Era
training autogeno già alla vigilia, quando la paura di perdere
cominciava a incrinare la convinzione, maturata poi chissà come, che
il Sì avesse recuperato e fosse prossimo al sorpasso: si diceva che
in caso di sconfitta, che comunque poteva essere solo di stretta
misura, Matteo Renzi avrebbe avuto buon diritto di intestarsi quel
49, quel 48, quel 47 per cento, come espressione di una fiducia che
gli era rinnovata da mezza Italia, o quasi, mentre l’altra metà
gliela negava, certo, ma solo in forza dell’essere accozzaglia di
tutto il resto, roba buona a fare opposizione, ma incapace di
esprimere una credibile alternativa di governo.
Avesse
vinto il Sì, nessun problema: era chiaro, con ciò, che Matteo Renzi
avesse il consenso di più della metà del paese, che evidentemente
aveva voluto confermargli la fiducia che gli era stata espressa col
voto delle Europee del 2014. In entrambi i casi, le Politiche erano
da considerarsi mera formalità. Diventava irrilevante stabilire
quando indirle, altrettanto irrilevante stabilire con quale legge
elettorale tenerle, si poteva lasciar decidere a lui dell’una
e dell’altra cosa, secondo come
gli girava l’agenda.
Erano
i suoi a dargli voce, li avrete sentiti. Sgusciando la fava dal
baccello: «Di chi è la riforma
costituzionale? Sua, no? Giocoforza, allora, il Sì alla riforma sarà
un Sì anche a lui: la personalizzazione del referendum, dunque, è
più che legittima. Anzi no, come non detto, personalizzarlo è un
errore, non vi permettete di personalizzarlo. Mettendo da parte
l’antipatia nei suoi confronti, infatti, considerando il merito
della riforma, anche un elettore di Forza Italia o, perché no, del
M5S, se intellettualmente onesto, può trovarla buona, e votare Sì.
È chiaro, naturalmente, che poi andrà conteggiato come elettore che
vuole resti a Palazzo Chigi. Diciamo che la personalizzazione
continua ad essere legittima, ma solo per quanto può tornargliene di
comodo».
È
training autogeno anche adesso che la sconfitta si è rivelata assai
più pesante e, tutto sommato, poteva esserlo anche se il No avesse
vinto col 62, col 63, col 64 per cento, perché un uomo cui va il
consenso del 38, del 37, ma anche soltanto del 36 per cento di un
elettorato che ormai è tripolarizzato, può dirsi pienamente
legittimato a proporsi come più la credibile offerta di leadership
presente sul mercato. Solo l’Italicum
potrebbe mettersi di traverso, ma ci penserà la Consulta a
rottamarlo, e sì che era un gioiellino, tutta l’Europa
ce l’avrebbe invidiato. Presto,
allora, si voti.
Poi
c’è che il Sì ha raccolto il 40 per cento e 40 è un numero
portafortuna, perché è col 40 per cento che Matteo Renzi perse le
Primarie contro Pierluigi Bersani nel 2012 ed è col 40 per cento che
vinse le Europee del 2014: la fede cieca ci vede la fatale sinusoide,
dopo un 40 per cento con cui si perde c’è un 40 per cento con cui
si vince, e se ieri è col 40 per cento che si è perso, si vada
subito al voto perché sarà di certo col 40 per cento che il Pd
vincerà le Politiche.
È
impossibile capire quanto ci sia di qabbalàh in questo modo di
trarre indicazioni dal risultato del 4 dicembre, di certo trova un
senso pienamente intellegibile solo nella malata logica che assegna a
Matteo Renzi il ruolo di uomo indispensabile al paese, mentre in
realtà lo è solo ai suoi cortigiani, che continuano a reggergli lo
strascico anche adesso che dalla piazza s’è levata voce che il re
è nudo. Sono loro ad aver drogato per anni la sua autostima fino a
trasformarla in narcisismo paranoide, sono loro ad averlo portato
alle vette di un delirio, a tratti lucido, ma sempre meno, dal quale
ormai gli è consentito solo precipitare. Ma non subito. Mancano ancora le convulsioni, che di solito prendono tempo.