martedì 31 agosto 2010

“Io sono Oriana Fallaci, non un paziente qualsiasi”


«Oriana stava ormai male, tossiva continuamente. La convinsi a farsi visitare allo Sloan Kettering, il maggiore istituto per la cura dei tumori del mondo. Non fu facile ottenere l’appuntamento; ma una bella mattina di una bellissima giornata andai a prenderla a casa e andammo a piedi allo Sloan Kettering. Lì, come per tutti, un segretario le presentò un lungo questionario da compilare. Oriana si infuriò (“Io sono Oriana Fallaci, non un paziente qualsiasi”) e si presentò al luminare con il questionario in bianco; e lui, tempo un minuto, la rimandò a casa. Oriana tornò allo Sloan circa un anno dopo, ma era troppo tardi»

Giovanni Sartori, Corriere della Sera, 25.8.2010

[...]



Ben le sta


Anna Foa scrive: «Un elemento accomuna, almeno a partire dall’età dei ghetti, l’architettura sinagogale, qualunque ne fosse lo stile, ed è quello di non essere opera di architetti ebrei: le norme giuridiche proibivano infatti agli ebrei, insieme agli altri divieti, anche l’esercizio dell’arte dell’architettura». Avrebbe dovuto ricordare che i ghetti furono voluti da un papa e che fu un papa a proibire agli ebrei l’esercizio dell’architettura, ma la reticenza le è d’obbligo, perché ciò che scrive è destinato alle pagine del giornale del papa (L’Osservatore Romano, 30-31.8.2010). Ben le sta, dunque, che il titolista le dia quanto è dovuto ad ogni ebreo che si mette nelle mani di un cattolico: «Il paradosso delle sinagoghe costruite sempre da non ebrei». Dove stia il paradosso del non poter costruire sinagoghe, stante il divieto di costruirle, ora spetta chiarirlo alla reticente.

sabato 28 agosto 2010

Sempre di rantoli si tratta


“Spero che si concluda rapidamente l’era Berlusconi”, scrive Veltroni (Corriere della Sera, 24.8.2010). “Non per mettere la pietra al collo al bipolarismo”, precisa, perché “bisogna considerare il tempo delle decisioni come una variante non più secondaria” nell’azione di governo e solo il bipolarismo può assicurarci a tal fine una “repubblica forte e decidente”. Però questo “comporta profonde e coraggiose innovazioni”, non escluso un “ammodernamento” della Costituzione, basta non sia nel segno di quella “democrazia autoritaria” verso la quale ci trascina l’“insopportabile anomalia” di un premier che è proprietario di “giornali e tv con i quali promuovere se stesso e randellare i suoi avversari”.
Rammentate una sola iniziativa di Veltroni tesa a impedire il consolidarsi di questa “anomalia” che oggi gli è tanto “insopportabile”? Io no, anzi, direi che Veltroni si sia sempre speso in senso contrario (Michele De Lucia, Il baratto, Kaos Edizioni 2008). E cosa mette in gioco, oggi, per una rapida conclusione dell’era Berlusconi? La speranza. Non chiedetegli altro, per piacere: questo “vero bipolarismo” che sta nelle speranze di Veltroni è di fatto possibile solo con l’implosione di uno dei due poli di questo bipolarismo che non gli piace, e Veltroni spera. Non parlategli di una “santa alleanza contro Berlusconi”, sarebbe andare un po’ troppo oltre la speranza.
Bersani, invece, osa e immagina “un’alleanza democratica per sconfiggere Berlusconi” (la Repubblica, 26.8.2010) e “per una legislatura costituente”, “un’alleanza che può assumere, nell’emergenza, la forma di un patto politico ed elettorale vero e proprio, o che invece può assumere forme più articolate di convergenza che garantiscano comunque un impegno comune sugli essenziali fondamenti costituzionali e sulle regole del gioco”. Si tratta di “una proposta che potrebbe coinvolgere anche forze contrarie al berlusconismo che in un contesto politico normale (come già avviene in Europa) avrebbero un’altra collocazione; una proposta che dovrebbe rivolgersi ad energie esterne ai partiti interessate ad una svolta democratica, civica e morale”. Un arco costituzione antiberlusconiano sotto il quale potremmo trovare Casini e Pannella, Fini e Vendola, Di Pietro e Bonelli. Bene, ma chi li guiderebbe, e dove? “Tocca al Pd innanzitutto, come maggiore forza dell’opposizione, indicare una strada”. Ma quale? Bersani non lo dice, ma vedrete che se li tirerà tutti dietro.

Due rantoli da un Pd che sembrava già morto, ma sempre di rantoli si tratta. Già è qualcosa – finché c’è vita, c’è speranza – ma considerarli un segno di ripresa è troppo: il Pd non ha un progetto di società che di fatto sia in grado di mettere in crisi il blocco sociale che esprime questo centrodestra; e non ha un programma di governo; e ha voce ambigua, contraddittoria, contorta, equivoca, al punto che Fioroni (In onda – La7, 26.8.2010) arriva a dire che trova un “comune sentire” in Veltroni e in Bersani.

venerdì 27 agosto 2010

Bestie straordinarie


Pur non avendo pungiglione, quest’anno abbiamo visto le meduse pungere (La Stampa, la Repubblica, Il Messaggero, Libero, ecc.). Pur non avendo denti o artigli, chissà, l’anno prossimo le vedremo mordere o graffiare. Il Mediterraneo pullula di una strabiliante fauna marina, le redazioni pullulano di singolari bestie.
 
 

Rettifica preventiva


Almeno Avvenire, L’Osservatore Romano e Il Foglio non tarderanno a segnalare – vedrete – un articolo a firma di Cleave Seale per il Journal of Medical Ethics, on line dall’altrieri, sul ruolo della fede religiosa nelle decisioni prese da un medico che sia posto di fronte ad un paziente terminale, e verrà sottolineato – vedrete – che “doctors who described themselves as non-religious were more likely than others to report having given continuous deep sedation until death, having taken decisions they expected or partly intended to end life…”, ma verrà tralasciato “… and to have discussed these decisions with patients judged to have the capacity to participate in discussions”. La decisione di risparmiare al paziente terminale una lunga e atroce agonia parrà così essere presa autonomamente dal medico non credente e la penna produrrà qualche specioso artificio teso a insinuare che, quando non ha fede, un medico sia incline ad ammazzare con troppa leggerezza chiunque, a suo parere, stia soffrendo troppo.
In realtà, l’articolo dà conto solo di una maggiore disponibilità del medico non credente a rendere libera e responsabile quella scelta che dovrebbe spettare al paziente e che un medico credente solitamente tende a sottrargli, per metterla nelle mani del suo Dio, che quasi sempre è un mostro avido di sofferenza. La mostruosità diventa piena quando il Dio del medico non è neppure lo stesso Dio del paziente.

E infine il topolino ha partorito una montagna



E infine il topolino ha partorito una montagna – anzi, due montagne – di parole, sul Corriere della Sera e su la Repubblica. Leggo Veltroni, leggo Bersani e il Pd mi sembra avere una sola chance: mettersi cenere in testa, battersi pugno in petto e implorare Prodi di tornare, sarebbe l’unico a poter guidare sia ciò che immagina Veltroni sia ciò che immagina Bersani, non ce n’è altri. E questo dà la misura di tutto il possibile che resta al Pd.


giovedì 26 agosto 2010

Chiedo scusa al lettore se mi ripeto



Farete fatica a trovare uno storico che sia stato benevolo nel trattare la figura di papa Alessandro VI, fatta eccezione per un tal Lorenzo Pingiotti, che infatti non è uno storico, ma un dipendente di ente pubblico con una laurea in economia e l’hobby dell’apologetica (La leggenda nera di papa Borgia, Fede & Cultura, 2008). Anche il Pingiotti, tuttavia, riesce a concludere assai poco nel suo disperato tentativo ed è costretto ad ammettere ciò che è abbondantemente documentato: tre figli (forse quattro) da cardinale, diversi altri da papa, un numero imprecisato di amanti fra le quali una concubina papae ufficialmente riconosciuta, crudeltà pari alla dissolutezza, mostruosa avidità, insuperabile smania di simonia e, soprattutto, un feroce nepotismo. Su quest’ultimo punto non v’è alcuna controversia pendente: Alessandro VI s’era posto l’obiettivo di secolarizzare lo Stato Pontificio sotto il regime dei Borgia.
Il povero Pingiotti non nega, ma lima, smussa, indora e, non riuscendo a trovare altre virtù, finisce per puntare l’ultimo suo soldino sulla santa caccia all’eretico che Alessandro VI promosse in difesa dell’ortodossia.

