lunedì 26 settembre 2011

Dal rinascere al sopravvivere


La successione di Dalai Lama in Dalai Lama è assicurata dalla reincarnazione. Quando ne muore uno, infatti, i suoi poteri sono temporaneamente trasferiti a un reggente, al quale è demandato il compito di individuare il nuovo Dalai Lama nella reincarnazione di quello morto. Sempre stato così, almeno fino ad oggi, ma le cose potrebbero cambiare: Tenzin Gyatso, tredicesima reincarnazione di Gendun Drup (1391-1474) e perciò quattordicesimo Dalai Lama, ha annunciato che sarà egli stesso a scegliere il suo successore.
Sarebbe stato un duro colpo alla dottrina della reincarnazione anche se Tenzin Gyatso si fosse limitato ad annunciare che lascerà indicazioni al reggente per facilitargli il compito di individuare il nuovo Dalai Lama nel nascituro in cui si reincarnerà, perché il ciclo di rinascita non è nella disponibilità volitiva né in quella precognitiva del morituro, ma qui siamo ben oltre: Sua Santità conta di potersi reincarnare in qualcuno già nato prima che egli muoia.
Siamo alla mutazione genetica di un asse dinastico che per più di sei secoli è stato – insieme – spirituale e temporale, e che potrebbe anche continuare ad esser tale, ma irreparabilmente indebolito dalla caduta del suo pilastro dottrinario: dalla morte di Tenzin Gyatso in poi, di Dalai Lama in Dalai Lama, non verrebbe più trasmesso l’ente sovrapersonale che animava Gendun Drup e i suoi successori, ma solo un pacchetto di autorità morale e di potere politico. Siamo di fronte ad un processo che possiamo considerare analogo (analogo, non simile) a quello della secolarizzazione, che in occidente ha messo in discussione il carattere divino della norma morale e la natura trascendente di quella politica. Qui, però, il processo non è mosso dal basso: ciò che dà carattere trascendente della successione dinastica e sacralità alla persona del Dalai Lama è messo di fatto in discussione dall’alto, dal quattordicesimo Dalai Lama. E tuttavia, come spesso accade quando si assiste a una profonda revisione dottrinaria in ambito religioso, anche qui la spinta viene dall’esterno, perché ogni confessione religiosa, per sua stessa natura, è ostile ad ogni innovazione e tende alla conservazione.

Le ragioni che spingono Tenzin Gyatso a sovvertire i fondamenti della dottrina della rinascita, e così, pur di preservarne il controllo da parte della casta sacerdotale, a snaturare l’istituto della successione dinastica, sono abbastanza note: teme che le autorità politiche cinesi possano interferire nella successione con l’investitura di un Dalai Lama di proprio gradimento, il che darebbe luogo agli analoghi dei drammatici contenziosi che l’occidente ha vissuto in epoche lontane, quando l’autorità di un Papa era insidiata da quella di un Antipapa. In scala diversa, siamo dinanzi a quanto già accade in Cina con l’ordinazione di vescovi da parte delle autorità civili, e in patente violazione del diritto canonico. Ma ciò che spinge Tenzin Gyatso ad annunciare una reincarnazione così atipica non è solo ciò che accade con la creazione di vescovi graditi a Pechino e sgraditi a Roma: c’è un precedente che tuttora tiene aperto un contenzioso sulla persona del Panchen Lama.
Il Panchen Lama ha spesso rivestito la funzione di reggenza alla morte del Dalai Lama, l’unico al quale è secondo nella gerarchia tibetana. Anche per il Panchen Lama la successione è assicurata dalla sua reincarnazione, con modalità del tutto simili a quelle fino ad oggi in vigore per la successione dinastica del Dalai Lama. Il fatto è che alla morte del decimo Panchen Lama, il molto venerabile Lobsang Gyaltsen (1938-1989), Tenzin Gyatso aveva individuato la sua reincarnazione nel piccolo Gedhun Choekyi, che a sei anni divenne undicesimo Panchen Lama, per essere subito rapito dalle autorità cinesi, che lo sostituirono con Gyaincain Norbu, Panchen Lama di proprio gradimento. Con l’annuncio fatto di recente, Tenzin Gyatso cerca di evitare che accada qualcosa di simile alla sua morte.
Per evitarlo – per evitare che alla sua morte ci siano due Dalai Lama e la comunità tibetana possa subire uno scisma religioso e una spaccatura politica – è disposto a sacrificare il principio dottrinario che dà a un Dalai Lama la stessa ragion d’essere, almeno come è sempre stato fino ad oggi: qualcosa in più di un re, qualcosa in più di un grande sacerdote, qualcosa in più delle due cose insieme. C’è l’implicita ammissione che la dottrina è sempre stata funzionale all’istituzione, e non viceversa, come si è dato a credere ai tibetani per oltre sei secoli. Ogni secolarizzazione, in fondo, trae origine dall’impossibilità del trascendente a celare troppo a lungo la sua funzione, che è sempre subalterna all’immanente, anche quando dichiara esattamente il contrario.

3 commenti:

  1. Ho l'impressione che il Dalai Lama non creda più tanto nella reincarnazione ... non so se è un buon segno.

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  2. Mi spiace abbassare illivello del dibattito ma è appea uscito un lancio Dagospia che preannuncia il passaggio di Christian Rocca al Corriere della Sera, giusto in tempo per seguire la cavalcata delle elezioni USA 2012.

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  3. Con l'illuminazione di Dusum Kiengpa anno 1110
    detto Karmapa(colui che agisce)Nasce in tibet l'istituzione dei Tulku( reincarnati ).
    Esattamente 900 anni fa,(il primo dalai lama nasce a finire del 1200). Ogni Karmapa prima di morire lascia una lettera con le istruzioni in cui indica il luogo e la famiglia di nascita.
    Per cui, nulla di nuovo da parte del dalai lama.
    Giustamente vuole proteggere un meraviglioso lignaggio dalle grinfie dei politicanti cinesi.
    Non ci vedo nulla di male, anzi, come mai non desta stupore e meraviglia, che degli esseri 'umani' ci insegnano a morire consapevolmente.
    Non piu di una morte si tratta, intesa come fine della vita. Rinascita di cosa? la
    coscienza non muore mai. Il lignaggio del buddhismo tibetano insegna a riconoscere la natura della mente. La mente come spazio, auto cognitiva. Quello stesso spazio da dove sorgono i pensieri che formano il tempo e la sua origine. Riconoscere la propria natura della mente vuol dire trascendere il tempo (l'idea di essere corpo) e porsi nell'assoluto, sempre immanente. Il nirvana o liberazione non e' altro che se stessi( non un'idea di se). Il nirvana c'e sempre, anche durante la colazione che facciamo tutti i giorni e tutto il resto che segue, senza fine.
    Trovo molto giusto che il dalai lama si preoccupi, non certo di sopravvivere, ma del destino di molti umani, se questo insegnamento dovesse scomparire dalla faccia della terra.

    La ringrazio molto.
    Silvana

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