaglia – pardon, l’agglomerato – mostri l’insana smania di andare subito al voto, probabilmente per incassare i dividendi della vittoria del No. A me pare che questa smania sia più di Renzi e dei suoi, convinti che il 40% di Sì andrebbe tutto al Pd, ma in entrambi i casi si tratta di impressioni, penso si possa trascurare la questione. Di certo c’è che la legge sub judice era quella che tutta l’Europa ci avrebbe copiato, tant’era giusta e buona e bella, e adesso fa paura innanzitutto a chi l’ha scritta perché favorirebbe il M5S. Direi che con la riforma costituzionale bocciata dal popolo e con quella della pubblica amministrazione bocciata dalla Consulta faccia un trittico che illustra a dovere l’asineria di chi le ha scritte. Renzi non sarà il meglio che poteva esprimere l’Italia, dice. Anche su questo non mi trova d’accordo: penso che al livello in cui era caduta non potesse esprimere altro, e che è difficile, ma non impossibile, possa anche far peggio. Sia chiaro che, nel caso, questi ultimi due anni e mezzo si riveleranno essere stati determinanti. 

lunedì 12 dicembre 2016

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Fosse morto, capirei la festa, ma Matteo Renzi è ancora vivo, ed è molto più pericoloso adesso che prima, perché la bestia del narcisismo dà il peggio di se stessa quandsi rintana ferita. Non c’è ragione di far festa, dunque, d’altronde si è solo evitato che scempiasse la Costituzione: continua a mantenere il controllo del partito, del parlamento e del governo, e in fondo cosa ha perso? Solo quel merdoso sorrisetto che ci ha propinato a reti unificate ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette, per più di due anni e mezzo. E dovrebbe bastar questo per far festa? Dovremmo credere che abbia perso il controllo sull’informazione solo perché ora qualche editorialista non gli lecca più il culo come gliel’ha leccato fino alle 22,59 del 4 dicembre? Dovremmo credere che la sua cosca sia in rotta solo perché al momento sul web i suoi picciotti non scaricano più la lupara, come hanno fatto fino all’altrieri, su chiunque azzardi un critica al loro boss? Siamo seri, via, l’avete sentito a caldo? Gli è uscito un «non credevo che mi odiassero così» del quale, a leggerlo come si deve, dovreste aver paura. Al pagliaccio sta colando via il trucco, ora vedrete la sua vera faccia.

venerdì 9 dicembre 2016

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Ci sono matti che credono di essere Napoleone e matti che credono di essere Talleyrand. 

martedì 6 dicembre 2016

Ma non subito


Era training autogeno già alla vigilia, quando la paura di perdere cominciava a incrinare la convinzione, maturata poi chissà come, che il Sì avesse recuperato e fosse prossimo al sorpasso: si diceva che in caso di sconfitta, che comunque poteva essere solo di stretta misura, Matteo Renzi avrebbe avuto buon diritto di intestarsi quel 49, quel 48, quel 47 per cento, come espressione di una fiducia che gli era rinnovata da mezza Italia, o quasi, mentre l’altra metà gliela negava, certo, ma solo in forza dell’essere accozzaglia di tutto il resto, roba buona a fare opposizione, ma incapace di esprimere una credibile alternativa di governo.
Avesse vinto il Sì, nessun problema: era chiaro, con ciò, che Matteo Renzi avesse il consenso di più della metà del paese, che evidentemente aveva voluto confermargli la fiducia che gli era stata espressa col voto delle Europee del 2014. In entrambi i casi, le Politiche erano da considerarsi mera formalità. Diventava irrilevante stabilire quando indirle, altrettanto irrilevante stabilire con quale legge elettorale tenerle, si poteva lasciar decidere a lui delluna e dellaltra cosa, secondo come gli girava l’agenda.
Erano i suoi a dargli voce, li avrete sentiti. Sgusciando la fava dal baccello: «Di chi è la riforma costituzionale? Sua, no? Giocoforza, allora, il Sì alla riforma sarà un Sì anche a lui: la personalizzazione del referendum, dunque, è più che legittima. Anzi no, come non detto, personalizzarlo è un errore, non vi permettete di personalizzarlo. Mettendo da parte l’antipatia nei suoi confronti, infatti, considerando il merito della riforma, anche un elettore di Forza Italia o, perché no, del M5S, se intellettualmente onesto, può trovarla buona, e votare Sì. È chiaro, naturalmente, che poi andrà conteggiato come elettore che vuole resti a Palazzo Chigi. Diciamo che la personalizzazione continua ad essere legittima, ma solo per quanto può tornargliene di comodo».
È training autogeno anche adesso che la sconfitta si è rivelata assai più pesante e, tutto sommato, poteva esserlo anche se il No avesse vinto col 62, col 63, col 64 per cento, perché un uomo cui va il consenso del 38, del 37, ma anche soltanto del 36 per cento di un elettorato che ormai è tripolarizzato, può dirsi pienamente legittimato a proporsi come più la credibile offerta di leadership presente sul mercato. Solo lItalicum potrebbe mettersi di traverso, ma ci penserà la Consulta a rottamarlo, e sì che era un gioiellino, tutta lEuropa ce lavrebbe invidiato. Presto, allora, si voti.
Poi c’è che il Sì ha raccolto il 40 per cento e 40 è un numero portafortuna, perché è col 40 per cento che Matteo Renzi perse le Primarie contro Pierluigi Bersani nel 2012 ed è col 40 per cento che vinse le Europee del 2014: la fede cieca ci vede la fatale sinusoide, dopo un 40 per cento con cui si perde c’è un 40 per cento con cui si vince, e se ieri è col 40 per cento che si è perso, si vada subito al voto perché sarà di certo col 40 per cento che il Pd vincerà le Politiche.
È impossibile capire quanto ci sia di qabbalàh in questo modo di trarre indicazioni dal risultato del 4 dicembre, di certo trova un senso pienamente intellegibile solo nella malata logica che assegna a Matteo Renzi il ruolo di uomo indispensabile al paese, mentre in realtà lo è solo ai suoi cortigiani, che continuano a reggergli lo strascico anche adesso che dalla piazza s’è levata voce che il re è nudo. Sono loro ad aver drogato per anni la sua autostima fino a trasformarla in narcisismo paranoide, sono loro ad averlo portato alle vette di un delirio, a tratti lucido, ma sempre meno, dal quale ormai gli è consentito solo precipitare. Ma non subito. Mancano ancora le convulsioni, che di solito prendono tempo. 