Ora, “in difesa di Alessandro VI”, “un papa ingiustamente solo malfamato”, scende in campo anche Sandro Magister. Cosa dovrebbe farci rivedere il giudizio su papa Borgia? È presto detto: “Amava la cifra, l’emblema, il simbolo, lo incuriosivano l’araldica e il mito, lo affascinavano le genealogie degli dei, le favole esotiche, le credenze misteriche”, lo afferma il professor Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, che lo deduce da un ritratto di Alessandro VI fattogli dal Pinturicchio.
Ricapitoliamo: il Pinturicchio ritrae papa Borgia in modo tale che il professor Paolucci riesce a leggere nel ritratto del committente le strabilianti virtù di cui sopra e Magister ci invita a revisionare la storia, “in difesa di Alessandro VI Borgia. Come giusto”. Un po’ come rivedere il giudizio storico su Adolf Hitler, perché acquarellista, vegetariano e tanto affezionato ai cani. Non vi pare “giusto”?
Chiedo scusa al lettore se mi ripeto: perciò li schifo, i vaticanisti italiani.

Attacco al Papa


Due vaticanisti italiani firmano a quattro mani un volume che in questi giorni arriva in libreria e che non pare valga la pena di comprare. Pare trattarsi, infatti, del collage dei pezzulli che nel corso del pontificato di Benedetto XVI i due hanno firmato per i giornali sui quali scrivono, a commento dei tanti infortuni che, divertendoci non poco, Benedetto XVI ha causato a se stesso e alla sua Chiesa. Il titolo del libro – Attacco a Ratzinger – rivela l’impostazione del volume e conferma il carattere cortigiano della vil razza dannata dei vaticanisti italiani, ben rappresentata nell’anticipazione oggi offertaci da Il Foglio. «Questo libro – si legge nel capitolo finale – non intende presentare una tesi precostituita. Non intende accreditare in partenza l’ipotesi del complotto ideato da qualche “cupola” o spectre, neanche quella del “complotto mediatico”, divenuto spesso il comodo lasciapassare dietro al quale alcuni collaboratori del Pontefice si trincerano per giustificare ritardi e inefficienze. È però innegabile che Ratzinger sia stato e sia sotto attacco». Provoca, ma il mondo dovrebbe chiudere un occhio, bonario, e invece non lo chiude, reagisce alla provocazione: chiaramente è un attacco al Papa, perché al Papa sarebbe dovuto rispetto, sempre e comunque, e questa non costituirebbe “tesi precostituita”.
Una boccata d’aria, tuttavia, nell’opinione di un vaticanista non italiano (Jean-Marie Guénois), altra razza, che i due citano senza porre mano a personale riflessione: «È Benedetto XVI a trovarsi nel mirino? È davvero lui l’obiettivo ultimo delle campagne mediatiche? O non è piuttosto lui, con la sua mitezza ma con la sua altrettanta chiarezza, ad “attaccare”? […] Più che un attacco al Papa, direi piuttosto che è partito un “attacco” del Papa contro molti soggetti…». I quali, per Tornielli e Rodari, autori di questo inutile volume edito da Piemme, non dovrebbero reagire. E invece reagiscono, sicché il Papa è sotto attacco. E io perciò li schifo, i vaticanisti italiani.

mercoledì 25 agosto 2010

Tentare le primarie o rifare le elementari?



Intervista a Nichi Vendola (il manifesto, 25.8.2010 - pag. 6)


martedì 24 agosto 2010

Miracoletto



Pare che Caterina Socci sia uscita dal coma con danni irreversibili, almeno questo è quanto s’intuisce in mezzo ai mille grazie che il padre rivolge alla Madonna, che onestamente poteva far di più, guardando bene chi stesse a chiederle la grazia.

Senza parole




lunedì 23 agosto 2010

Corrispondenze



Caro Malvino, sono in Palestina da settimane e tutte le volte che mi arrabbio ti penso. Dal poco che ti conosco mi verrebbe da dire che non saresti offeso dai calci nei coglioni che ti ho virtualmente tirato pensando ai tuoi post filo-israeliani, e penso lo continuerò a fare: a te, non fanno male, e io mi accontento di questa catartica vendetta prendendo te come capro espiatorio di tutti i mali di questa terra. […] Mi addolora il saperti dalla parte opposta anche su un fronte su cui tranquillamente potremmo accusare per una volta la stessa ingiustizia e lo stesso sopruso. Mi viene il dubbio che questa travona che hai nell’occhietto venga dal non aver visto di persona quello che succede qui. Sei mai stato in Palestina, hai mai visto quello che succede qui? Hai amici, persone, conoscenti che ti hanno raccontato? […] Quello che vedo da varie settimane mi rimane dentro, non ne trovo il motivo, leggo il mio Qohelet e ho semplicemente deciso che bilancerò pigrizia e testardaggine nell’inviarti materiale, testimonianze, informazione dall’altra parte del muro. […] Saluti,

Andrea Zanni



Caro Andrea, leggerò con attenzione tutto ciò che mi invierai, ma non penso che riuscirai a farmi cambiare idea: io penso che lo Stato di Israele abbia il diritto di esistere, ma vedo che questo diritto è tuttora negato dai palestinesi, sicché deduco che non si può essere amico dei palestinesi senza dover essere, per diretta conseguenza, nemico degli israeliani, mentre ho più volte constatato che si può essere amico degli israeliani senza essere costretto a negare un diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato, se non per molto indiretta conseguenza, che poi sarebbe quella che i palestinesi hanno fatto in modo che si realizzasse, facendosi usare da tutti i nemici di Israele, dalla fondazione dello Stato di Israele a oggi. 
Non penso che potrai darmi testimonianza di cose che ignoro o che non posso almeno immaginare e non faccio alcuna fatica ad immaginare le condizioni di vita alle quali i palestinesi sono costretti dalle misure di sicurezza, qui deterrenti e lì ritorsive, che Israele realizza a sua difesa. Sono disposto ad ammettere che oggi siano estremamente dure, ancor più di quanto possano essere state in passato, e posso arrivare perfino a concederti che possano di tanto in tanto essere esagerate, ma quello che Israele ha subìto dal 1948 ad oggi basta a spiegare tutto, se non a giustificarlo.
Nei conflitti che impegnano X e Y da lunga data, ogni violenza di X può sempre essere considerata come risposta ad una precedente violenza di Y, la quale può essere considerata come risposta ad una precedente violenza di X, e così via andando a ritroso. Nel nostro caso, stando a quanto sostengono i palestinesi, il primo atto violento commesso dagli israeliani a loro danno sarebbe stato quello di esistere; stando a quanto sostengono gli israeliani, invece, il primo atto violento commesso ai loro danni sarebbe stato l’attacco sferrato dalle forze filopalestinesi di Egitto, Siria, Iraq, Libano e Transgiordania, appena 24 ore dopo la nascita dello Stato di Israele. Così, a lume di naso, propenderei per ritenere che ad innescare la spirale di atti violenti non siano stati gli israeliani, ai quali si può semmai rimproverare solo il non aver mai mancato risposta ad ogni successivo attacco, sia di natura bellica che terroristica (ammesso che la distinzione rimanga poi possibile).
Caro Andrea, siamo italiani e l’Italia non ha mai avuto proprie fonti di energia: abbiamo sempre dovuto esser carini coi paesi arabi, ricambiando con mille piccoli favori, compresa una politica estera filopalestinese. Dalla Fiat all’Eni, dal Pci alla Chiesa, da Moro a Craxi, attraverso i cento diversi antisemitismi di casa nostra, le simpatie del mondo politico, economico e culturale italiano non potevano che andare ai palestinesi: il petrolio che ci veniva dai paesi arabi, l’antigiudaismo cattolico, il romanticismo di scuola marxista-leninista che ci ha sempre spinto a fare il tifo per chi ci sembrava meglio vestisse i panni dell’oppresso e dell’espropriato, quel tic fascista di vedere in ogni ebreo un sordido riccastro intento a complottare coi massoni per la rovina della Patria... Sì, sono disposto a concederti che può continuare ad essere difficile, in Italia, essere amico di Israele. Ma non ti posso concedere altro. Tuo

