Gustavo Dufour, il Signore delle Caramelle, davanti alla sua fabbrica picchettata dagli operai in sciopero, poco meno di un secolo fa, così rimuginava: “Il fenomeno bolscevico è uno dei tanti tentativi periodici di sconvolgimento dell’ordine sociale per opera dei malcontenti che sperano dalla rivoluzione un posto migliore dalla società. Ad impedirne lo scoppio violento bisogna che le classi padronali, specialmente industriali, favoriscano l’elevamento della classe operaia nell’educazione, nell’istruzione, nel benessere”.
È uno degli Imprenditori d’Italia raccontati da Michele Fronterrè (Edizioni della Sera, 2010). Non manca – non poteva mancare – Adriano Olivetti: “Occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio, altrimenti non si può fare il mestiere di manager”. Falck, Buitoni, Rana, Florio e gli altri – due dozzine di interpretazioni del capitalismo italiano – sono ritratti in questa luce: non c’è epica, ma il respiro è quello del romanzo e, se non è un saggio storico, come rileva Alberto Mingardi che firma la prefazione, se non è nemmeno un affresco socio-economico dell’Italia dello scorso secolo, siamo davanti (possiamo dar ragione all’Autore) a “storie di business, lette a prescindere da considerazioni partigiane macroeconomiche”.
E tuttavia una passione partigiana traspare, ed è quella della fiducia negli spiriti animali che muovono il capitalismo, che “non va corretto ma interpretato”, e qui c’è l’album di famiglia di un’Italia che fu capace di pensare l’impresa come forza dell’intelligenza e del coraggio.
Fronterrè non lo suggerisce mai, ma il raffronto con l’adesso è incombente ad ogni pagina: l’imprenditore di ieri si rivela illuminato, riformista, capace di dare un senso nobile al profitto e perciò in grado di farsi avanguardia sociale. L’imprenditore italiano del Novecento si rivela interlocutore dello Stato degno di questo nome. Ciascuno è un mondo a parte, eppure hanno tutti in comune una straordinaria caratura della filosofia di vita. Il taglio è trasversale e ciascuno la riflette secondo tempo e indole, ma questi uomini paiono degni di tenere testa al potere politico anche quando sono costretti ad abbassarla.
Abbiamo i Florio che danno vita ad un giornale con “due tristi primati: il maggior numero di morti ammazzati tra le fila dei giornalisti e collaboratori; il fatto di essere il giornale più querelato”. Chiuso da Mussolini nel 1926, L’Ora riapre nel 1947 con la stessa ostinazione socialista. E abbiamo Giovanni Buitoni che, alla richiesta di Mussolini di diventare Podestà di Perugia, risponde: “Non ho il tempo né le competenze per coprire il ruolo ma ho solo una possibilità: ubbidire”. Ma abbiamo anche Enrico Mattei, più manager che imprenditore forse, e in grado di tenere alta la testa – seppure per poi perderla – né ubbidendo, né avendo ragione della sua ostinazione. Storie diverse, ma con la stessa morale: non si sta al rimorchio dello Stato, semmai lo si traina, dovesse anche spezzarsi il gancio.
Senza alcuna pretesa di tracciare un profilo storico dell’economia italiana del secolo passato, questo libro ne rivela l’anima. Procuratevelo, leggerlo non sarà tempo sprecato.
e così sarà.
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