domenica 4 settembre 2011

Postmodernism is dead



Arriva su la Repubblica di sabato 3 settembre, tradotto da Anna Bissanti, un lungo articolo di Edward Docx, pubblicato alcuni mesi fa su Prospect Magazine col titolo Postmodernism is dead, che qui diventa Addio, Postmoderno. Tutta nel titolo, la tesi non è affatto nuova – basti pensare a The death of Postmodernism and beyond di Alan Kirby (Philosophy Now, 2006) – ma qui si fa forte di un argomento che l’autore ci offre come inoppugnabile: il 24 settembre, al Victoria and Albert Museum di Londra, si inaugurerà una prima retrospettiva globale di quanto il Postmodernismo ha prodotto in campo artistico, e tanto farebbe da lapide all’“idea predominante della nostra epoca”. Non ci vuol molto a capire, infatti, che per Docx non sarebbe morto solo un movimento artistico, ma “un modo di pensare e di fare”, perché col Postmodernismo siamo dinanzi a “una tendenza artistica evolutasi fino ad assumere significato sociale e politico”. Il consueto interpretare l’arte come prodotto di una società, dunque, qui è capovolto: “ogni forma d’arte è filosofia e ogni filosofia è politica”, ma il pensiero e l’azione sarebbero frutto della loro rappresentazione, non viceversa, sicché parrebbe che la fine di un mondo possa essere causata dal collasso della sua immagine, non il contrario, e che questa immagine non proceda dal mondo, ma lo preceda, anzi. Docx non chiarisce se questo assunto valga in assoluto o solo per il Postmodernismo e, in tal caso, perché. Verrebbe voglia di consigliargli di non sprecarsi in frivoli articoletti, ma di impegnarsi seriamente nella costruzione di una teoria, possibilmente solida, così poi vediamo se ci convince. Chissà, può darsi riesca a spiegarci l’avvento del nazismo col tramonto del Déco.
Il Postmodernismo, dunque, è morto. Era “scherzoso, intelligente, divertente, affascinante”, prediligeva “la mescolanza, l’opportunità, la ripetizione”, aveva un debole per “l’apparenza e l’ironia”, “mirava a rompere col passato”, era animato da “un forte desiderio di disfare, che ha preso di mira la struttura politica, la struttura cognitiva, la struttura erotica, la psiche dell’individuo, l’intero territorio del dibattito occidentale”, insomma, era uno stronzetto mosso da pulsioni nichiliste che ci ha instillato una letale “mancanza di fiducia nei dogmi”, generando in noi una sensazione di confusioneche negli ultimi anni è diventata onnipresente, sicché erano in tanti a lamentare: “Nessuno ci sta dicendo che cosa fare”. Ma per fortuna, è finita: si avverte, infatti, “un crescente desiderio di una maggiore veridicità”, e “i valori tornano ad avere importanza”, e “stiamo entrando in una nuova era” che “potremmo provare a chiamare Età dell’Autenticità”. Non ci vuole molto per capire che l’anima del Postmodernismo era il Relativismo e che, pur riconoscendogli qualche merito, Docx gli rimprovera di averci fatti orfani della Verità, rendendoci così deboli e insicuri, vulnerabili alle bieche norme del mercato che hanno sostituito le leggi dei padri. Non si trattasse dell’articoletto di un professorino che insegna al Christ’s College di Cambridge, sembrerebbe il fervorino di un pretonzolo sulla crisi di un mondo che ha smarrito le sue radici cristiane. Ma la riflessione si mantiene a un livello basso, poco più articolato del malessere di una anziana signora con veletta davanti a una installazione di Hermann Nitsch.

9 commenti:

  1. "sicché parrebbe che la fine di un mondo possa essere causata dal collasso della sua immagine, non il contrario, e che questa immagine non proceda dal mondo, ma lo preceda"
    Ad Edward Docx piace Dorian Gray.

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  2. Mi delizia sempre la sua capacità di sottointendere, come in questo caso, che qualcuno sia una testa di c.... senza usare neanche un "z".

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  3. La Verità e la Falsità (maiuscole) si differenziano unicamente per la mano che le scrive e la spada che a questa guarda le spalle (e apparecchia il desco).

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  4. M'ero meravigliato che il nome "Lyotard" non comparisse; poi ho guardato il link da Lei predisposto verso Repubblica, e lì c'è. Almeno lessi il libro di un autore che esisteva: aver di queste conferme è già tanto, di 'sti tempi.
    Stia bene, sempre bello passar di qua.
    Ghino La Ganga

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  5. Io del postmoderno ho un'immagine indelebile (parlo adesso dell'immagine visiva, giacché quella acustica è contenuta dentro i dischi di Franco Battiato, soprattutto quelli dove dice che a Beethoven e Sinatra preferisce l'insalata e a Vivaldi l'uva passa che gli dà più calorie). L'immagine visiva è questa: lui - professore di storia e filosofia over cinquanta, ma appena over cinquanta, comunque non ancora di ruolo ma molto impegnato nel teatro amatoriale e forse consulente del nuovo assessore alla cultura del comune - è lì con la studentessa - vent'anni a malapena, comunque vent'anni. Sono in macchina, fermi nel parcheggio della piazza malamente ricostruita dopo i bombardamenti dell'ultima guerra. Non sento cosa si dicono, la macchina ha i vetri chiusi. Però mi sembra che parlino animatamente (parlano comunque uno dopo l'altro, raramente insieme, e chi non sta parlando sembra soffrire le parole dell'altro). Si capisce, vedendoli, che non è più il tempo delle grandi narrazioni. Fuori piove a dirotto. A occhio e croce rimarranno lì per altre tre orette. Forse quattro.

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  6. Che il postmodernismo abbia instillato una mancanza di fiducia nei dogmi non so dove possa essere pescato, perché è anzi l'opposto, e cioè l'assoluzione del dogma in quanto unica possibile forma di pensiero. Il razionalismo, l'utilitarismo, il metodo scientifico, e ciascuna di queste cose – con una spruzzata di Kuhn letto male – che ne fanno la critica a qualunque pensiero forte. Non "fondato", ma "forte".

    L'atteggiamento postmoderno è endemicamente anti-illuminista – naturalmente, non bisogna fare l'errore che fa l'articolista, di assimilare arte e pensiero – e, per questo, intimamente conservatore (la solita vecchia storia: Habermas che chiamava Foucault e Derrida "Young Conservatives").

    Mi fece ridere la volta che Steven Weinberg – che gli si vuole bene da quanto è bravo – disse del postmodernismo: "You have to be very learned to be that wrong."

    La vedi diversamente, Luigi?

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  7. @ Giovanni Fontana
    Io penso che il postmodernismo sia la cristalizzazione ideologica di ciò Lyotard definì "postmoderno", che poi, a mio modesto avviso, altro non è che il cedimento del "moderno" al mito della "fine della storia". In tal senso, sì, penso anch'io che il postmodernismo abbia il suo dogma. Dovessi enunciarlo, direi che suona pressappoco così: la ragione (qualsiasi ragione) è totalitaria, dunque disumanizzante. Direi che "postmoderno" è ciò che "decostruisce" senza un fine.

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  8. Digimodernism the new book 2009, Alan Kirby

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  9. http://www.siarivoluzione.altervista.org/n3/manifesto_kurginjian.htm

    è questo un testo che non si trova da nessuna parte, inedito in Italia, è il manifesto del movimento "Il senso del tempo" che conferma la perdita ormai dell' egemonia del postmodernismo....è venuto il tempo di smettere di giocare

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