Luigi Castaldi

P.S.: Sono certo che non ti arrabbierai del fatto che ho sforbiciato dalla tua e-mail tutti i complimenti che mi hai rivolto, un po’ perché davvero esagerati (nel leggerli arrossivo), un po’ perché dopo questa mia risposta non vorrei comprometterti presso la preponderante opinione pubblica filopalestinese della blogosfera. 

Quest'anno neanche mezza parolina


1. «Verità rivelata da Dio o definita dalla Chiesa come tale, imposta ai credenti come articolo di fede»: la definizione di «dogma» data dal Devoto-Oli dovrebbe irritare la Santa Sede, perché al posto di quell’«o» dovrebbe esserci un «e». La Chiesa, infatti, è il soggetto al quale è affidata la rivelazione e il compito di definirla e trasmetterla: una verità definita tale dalla Chiesa non può che essere rivelata da Dio e, dunque, non vi può essere alcuna relazione disgiuntiva tra rivelazione e definizione. Anche volendo dare a quell’«o» un significato non oppositivo ma esplicativo o di equivalenza («ovvero»), il problema resta: sul piano teologico, la rivelazione di una verità non equivale alla sua definizione e la sostanza di un articolo di fede trascende la sua formulazione. Ma non ho notizia di teologo cattolico che abbia sollevato contestazione.
Non è tutto. Il Devoto-Oli parla di una verità «imposta ai credenti», ma «imposizione» è termine improprio, almeno oggi. Da quando la Chiesa ha perso gli strumenti del potere temporale coi quali per secoli ha potuto pretendere dai battezzati l’adesione almeno formale agli articoli di fede, nessuno è tenuto a dare valore di verità indiscutibile ai dogmi: meno di una dozzina di verità che sono state dichiarate indiscutibili in un ampio arco di tempo che va dal 325 (Concilio di Nicea) al 1950 (Munificentissimus Deus), molte delle quali hanno trionfato sul sangue di quanti si sono azzardati a contestarle. A rigettarne una, oggi, si è fuori dalla Chiesa. In pratica, la scelta è libera, ma impegna alla sospensione di ogni esame critico su ciò che la Chiesa ha proclamato dogma: nessun problema per chi voglia dirsi un buon cattolico, perché «tra i dogmi e la nostra vita spirituale c’è un legame organico: i dogmi sono luci sul cammino della nostra fede, lo rischiarano e lo rendono sicuro; inversamente, se la nostra vita è retta, la nostra intelligenza e il nostro cuore saranno aperti ad accogliere la luce dei dogmi della fede» (Catechismo, 89). D’altro canto, un buon cattolico non potrà mai dubitare che, quando proclama un dogma, «il magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo [e] propone verità contenute nella rivelazione divina» (Catechismo, 88): ogni tentazione allo scetticismo sarà sempre destinata ad essere infine vinta dalla fede (in caso contrario non sarebbe più un buon cattolico).

2. Arrivo a ciò che il Devoto-Oli afferma riguardo al «dogma» dopo alcuni mesi dedicati allo studio del Concilio Vaticano I e alla proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, che offre al buon cattolico l’indiscutibile verità così formulata: «Definiamo essere dogma divinamente rivelato che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell’assistenza divina che gli è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità, di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i costumi. Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della chiesa. Se poi qualcuno - Dio non voglia! - osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema» (Pastor aeternus, IV - 18.7.1870).
Fortemente voluta da Pio IX e dai gesuiti, la proclamazione di questo dogma fu assai sofferta. Dobbiamo la più accurata ricostruzione storica di questi eventi ad August Bernhard Hasler (Come il Papa divenne infallibile, Ed. Claudiana 1982), che nel riportare ampia documentazione delle obiezioni allora sollevate da molti illustri prelati, teologi, biblisti e storici della Chiesa, infine ridotti al silenzio e all’obbedienza, ci fornisce gli elementi necessari per giungere a comprendere perché l’infallibilità papale fosse destinata già in partenza ad essere una verità da proclamare a voce sempre più bassa, meglio se dopo essere annacquata, come si è abbondantemente fatto, (a) restringendo sempre più l’ambito entro il quale si può dire che il papa stia parlando ex cathedra, (b) estendendo l’infallibilità alle proposizioni del collegio episcopale quando i vescovi siano in piena aderenza al magistero petrino e (c) canonizzando l’assunto di fede.
Quand’è che il Papa parla ex cathedra? Stando al testo della Pastor aeternus, «quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa». Ma in quale dei suoi detti o dei suoi scritti pubblici il Papa non «adempie il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani»? E, tolto tutto ciò che attiene alla fede e ai costumi, che resta del magistero? Nella definizione della Pastor aeternus il Papa parla sempre ex cathedra, ma oggi (a) si tende a ritenere che lo faccia solo quando si intrattiene su articoli di fede, mentre il Codice di Diritto Canonico continua a mantenere il punto sul fatto che goda dell’infallibilità anche quando si intrattiene sui costumi (Can. 749 - §1): almeno su ciò attiene ad essi sembrerebbe che (c) l’accettazione del dogma dell’infallibilità papale impegni il buon cattolico come soggetto di un momento giuridico, giacché «esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Catechismo, 90) ed evidentemente la cathedra ha un gradiente di infallibilità che impegna il buon cattolico su piani pur sempre paralleli, ma distinti.
È sempre il Codice di Diritto Canonico (Can. 749 - §2) a consentire l’annacquamento per (b) ciò che interamente recepisce dall’istituto della collegialità come rappresentato su questo punto dal Concilio Vaticano II: «Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo» (Lumen gentium, 25). Qui il Papa resta infallibile su questioni relative a fede e costumi, ma gode di questa prerogativa in associazione ai vescovi che siano perfettamente associati a lui su tali questioni: il primato è condiviso, e dunque almeno in apparenza è attenuato, ma l’infallibilità della dottrina da essi espressa è tale se coincidente a quella infallibilmente espressa del Papa, e dunque la condivisione del primato ha il solo fine di rafforzare la prerogativa petrina, ma diluendone ogni responsabilità al collegio episcopale e in misura proporzionale al dovuto vincolo della comunione.
D’altro canto, il buon cattolico non deve dimenticare che «il grado più alto nella partecipazione all’autorità di Cristo è assicurato dal carisma dell’infallibilità, [che] si estende tanto quanto il deposito della divina rivelazione [e] anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale» (Catechismo, 2035), e dunque anche ai costumi: considerare infallibile il Papa (e i vescovi che mantengono saldo il vincolo della comunione a lui) gli assicura una perfetta obbedienza all’autorità di Cristo. E che può desiderare di più?