lunedì 5 dicembre 2016

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Sono note le ragioni che da qualche tempo rendono sempre meno attendibili i sondaggi relativi alle intenzioni di voto, fino a materializzare sempre più spesso il proverbiale granchio quando le opzioni si riducono a due. Cè innanzitutto il fatto che la cosiddetta morte delle ideologie e la conseguente crisi dei partiti a forte impronta identitaria hanno reso i corpi elettorali estremamente fluidi. Per ottenere risultati più affidabili, quindi, sarebbe necessario sondare campioni assai più ampi, ma questo comporterebbe tempi troppo lunghi e costi spesso insostenibili: politica e comunicazione corrono assai più in fretta di quanto abbiano mai fatto, e non hanno più le risorse di cui godevano in passato.
Ma accanto a questi fattori ve ne è un altro che non sembra affatto irrilevante, visto che sempre più spesso viene chiamato in causa per dar ragione di errori di previsione che talvolta arrivano ad essere tragicomicamente vistosi: sono sempre più numerosi, fra quanti sono contattati dagli istituti di rilevamento, coloro che rifiutano di esprimere la propria intenzione di voto o addirittura ne dichiarano una che non corrisponde a quella reale.
Su perché questo accada non cè unanimità di parere, ma sembra che sia preminente il timore di esprimere unintenzione di voto che si ritiene possa incorrere in un maggioritario giudizio di deprecazione: «Cè chi mente per vergogna», ha sintetizzato Oscar Mazzoleni, che insegna Scienze politiche allUniversità di Losanna, per spiegare perché negli Usa tutti i sondaggi dessero la vittoria a Hillary Clinton.

Pare pretendere qualche sostegno, allindomani del voto del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, la tesi che «stavolta i sondaggi ci hanno azzeccato», minimizzando il fatto che, fino a quando ne è stata possibile la diffusione, ma anche dopo, quando pateticamente camuffati ne trapelavano comunque gli aggiornamenti, non abbiano mai assegnato al No un vantaggio maggiore di 7-8 punti, mentre il risultato gliene dà 20.
È uno scarto che ci consegna unItalia in cui almeno 2 o 3 milioni di persone avevano una qualche forma di imbarazzo nel dichiararsi a favore del No, e hanno mentito, dicendo che avrebbero votato Sì o schermendosi si dicevano ancora indecise. E io credo che a tanto possa quantizzarsi lItalia che ha creduto nella solidità culturale, primancora che politica, di una possibile età renziana, e che naturalmente ora non ci crede più.
Non è per sminuire l’importanza di un risultato che ha numerose altre implicazioni – ci tornerò sopra – ma la prima considerazione che ritengo utile è relativa proprio a questo dato: prima che la guida del governo, Renzi ha perso lo smalto dell’uomo che inaugura un’epoca.
Molto peggio che aver preso finalmente atto che c’è chi ti odia più di quanto tu credessi, è scoprire che un di più ti odiava, ma aveva qualche riserva nel fartelo sapere, e ora non più. 

