martedì 23 novembre 2010

A margine


Gran parte della musica leggera prodotta nei paesi di lingua inglese negli ultimi 60-70 anni ha in comune la lontanissima e comune radice nei canti degli schiavi d’America. È la prima metafora che mi salta in mente in fondo al II capitolo de Il cristianesimo primitivo di Charles Freeman, che sto rileggendo e che riconsiglio. (Sarà che si tratta in entrambi i casi di un prodotto della/nella cattività.) Il cristianesimo primitivo sta al cattolicesimo dell’ultimo secolo – mi viene da pensare – come uno spiritual cantato in una piantagione di cotone sta a una canzone di Elvis Presley, di Bob Dylan, di Bruce Springsteen e dell’ultimo post-grunge. Ma i canti degli schiavi afro-americani in cosa avevano radice a loro volta? Per Gerhard Kubik (Theory on African Music, 1994), l’avevano nella musica islamica. E il cristianesimo primitivo, in cosa ha radice? Per Freeman, sicuramente nell’ebraismo. (La tesi dell’influenza essena è rigettata: gli esseni credevano nell’immortalità dell’anima, ma non nella resurrezione dei corpi, alla quale credevano i farisei. Gesù era un fariseo, poi dissidente.) Probabilmente tra i paramenti sacri indossati nel primo Tempio di Gerusalemme e gli orribili pastrocchi addosso a Benedetto XVI c’è la stessa differenza tra un maqam e una canzone di Kid Creole & The Cononuts.


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