3. La verità che fu definita tale dalla Chiesa solo nel 1870, e con macchinosa estrapolazione da assai ambigua rivelazione e assai contraddittoria fonte storica, cominciò ad essere annacquata già in corso di definizione, quando monsignor Vincent Gasser, uno dei vescovi che pure era a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, tenne a precisare che «l’infallibilità del Romano Pontefice non gli deriva da ispirazione o da rivelazione, ma da assistenza divina. Perciò il Papa, in ragione del suo ufficio e della gravità della materia, è tenuto a utilizzare i mezzi che ritenga opportuni ad una retta indagine e ad una adeguata enunciazione della verità. Questi mezzi sono i Concili, il parere dei vescovi, dei cardinali, dei teologi, ecc. […] Noi dobbiamo piamente credere che nella divina assistenza promessa da Cristo Signore a Pietro e ai suoi successori è contenuta pure una promessa riguardo ai mezzi che sono necessari e atti ad esprimere un giudizio pontificio infallibile. Infine, noi non separiamo il Papa, neppure in minima parte, dal consenso della Chiesa, purché quel consenso non sia posto come una condizione che è o antecedente o conseguente».
Non è un caso se il Concilio Vaticano II si servì proprio degli argomenti di monsignor Gasser per liquidare ogni riconsiderazione sulla Pastor aeternus (Hans Küng ha lamentato che non se ne discusse per più di dieci minuti): pur rappresentabile solo attraverso un consenso che in ogni caso non poteva e non doveva immaginarsi antecedente o conseguente al parere del Papa, il principio della collegialità episcopale, che ad alcuni sembrò una rivoluzionaria rottura col passato, era formalmente fatto salvo e la Lumen gentium sembrò mettere la necessaria sordina ad una Pastor aeternus impresentabile al XX secolo: non si dichiarava il Concilio Vaticano I errante sull’inerranza papale – un Concilio che ne smentisce un altro è sempre inopportuno – ma si aggirava la questione ribadendola in termini che consentissero l’associazione del collegio episcopale alla partecipazione all’autorità di Cristo attraverso una comunione col suo Vicario che comunque non ammettesse condizioni. Un capolavoro di ambiguità e di ipocrisia che sembrò salvare la capra dell’innovazione e il cavolo della tradizione.
Che un dogma dichiarasse l’infallibilità papale, però, continuò a imbarazzare, al punto che, cento anni dopo la Pastor aeternus, Paolo VI la definiva «pagina drammatica della vita della Chiesa», aggiungendo subito: «Non è Nostro intento parlarne» (Udienza, 10.12.1969). Strano modo di commemorare l’apertura di un Concilio: glissando sul dogma che aveva partorito. Pochi giorni prima (Omelia, 8.12.1969), era stato meno reticente: «Chi vi parla trema pensando ai riferimenti concreti che [il dogma dell’infallibilità papale] ha con la Nostra umilissima persona, a Nostra confusione», per trovare conforto solo in quella fede che poneva le basi dell’inerranza in una «esclusiva derivazione divina». Meno reticente anche su ciò che aveva accompagnato il parto della Pastor aeternus: «avversione, dubbio, timore, entusiasmo, o altro», ma la reticenza residuava in quell’«altro»: le minacce e i ricatti di Pio IX prima del Concilio, le sue vendette a chi gli aveva fatto ostacolo, dopo.
Dieci anni dopo, e a centodieci dal Concilio Vaticano I, Giovanni Paolo II continuava ad annacquare: «Il dogma dell’infallibilità papale occupa certamente un posto meno centrale nella gerarchia delle verità» (Discorso ai teologi tedeschi, 18.11.1980). A centoventi anni dalla Pastor aeternus, e a centotrenta, solo vaghi accenni, niente che si potesse definire commemorazione, tanto meno celebrazione. Quest’anno, a centoquaranta anni di distanza, neanche mezza parolina. Se ci è sfuggita, è stata detta in modo che ci sfuggisse.

domenica 22 agosto 2010

Il cesareo non è la via della vita




Sotto un titolo infelice (Il cesareo non è la via della vita) zenit.org pubblica l’infelicissima metafora che padre Angelo Del Favero va a pescare per la sua omelia a commento di Mc 10, 27 («tutto è possibile a Dio»): la sproporzione feto-pelvica a termine della gravidanza («una porta tanto stretta da sembrare assurda»). E scrive: «Se il piccolissimo bambino appena concepito si rendesse conto che nove mesi dopo, divenuto un bambino enormemente più grande, dovrà uscire alla luce attraverso quel grembo strettissimo in cui arriverà tra una settimana, vedendosi nella situazione impossibile del cammello e dell’ago non potrebbe pensare ad alcuna possibilità di uscita alla luce diversa dal taglio cesareo. Egli non sa che Dio andrà modificando il grembo materno in modo da consentirgli quel passaggio impossibile che non può intravedere ora, non senza il gran travaglio che sperimenterà a suo tempo assieme a sua madre».
Si tratta di affermazioni di estrema pericolosità sociale perché, in realtà, Dio non riesce sempre a modificare il grembo materno per consentire un parto naturale, come la storia della medicina documenta con gli elevati tassi di morbilità e mortalità perinatale di gravide e feti ai quali un taglio cesareo avrebbe evitato ogni inutile dolore e ogni tragico danno da disperate procedure manuali e strumentali. Giacché è onnipotente, pare che di tanto in tanto Dio decida di rendere proprio assurdo ciò che sembra tale e allora quel «passaggio impossibile» rimane «impossibile», o risulta infine possibile ma a un prezzo altissimo. Sicché padre Del Favero farebbe bene a non generalizzare, come quando aggiunge: «Dio risolverà ogni cosa: ha solo bisogno della nostra totale fiducia ed abbandono al suo amore». Tenuto conto del fatto che parla a poveracci che possono anche prendere per oro colato ciò che dice, e solo perché indossa un saio, sarebbe il caso moderasse le sue troppo disinvolte incursioni in campo ostetrico.

giovedì 12 agosto 2010

mercoledì 11 agosto 2010

Cognati


Nicoletta Tiliacos trae da un libro pubblicato l’anno scorso (Maurizio Bettini, Affari di famiglia, Il Mulino) interessanti rilievi di natura filologica sul “termine «cognato», di cui la cronaca va assai disquisendo in questo periodo” (Il Foglio, 11.8.2010). Così ci viene rinfrescata la memoria sul fatto che, presso gli antichi romani, i «cognati» erano “consanguinei imparentati per via femminile” (gli «agnati», invece, per via maschile); che il parente acquisito oggi detto «cognato» era chiamato, a quei tempi, «adfinis»; e che a «adfinitas» era dato “sia un significato metaforico di «compartecipazione», sia quello peggiorativo di «complicità»”. A sciogliere il contorcimento, insomma, la Tiliacos sta lì a suggerirci che Gianfranco Fini e Giancarlo Tulliani siano soci o complici più che parenti, e di lodevole c’è che almeno si trattiene dalla battutina scema sul «fini» che sta in «adfinis».
Chissà com’è che tutto questo prurito di Diritto Romano non le è venuto quando Il Foglio era definito dal suo direttore “il Giornale cognato”.