sabato 3 dicembre 2016

Perché

Sono passati undici anni da quando gli italiani furono chiamati a esprimersi sulla legge 40/2004, ma per me è come fosse ieri, perché la gran parte delle mie odierne convinzioni relative a società, politica e diritto hanno fondamento nella lezione che ho tratto da quella tornata referendaria, e fu lezione durissima.
Si trattava di una legge non necessaria, ma si disse fosse indispensabile e urgente. Si trattava di una legge che in molti suoi punti mostrava chiaro profilo di incostituzionalità, ma il Parlamento lapprovò. Era chiaro, soprattutto, che si trattasse di una legge stupida e crudele, ma solo un italiano su quattro si scomodò a prenderne atto e a farlo presente con lo strumento di democrazia diretta che gli era stato offerto.
Nel dibattito tra le opposte fazioni in campo sarebbe stato opportuno discutere dei diritti della coppia e della libertà di ricerca scientifica, ma chi voleva che la legge non venisse toccata riuscì a spostare la discussione sulla dignità dellovocellula fecondata e, giacché il referendum era di tipo abrogativo, trovò buon esito nellobiettivo di far mancare il quorum con linvito allastensionismo. Diciamo che si trattò di una mirabile congiunzione astrale di ignoranza e arbitrio.
Tutto legittimo – legittimo che qualcuno scrivesse una legge del genere, legittimo che il Parlamento lapprovasse, legittimo che chi volesse difenderla si facesse forte del menefreghismo di chi non aveva alcun interesse a esprimere un parere su di essa, e forse neppure a formarsene uno – e tuttavia in contraddizione con lillegittimità della legge poi ripetutamente riscontrata al vaglio della sua costituzionalità e della sua aderenza agli impegni sottoscritti in sede europea: e come è mai possibile risolvere una tale contraddizione tra volontà del popolo, espressa prima per via indiretta (il voto parlamentare) e poi per via diretta (il voto referendario), e cogenza del diritto? Non ha sempre ragione, il popolo?
Evidentemente, no. Non quando delega il momento legislativo a chi scrive leggi di merda, non quando la sua strafottenza fotte i suoi stessi diritti. Per meglio dire: ha ragione anche allora, ma è ragione aleatoria, ragione cui è ben concesso lerrore in vista del riconoscerlo come tale a sue spese.
Basta conoscere la storia di un popolo per poter azzardare scommessa su quanta spesa sarà in grado di sostenere per dare legittimità a un suo errore. Ed è per questo che non mette conto farsi illusioni: una pessima riforma costituzionale come quella che gli italiani saranno chiamati a giudicare domani ha maggiori possibilità di trovare consenso che dissenso.

lunedì 28 novembre 2016

La ragione non ha taciuto

Sono convinto che sarà il Sì a vincere, e credo che sia sempre stato in vantaggio sul No, anche quando i sondaggi dicevano il contrario, per la semplice ragione – qui il lettore mi consenta il bisticcio – che non basta aver ragione per aver ragione, anzi, talvolta può addirittura rivelarsi un handicap, e di questo avremo ulteriore conferma lunedì prossimo, con lapprovazione di una riforma costituzionale che non doveva nemmeno essere mai scritta, perché a promuovere un processo che revisiona un terzo della Costituzione non può essere il Governo, e l’input non può esser dato da un Presidente della Repubblica che condiziona la sua rielezione all’impegno che in tal senso dovrà assumersi chi poi egli sceglierà come Presidente del Consiglio, e ad approvare il testo di una riforma costituzionale, che perciò già in nuce è cosa aberrante, non può essere un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale, autorizzato a legiferare in regime di prorogatio al solo fine di assicurare la continuità dello Stato, di certo non a riscrivere le regole sulle quali è fondato.
Il No ha ragione senza neppure dover entrare nel merito delle modifiche che questa riforma intende apportare alla Costituzione, e a entrarci ne acquista ulteriormente, perché è proprio nel merito che essa rivela quanto non fosse affatto necessaria, tanto meno urgente, rivelando che, a dispetto di quanto afferma chi lha scritta, non semplifica affatto il processo legislativo, né ne abbrevia i tempi, né riduce i costi della politica, se non in misura irrisoria, mentre invece di sicuro riduce il peso della sovranità popolare e cancella ogni distinzione tra potere esecutivo e potere legislativo.
È una riforma costituzionale (in realtà, una revisione costituzionale) che non ha visto affatto il concorso ampio e adeguatamente rappresentativo di tutte le forze politiche alle quali fosse stato dato dal voto popolare un esplicito mandato in tal senso, ma il passivo consenso di un Parlamento di nominati costantemente ricattati dalle segreterie dei partiti, e arriva al vaglio referendario in forza di una formalità procedurale più volte forzata fino al limite della sua rottura, per farsi momento di divisione invece che di condivisione, e solo perché ostinatamente concepita come posta di una scommessa tutta personale.
Ogni ragione è dalla parte del No, ma questo non gli darà ragione, cè da esserne certi, perché il piano sul quale ragione e torto sono chiamati a confrontarsi – quello del diritto, che poi è il piano dove la logica si fa imperativa – è ormai da tempo devastato dall’ignoranza e dallarbitrio. E tuttavia occorre spendersi in favore del No, per lasciar traccia che, seppur costretta ad aver torto, la ragione non ha taciuto. 