Guardo a cosa accade nel Pdl



Guardo a cosa accade nel Pdl, caro Guerri, e penso a lei. La destra moderna, europea, liberale, liberista e libertaria, finalmente liberata dai tic antidemocratici e razzisti, che lei pensava possibile ai tempi in cui dirigeva L’Indipendente, possiamo dire – mi corregga se sbaglio – esista. Certo, è ancora tutta in embrione, ancora piena di contraddizioni, con qualche ambiguità, assai poco strutturata, anzi, ancora un po’ sporchetta di tatarellismo. E però c’è e si raccoglie attorno a Fini. La cosa che mi fa sogghignare è che il gruppo parlamentare che vorrebbe rappresentare questa destra è presieduto da quel Bocchino che le tolse la direzione de L’Indipendente per darla a Malgieri. È questo, o cos’altro, che oggi la tiene distante dai Campi, Rossi, Perina, ecc.? Le è passata ogni voglia di dare un contributo alla costruzione di quella “nuova destra”? Considera l’embrione malfatto, destinato all’aborto spontaneo, o vede irrealizzabile il suo sviluppo per altra ragione? E quale? In altri termini: ritiene Futuro e Libertà per l’Italia strumento inadeguato a quell’idea o ha cambiato idea? Nell’un caso o nell’altro: perché?

martedì 10 agosto 2010

Ma chi se lo ricorda più?


L’Osservatore Romano ammette: “Diminuisce in Italia il numero degli aborti” (11.8.2010). È così da tempo, anche Avvenire aveva dovuto ammetterlo qualche mese fa (29.4.2010). Sembra dimostrato che avere il diritto (almeno entro certi limiti e a certe condizioni) di interrompere una gravidanza, lungi dal fare dell’aborto l’hobby preferito di ogni troia, limiti il danno. Fosse niente, le donne non muoiono più con un ferro da calza ficcato in pancia e, in più, non c’è stata l’escalation che paventavano le gerarchie vaticane, anzi, lentamente, anno dopo anno, si ricorre sempre meno alla legge 194. “La tendenza è chiara – ammette L’Osservatore Romanodal 1983 è avvenuto in Italia un progressivo calo degli aborti”. Sarebbe stato carino aggiungere: tutto il contrario di quello che vi dicevamo per convincervi ad abrogare la legge 194. Ma chi se lo ricorda più?


Francesco Cossiga sta morendo



Giorgiana Masi è impaziente, perché ha da fargli un sacco di domande.

sabato 7 agosto 2010

Cazzi amari



“Un quadro che segnala un cambio di modello, sia in termini quantitativi (i cattolici cessano di essere una maggioranza), sia in termini qualitativi (il cattolicesimo italiano si fa più diversificato ed evanescente)” (Il Regno, maggio 2010).

Triora, la molto poco misteriosa



Alberto Cane ci offre nella buona riproduzione fotografica di un dettaglio (vedi foto qui sopra) l’anteprima di un dipinto che a giorni sarà presentato al pubblico dopo un recente restauro: si tratta di una Visione di San Giovanni di Matha (Anonimo, XVII sec. [?]), conservata nell’Oratorio di San Giovanni Battista di Triora (Im), e del particolare in questione Alberto scrive che si tratta di “una rappresentazione della Trinità che sfugge a tutta l’iconografia classica”.
Questo non è corretto, perché abbiamo moltissime Trinità nelle quali sono antropomorficamente raffigurate tutte e tre le persone (anche se prevale la scelta di dare allo Spirito Santo le sembianze di una colomba), e molte nelle quali queste sono raffigurate con la triplicazione dello stesso soggetto (angelo imberbe, vegliardo barbuto, ecc.), come nel caso che ad Alberto pare originale. C’è infatti da rammentare che nell’iconografia trinitaria di molte Chiese orientali (ma anche di quella copta, per esempio) non è rara la riproduzione delle tre persone della Trinità secondo il modello introdotto da Andrej Rublev (1360-1430) sulla base del racconto biblico in Gen 18, 1-15, poi adottato come il più fedele sul piano teologico dallo Stoglavyj Sobor del 1551 e, salvo un dettato tridentino tardivamente e poco accolto, mai sostanzialmente rigettato in occidente, né sul piano formale, né su quello concettuale (Fig. 1).

Fig. 1 - Rappresentazioni della Trinità con triplicazione dello
stesso soggetto: (a) icona rubleviana (XV sec.); (b) Codice miniato (XV sec.);
(c) Pala di abside (XVI sec.); (d) Icona copta (XVII sec.);  (e) Affresco etiope (XVIII sec.);
(f) Santino votivo (XX secolo).

Analoga correzione deve essere fatta riguardo a ciò che Alberto scrive riguardo al  “grande triangolo rovesciato”, che gli pare somigliare a “quello dei massoni”, che invece è a vertice superiore (Fig. 2a): si tratta – assai più semplicemente – del triangolo rovesciato che riassume il dogma trinitario, così come descritto nella Summa theologiae di Tommaso (Fig. 2b).


Insomma, niente di eccezionale in questa Trinità, che peraltro si rivela opera di pressoché nullo pregio sul piano artistico. Si tratta di una tavola lignea, come rivela il dettaglio del margine (Fig. 3a), che mostra grossolano accostamento dei listati (Fig. 3b), rozza distribuzione del pigmento (Fig. 3c) e pedestre tecnica, come è apprezzabile per la voluta del mantello del Figlio (Fig. 3d) e la mano sinistra dello Spirito Santo (Fig. 3e).

 

Nessun problema per l’attribuzione, dunque, giacché all’Anonimo conviene restar tale. A naso, almeno per il particolare della Trinità qui preso in considerazione, propenderei per una copia di infima mano, eseguita avendo a modello una miniatura di codice del XIII o del XIV secolo.

venerdì 6 agosto 2010

40 (o 39)

Un suicida è andato perso o duplicato, ma di questo passo abbiamo comunque buone probabilità di battere il record del 2001 (69) per risparmiarci la pena del doverli ricontare.

[...]


«Ciò che mi dispiace è che fin dall’inizio del mio servizio pastorale la rappresentanza del paese non ha voluto riconoscere la mia autorità di guida spirituale e morale» (la Nuova Ferrara, 4.8.2010).

[grazie a Mirko Morini per la segnalazione]

 

Speriamo bene



Fini, Casini, Rutelli e Lombardo non vogliono le elezioni subito: ciascuno da solo o tutti e quattro insieme devono ancora mordere l’alluce al bipolarismo per non rischiare. Bersani le vorrebbe il più tardi possibile: non è assolutamente pronto e chissà quando lo sarà, se mai lo sarà. Bossi non le vuole prima di aver avuto il federalismo: se anche stavolta torna a Pontida a mani vuote, dei fucili padani dovrà aver paura lui.
Di Pietro vorrebbe le elezioni subitissimo, sicuro di poter levare voti a un Pd che ormai li regala, domani chissà. Idem per Grillo, sicuro di poterne levare a Di Pietro e al Pd. Idem per Vendola, che le vorrebbe domani: più tardi si andrà alle urne, più difficile sarà vincere le primarie. Subitissimo le vorrebbe pure Berlusconi, che però non vuole assumersene la responsabilità e disperatamente spera che Fini gli offra un’occasione: farà di tutto per farsela offrire, ma deve stare attento a non creare condizioni che diano al Quirinale ragioni per cercare in Parlamento i numeri di un governo tecnico o istituzionale.
I peones di ogni colore potrebbero volere o non volere le elezioni – tutto dipende con quale legge elettorale si va alle urne e quanta lealtà possano fin qui aver mostrato a chi dovrà decidere se ricandidarli o no – e tuttavia sono di così basso livello – il Parlamento più bifolco e ottuso di tutta la storia della Repubblica – da non poter essere coordinati neppure da un qualche inconscio collettivo. C’è più coordinazione di microrganismi su un cadavere che trasversalità tra eletti grazie a un Porcellum. Si possono immaginare acquisti di Berlusconi in campo avverso, ma pure plotoni di franchi tiratori, cecchini impazziti, diserzioni in massa o alla chetichella.
Insomma, se si andrà alle elezioni prima del 2013, e quando, non dipende da nessuno dei protagonisti in scena e nemmeno dai caratteristi, dalle comparse, dai figuranti. Non dipende neppure da Napolitano, che ha come unico fine quello di essere trattato bene dagli storici, chiunque sia destinato a vincere e perciò a scrivere la storia. Non si sa da chi cazzo dipenda, la legislatura, e questo ci spinge a credere che allora esista un destino comune. Siamo in una situazioncina davvero interessante, non c’è che dire.

Quando tornerebbero utili, i cosiddetti poteri forti latitano, come se non esistessero, o stanno a guardare, come se non fossero poi così forti da poter decidere chi innalzare e chi affossare. Anche la magistratura più istintiva rimane indecisa con l’istinto a mezz’aria, come terrorizzata dall’eterogenesi degli eventi. La corte berlusconiana si arrocca, sbraita dai merli, e più sbraita, più pare sbraitare per darsi coraggio: lo stato maggiore, l’anticamera e le carrette di puttane potrebbero darsi la morte insieme al Duce, ma pure dilaniarlo a brani per guadagnare qualche favore o qualche lasciapassare. L’avversario più forte vede il Regime vacillare, ma ha una fottuta paura che cada crollandogli addosso, spiaccicandolo. Gli altri sono così volatili da poter ben sperare di stare a volteggiare sulle macerie, ma pure hanno paura d’essere spazzati via dallo spostamento d’aria.
Siamo in uno di quei momenti della storia patria in cui solo una strage, una calamità naturale o una grave crisi internazionale potrebbe farci uscire dallo stallo. Speriamo bene.

giovedì 5 agosto 2010

Più che un refuso


Sul Corriere della Sera di ieri, a corredo di un articolo sul viaggio che Benedetto XVI farà a breve in Inghilterra e nel corso del quale proclamerà la santità del cardinal John Henry Newman, al posto della foto del santuro era pubblicata quella del suo “amatissimo” Ambrose StJohn, che molti ritengono essere stato, quasi tutta la vita, suo consorte di fatto. Voglio dire: nel pigliare quello sbagliato di due che in fondo erano carne della stessa carne, il Corriere della Sera ha fatto un gesto romantico più che un refuso. Che oggi il Corriere della Sera non rettifica e che nessuno segnala, a quanto mi risulta.

mercoledì 4 agosto 2010

Un bivacco di manipoli

Per 6 secondi (01:21:31-01:21-36), a Montecitorio, oggi s’è gridato in coro: “Du-ce! Du-ce!”.

Cinquantamila chierichetti in Piazza San Pietro.

E strane chiazze di bava qua e là.

Lasciare i radicali conviene in generale


Marco Pannella era amarognolo ma in fondo orgoglioso, nell’ultima conversazione domenicale con Massimo Bordin, nello scorrere la lista degli ex radicali che hanno fatto carriera (Francesco Rutelli, Gaetano Quagliariello, Benedetto Della Vedova, Daniele Capezzone, Peppino Calderisi, Elio Vito, Roberto Giachetti), ma ha dimenticato di citarne parecchi altri, altrettanto noti, ai quali l’abbandono della casa radicale non si può dire abbia fatto troppo male (Marcello Pera, Marco Taradash, Eugenia Roccella, Massimo Teodori, Francesca Scopelliti, Alessandro Meluzzi, ecc.). Lasciare i radicali conviene in generale, massimamente a fini di carriera, non ha importanza quale. A esempio prenderei una ex radicale delle meno note, prima portavoce di Di Pietro, poi di Velardi e ora di Formigoni.

Fabrizio Corona fermato per la nona volta senza patente

Farsela tatuare addosso, no?

Postumi in vita

Giorgio Pressburger (Avvenire, 4.8.2010) ci ricorda che “Kafka, in punto di morte, aveva chiesto al suo amico Max Brod, praghese come lui, di bruciare il manoscritto [de Il processo], insieme a tutte le altre opere rimaste inedite” e che “l’amico non l’ha ascoltato”; e si chiede: “È giusto agire come ha fatto Brod? È giusto contravvenire alla volontà di un amico per salvare la sua opera?”. Il quesito mi rimanda allo scambio avuto nei giorni con Luca Massaro sulla scrittura pubblica e su quella privata, e lo risolvo contestando il modo in cui è posto: la questione non è se sia “giusto” o no, ma se la scrittura privata appartenga ancora a chi l’ha prodotta dopo la sua morte. Privato della possibilità di doverne dar conto in relazione al piacere o al dispiacere che la sua scrittura ha provocato e dunque nella impossibilità di essere condizionato per la scrittura a venire, il torto di Brod rimane, ma la libertà di Kafka rimane intatta. Per sempre. E dunque quello che leggiamo di Kafka è totalmente libero e totalmente suo. Più di quanto lo sia per chiunque altro pubblichi in vita.
Sembrerà un elogio della pubblicazione postuma, e probabilmente lo è, ma il fatto è che praticamente impossibile essere postumi in vita. 

Una rotonda sul mare / 12




“Mi cinse teneramente il collo col braccio, mi avvicinò a lui e mi tenne così per un po’…”


Angelo Bottone ci tiene ad essere citato e qui, per riparare all’errore di avergli dato del “tizio”, lo presento: è il massimo esperto di John Henry Newman tra i napoletani in Irlanda; blogger dal 2002, in carriera universitaria da qualche tempo prima, papista da sempre; saltuariamente lettore del mio umile blogguccio; a naso, un simpatico cazzone che infauste circostanze hanno costretto alla bassa manovalanza nella propaganda cattolica. Dovessi citarne uno simile e appena un po’ più noto di Angelo Bottone, direi Francesco Agnoli.
Ho scritto di un “tizio” che si arrampicava sugli specchi nel negare l’omosessualità di Newman e quel “tizio” era Bottone, che con volée di rovescio ribatte: “Malvino ci ripropone la bufala di Newman omosessuale”. Qui rimanda a due suoi vecchi interventi, a margine della polemica sollevata da Peter Tatchell, nel 2008, in occasione della traslazione delle spoglie di Newman in luogo più degno in vista della sua beatificazione, ora a giorni: l’attivista gay accusava la Chiesa di voler far sparire la più evidente prova dell’omosessualità di Newman, che aveva fortemente voluto esser sepolto nella stessa tomba – non in una tomba strettamente adiacente, ma proprio nella stessa tomba – dell’“amatissimo” confratello Ambrose StJohn; e Bottone ripeteva quanto a Tatchell aveva ribattuto fra’ Ian Ker, massimo esperto di Newman tra gli inglesi in Inghilterra, e cioè che farsi seppellire nella stessa tomba era cosa normale, a quei tempi, tra amici per la pelle, soprattutto se confratelli. In realtà, a smentire fra’ Ker (e Bottone) v’è l’estrema rarità di analoghi in epoca vittoriana, se levati i casi di marito e moglie.