domenica 27 novembre 2016

sabato 26 novembre 2016

Ignorantia more geometrico demonstrata

Ve ne fosse stato bisogno, ecco un altro saggio di quell’incompetenza che, più ancora dell’insopportabile arroganza che pure le è indissolubilmente intrecciata, è tratto comune e distintivo degli uomini e delle donne che stanno a corte di Matteo Renzi: la Consulta boccia la riforma della pubblica amministrazione scritta da Marianna Madia per la parte che dovrebbe darle attuazione attraverso i decreti legislativi, e la sentenza rivela quale sia il vizio di fondo di chi da qualche anno occupa abusivamente le stanze del Palazzo, per giunta menando vanto del proprio analfabetismo istituzionale come segno di freschezza giovanile: lillegittimità costituzionale è contestata al punto in cui il Governo dovrebbe agire in intesa con le Regioni, ma si dà potere di farlo solo previo loro parere, peraltro non vincolante: una roba che per sottofondo chiede «e qui comando io / e questa è casa mia».

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Incorrendo nell’erronea affermazione che l’inventore della ghigliottina morì ghigliottinato (in realtà la morte di Joseph-Ignace Guillotin si ebbe per sepsi da Bacillus anthracis), Gianfranco Fini (L’aria che tira – La7, 25.11.2016) ci offre l’occasione di chiederci cosa possa assicurare a un falso storico la fortuna che talvolta pare francamente inspiegabile a fronte delle contestazioni che, com’è nel caso qui preso ad esempio, seguono puntuali e inoppugnabili ad ogni suo rilancio. Credo si tratti di quella che solitamente è detta «morale della favola»: anche quando si può dimostrare che una narrazione riporta in modo infedele gli eventi che si incarica di rappresentare, essa non perde forza persuasiva se dà risposta all’attesa di un paradigma universalmente valido. In altri termini, direi che un falso storico rimane convincente anche quando si rivela tale, se è in grado di illustrare in modo efficace la norma che ci si aspetterebbe fosse necessariamente attiva in ogni situazione analoga a quella di cui il narrato si offre a esempio. Semplificando ancora, e riportando al caso in questione: anche se non è vero, è bene che l’inventore della ghigliottina muoia ghigliottinato per dar ragione del proverbiale «chi la fa laspetti».
A corollario possiamo aggiungere che, per venire incontro a questa esigenza, non è necessario che il falso storico stravolga del tutto la realtà degli eventi, perché a rendere efficacemente emblematica la norma che vuole illustrare possono bastare anche modifiche marginali, comè nel caso, in tutto analogo a quello di monsieur Guillotin, offerto dalladagio «Gioacchino facette a legge e Gioacchino murette mpiso» (in realtà, Gioacchino Murat non fu impiccato, ma fucilato), dove è evidente come una forca si presti assai meglio di un plotone di esecuzione a rappresentare il cappio nel quale spesso finiamo per infilare involontariamente il collo.
Credo che tutto questo valga anche per la «post-verità»: tanto più credibile non quanto più verosimile, ma quanto più utile a confermare un pregiudizio morale, spesso neppure coscientemente avvertito.

giovedì 24 novembre 2016

Ammàzzate-oh!

Paolo Mieli (Ottoemezzo, 23.11.2016) ritiene sia assurdo credere che Vincenzo De Luca abbia mai realmente pensato che Rosy Bindi meriti dessere ammazzata, e ancor più assurdo credere che quel suo «da ucciderla» possa mai intendersi come un mandato, ancorché preterintenzionale, trattandosi palesemente di interiezione estemporanea, equivalente a un «ma va a mori ammazzata!». Sono daccordo con lui, daltronde allo stesso modo era da intendersi quella lettera aperta pubblicata da lEspresso nel giugno del 1971, e di cui Paolo Mieli era tra i firmatari, nella quale Luigi Calabresi era indicato come il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli: non una sentenza la cui esecuzione era affidata a qualche volenteroso giustiziere, ma un innocente «ammàzzate-oh!».