Sul fatto che, seppur casto, il grande amore e la lunga convivenza tra Newman e StJohn fossero stati qualcosa di analogo a una convivenza more uxorio, e dunque a una relazione nutrita da un forte sentimento di omofilia, c’è altro: “Dal primo momento mi amò con un’intensità incommensurabile… Mi cinse teneramente il collo col braccio, mi avvicinò a lui e mi tenne così per un po’…” (The Letters and the Diaries of John Henry Newman). Qui Bottone pensa di poter negare l’omosessualità di Newman con questo argomento: “Bisogna leggere i fatti nel contesto di un’epoca in cui l’amicizia tra gli uomini del clero era molto più importante di oggi”, ma non produce fonti che lo documentino e farebbe fatica vana a cercarle, perché l’età vittoriana avrebbe giudicato di natura omosessuale, condannandola, un’attrazione dello stesso tenore.
A farglielo notare, Bottone obietta che Newman e StJohn non temevano questa condanna (“se avessero avuto qualcosa da nascondere avrebbero distrutto le lettere, non ti pare?”) e che questo prova la loro “innocenza”. Il fatto è che le frasi “compromettenti” stanno nei Diari, non nelle Lettere. Inoltre, è probabile che l’omosessualità dei due sia stata tanto platonica da farli sentire lontani dal peccato. E comunque, in Inghilterra, l’omosessualità non fu messa al bando prima del 1861, quando la relazione tra Newman e StJohn si protraeva già da più di vent’anni.
E tuttavia io avevo scritto: “Sull’omosessualità di John Henry Newman e sulla sua pluridecennale convivenza more uxorio con Ambrose StJohn non ci sono dubbi”. Non ho scritto che i due scopassero come ricci, ma solo che la loro non può essere considerata una semplice amicizia, né con gli occhi di oggi, né con quelli di ieri: si trattava di un matrimonio di fatto, forse in regime di astinenza sessuale, ma non privo delle passioni, delle tenerezze e delle sollecitudini che fanno felicemente riuscito un matrimonio, né privo di quella sensazione di fondare un rapporto carnalmente esclusivo come nella volontà di riposare insieme nella stessa tomba. Per Bottone, “la chiusa di una lunga storia d’amore cristiano”. Mariti e mogli non si facevano seppellire insieme già prima dell’avvento di Cristo? E quanti “amori cristiani” – tra cristiani dello stesso sesso – hanno avuto chiusa in una tomba comune?

“Ho sempre pensato che non vi fosse lutto paragonabile a quello di un marito o di una moglie, ma mi risulta difficile credere che ve ne sia uno maggiore del mio”. Bottone legge che Newman “dice di soffrire non come, ma più di un vedovo, ossia che il loro legame non era coniugale ma più forte”. A me pare che Newman abbia fatto una correlazione proporzionale tra intensità del dolore e intensità del legame coniugale, per quella piana logica lessicale che qui lo vede come vedovo massimamente sofferente, praticamente inconsolabile, senza neanche un santo “fiat voluntas Dei”, alla faccia della fede nella vita eterna, del potersi dare appuntamento col moroso nella gloria del Signore, del potersi ancora abbracciare teneramente dopo la resurrezione della carne. Mi pare un lutto assai terreno, assai fisico, assai fisiologico per una coppia fin lì unita da una appagante convivenza, e assai poco consolato dalla prospettiva ultraterrena.
Ma per Bottone, in relazione alla traslazione delle spoglie del santificando, “la questione non è se Newman sia stato omosessuale, domanda morbosa e stupida, ma piuttosto perché non è stata rispettata la sua volontà e perché insieme al suo non è stato trasferito anche il corpo di Ambrose StJohn”. Sulla seconda questione, Bottone non ha che da chiederlo alle gerarchie ecclesiastiche; sull’omosessualità di Newman – spiace contraddirlo – nulla di morboso o di stupido, perché un omosessuale – casto o no – non potrebbe fare il prete, dicono le medesime gerarchie ecclesiastiche, e un prete che sia stato insieme prete e omosessuale insieme (anche senza aver mai ceduto alla pratica omosessuale) non potrebbe esser fatto santo (usurpazione di ministero), e Newman sta per esser fatto santo, per giunta con la certificazione di un miracolo farlocco, sotto un pontificato che ha dato il via ad una forsennata “caccia al ricchione” nei seminari, in quegli stessi seminari dove fino a qualche tempo fa “ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»”.

Ero arrivato alle spericolate manovre di arrampicamento sugli specchi di Bottone di due anni or sono, di link in link, partendo da un articolo di Alan Bray da lui citato in uno dei suoi due interventi del 2008, senza peraltro riuscire a produrre argomenti significativi in obiezione alla tesi lì ottimamente esposta e brillantemente documentata:  “Spiritual same-sex friendships have been celebrated in the history of the Church with rites that gave them a standing akin to marriage”, e quella di Newman e StJohn non può che essere interpretata come tale.
Ma Bottone lavora presso la University College of Dublin, di cui Newman fu padrino, e dunque gli è d’obbligo la difesa della virilità di uno dei cardinali che è stato universalmente riconosciuto (anche dai suoi contemporanei) tra i più effeminati della storia della Chiesa, per il buon nome della ditta che gli dà nutrimento materiale e per il buon nome della ditta che gli dà nutrimento spirituale.

[Penso di aver tralasciato un sacco di altre cose: lo strano viaggio a Roma di Ambrose StJohn, nel 1867, il modo in cui il clero cattolico giustificò la sepoltura comune alla morte di Newman e dopo, la strana assenza di resti nella tomba alla sua apertura nel 2008, ecc. Ci tornerò sopra se Bottone crederà sia il caso.]

martedì 3 agosto 2010

Libri che sono recensiti dalla loro stessa copertina




«Provocatori per smascherare corrotti»


Una breve a pag. 7 di Avvenire titola: “Bobba (Pd): «Provocatori per smascherare corrotti»”. Ciò che leggo è da non credere, sicché vado a verificare sul sito del sito del signor senatore. La proposta del teodem è di “introdurre la figura dell’«agente provocatore» come misura per contrastare i fenomeni corruttivi”: si tratterebbe di un “test di integrità” cui sottoporre il pubblico amministratore con un “finto tentativo di corruzione” ma – sia chiaro – sotto “il controllo severo della magistratura e della polizia giudiziaria”.
Chi deciderebbe la lista degli esaminandi? Quali sarebbero i parametri per valutare una risposta dubbia o ambigua al test? Come considerare un’estrema resipiscenza? Il signor senatore non approfondisce, né pare intravveda grossi problemi: “Si tratta di consentire una peculiare attività, quella sotto copertura, già prevista nella legislazione vigente per contrastare determinati fattispecie criminose, quali il traffico di sostanze stupefacenti, la pornografia, il terrorismo internazionale, con particolare riguardo al traffico di armi”.

Non saprei dire perché, ma proposte del genere mi lasciano senza parole, stordito e confuso. Poi cerco di riprendermi e mi chiedo: giacché il traffico d’armi e lo spaccio di droga sono cose assai brutte, per debellare il fenomeno, mi metto a testare dei comuni cittadini offrendo loro – certo, sotto “il controllo severo della magistratura e della polizia giudiziaria” – chili di eroina e missili a mazzi? Dovrò avere almeno una traccia per selezionare chi sottoporre al test o andrò a casaccio? Ricorrerò a un sorteggio? E con gli amministratori pubblici come farò?
Qui il signor senatore ha la risposta: il test sarà disposto “qualora, dal controllo incrociato di dati sensibili, risultassero sperequazioni tra il tenore di vita e il reddito apparente del soggetto, oppure giungessero segnalazioni a seguito di controlli patrimoniali da parte dell’organo competente, ovvero si riscontrassero anomalie nelle pratiche patrimoniali, fiscali, tributarie, o relative a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, al rilascio di concessioni, di autorizzazioni e di nulla osta da parte della pubblica amministrazione”.
Chiamarlo semplicemente a renderne conto, no? Testarlo per vedere se cade in tentazione, bene, ma se poi non cade in tentazione – potrebbe intuire di essere sotto test – come si giustificherebbero le sperequazioni tra tenore di vita e reddito?

Dev’esserci qualcosa che dinanzi al problema della corruzione vizia il metodo di Bobba o il mio. Sarà che lui è cattolico e io no? Io penso che sia un problema da risolvere, nulla di più, e si risolverebbe con una anagrafe pubblica degli eletti e degli incaricati (come propongono quegli sfessati dei radicali), nonché dei loro congiunti di primo e secondo grado (perché noi italiani teniamo famiglia). Dovendo soddisfare la nostra smania di test, perché non sottoporre l’amministratore pubblico a questo? Prova di buone intenzioni e controllo permanente: trasparenza senza inquisizione, non sarebbe meglio? Non sarebbe meno dispendioso? Non sarebbe meno da stato etico e più da civile liberaldemocrazia? Ma – soprattutto – Bobba non se l’era portato via la Binetti? Ancora si esprime come membro del Pd? E che cultura è, quella del Pd che parla con proposte come quelle di Bobba?

Ancora troppi filopalestinesi, in Italia

Consiglio lo Speciale Giustizia che ieri Radio Radicale ha dedicato alla strage di Bologna. Emergono le incongruenze della sentenza definitiva che indica in Valerio Fioravanti e in Francesca Mambro non già gli esecutori materiali, ma – sensu lato – i “responsabili” della strage. Ignoto il movente, ignoti gli esecutori materiali, ignoti i mandanti, mai trovato l’innesco, ma Fioravanti e Mambro vengono condannati, dopo un’assoluzione in appello. Siamo ancora lontani dalla verità ma trent’anni dopo prende una qualche sostanza, ben al di là delle mere ipotesi, la pista palestinese, che però per la sinistra italiana è tabù. Più facile pensare a fascisti e massoni, ad Andreotti e ai servizi segreti deviati, che al libero scorrazzare per l’Italia dei palestinesi, con carichi di missili ed esplosivi, in virtù del patto siglato dal generale Giovannone (per conto di Moro), dopo la strage che i palestinesi fecero a Fiumicino nel 1972. La causa del popolo palestinese è sacra, a sinistra, e l’ipotesi di un incidente o di una ritorsione sporcherebbe l’epopea. Idem, a destra, per l’ipotesi di una punizione di Stati Uniti o di Israele: fare esplodere un carico di esplosivo palestinese in transito per l’Italia, per mandare un segnale e far saltare il patto tra il blocco politico-economico italiano, tradizionalmente amico del mondo arabo, e i terroristi palestinesi. La verità ufficiale è nebulosa e piena di contraddizioni, quella che emerge come assai verosimile dallo Speciale Giustizia di Radio Radicale è assai difficile da verificare e ancor più difficile da digerire: ancora troppi filopalestinesi, in Italia.

Rettificami questo


Marianna Rizzini incappa (*) in un luogo comune patognomonicamente macho: la giovane femmina che spensierata offre al mondo le sue sode curve è assai meglio della femminista in menopausa che considera la cosa poco dignitosa. In dettaglio: meglio “la Sabina Ciuffini allegra che, in tempi di Carosello, correva verso il banco dei gelati Algida con Patty Pravo” che quella oggi diventata “opinionista accigliata e responsabilmente ansiosa di mettere in guardia Cappuccetto Rosso nel bosco” (Il Foglio, 3.8.2010). La solita nostalgia per i bei tempi passati, quando era tutto più allegro, anche l’uso del corpo femminile. Come per la battaglia demografica (fare figli, farli presto, farne tanti) e quella pedagogica (calci in culo e all’aria aperta), il solito ingenuo passatismo. Bambinone mai cresciuto, il direttore.  


(*) Qui ci ho ficcato un doppio senso che al momento siamo solo in due o tre dozzine a poter cogliere: mi scuso con gli altri.

lunedì 2 agosto 2010

“Vita relazionale ordinaria”


Luca Massaro ritiene bizzarro, forse assurdo, sostenere che nella scrittura privata vi sia “infinita libertà” (come ho più volte sostenuto) e (con Giulio Mozzi) dice che la scrittura è (non può che essere, dev’essere) pratica relazionale – corrispondenza – tanto più libera quanto più libero è l’uomo che non si sottrae alla “vita relazionale ordinaria”, quel mercato che fa ricchi tutti, eccetera. Non vorrei sembrare scortese, ma rimango della mia opinione: la scrittura pubblica non è mai più libera di quella privata, perché una pagina non è sollecitata a trovare relazione se scritta per rimanere privata. Andare al mercato, cercare relazione, trovare corrispondenza del tipo gradito, sforzarsi di mantenerla e accrescerla – non sarà una schiavitù, ma è un bel peso. Cercare di piacere al lettore (o di fargli altro effetto desiderato) toglie libertà alla scrittura: le darà altro, senza dubbio, ma non la libertà. Ci si muove con disinvoltura solo in privato, se nudi: quando si è disinvolti in pubblico, la nudità è coperta almeno dalla posa ritenuta migliore.
Mai veramente nuda, mai veramente gratuita, la scrittura pubblica. Che dà le sue soddisfazioni, non v’è dubbio, ma chiede sempre troppo. Quanta scrittura s’è corrotta inseguendo soddisfazioni diverse da quella di dar forma ai propri pensieri, finendo per corrompere anche quelli.

domenica 1 agosto 2010

pg ≠ p, salvo eccezioni




Sull’omosessualità di John Henry Newman e sulla sua pluridecennale convivenza more uxorio con Ambrose StJohn non ci sono dubbi, anche se c’è un tizio che ha più volte provato a farci credere che a quei tempi – parliamo dell’Inghilterra vittoriana – fosse da intendere come normale segno di “amicizia” tra maschietti, se preti, abbracciarsi, stare guancia a guancia, dirsi: “Luce mia!”, fino a dettare imperative will di essere sepolti insieme (tutto in The Letters and Diaries of John Henry Newman). Vai a cercare quanti preti siano stati sepolti insieme, a quei tempi, e ti restano due sole ipotesi: (a) l’amicizia tra preti era rarissima; (b) Newman e StJohn erano una coppia gay (anche abbastanza sfacciata tenuto conto dei tempi). Propenderei per (b), così mi spiegherei pure il perché, prossima a far santo uno dei due, la Chiesa di Roma lo abbia dissepolto, separandolo dall’altro, contro le sue ultime volontà.

Non ha importanza se facessero sesso o se si dessero solo bacetti: si può essere buoni cristiani anche se omosessuali, dice il Catechismo, basta astenersi da ogni pratica sessuale. E tuttavia, anche casto, un prete gay – ce l’hanno rammentato di recente – non è prete.
Il tentativo del tizio di cui sopra ha una sua logica. Non basta cancellare la miglior prova del loro matrimonio di fatto – a volte le tombe dei cardinali si possono violare coi martelli pneumatici, dipende da chi lo fa – perché poi bisogna rifinire: cancellata la prova della pratica omosessuale, bisogna far sparire la stessa omosessualità. Quale miglior nascondiglio dell’“amicizia”? Le soluzioni tradizionali sono sempre le migliori ed è da millenni che, quando vuol negarsi, l’omosessualità si dichiara amicizia.

Ecco dunque che “bisogna leggere i fatti nel contesto di un’epoca in cui l’amicizia tra gli uomini del clero era molto più importante di oggi”, sennò come si potrebbe far santo un prete gay? (In questo caso, poi, il prete sarebbe addirittura un cardinale, e manco un cardinale qualsiasi, ma un vero e proprio fiore all’occhiello della Chiesa di Roma.) Pur casto – ce l’hanno rammentato di recente – un prete gay usurpa i privilegi del sacerdozio (sì, si è parlato proprio di “privilegi”), e si può mai far santo un usurpatore, per giunta di un sacro ufficio? Newman e StJohn erano amici, niente di più. (Alla faccia di Oscar Wilde, contemporaneo del signor cardinale, che per lo stesso genere di “amicizia” finì ai lavori forzati, e così ci è chiaro che certi “privilegi” tornano comodo, ma bisogna goderne con discrezione.)

Si potrebbe anche chiudere un occhio di fronte al solito combinato disposto di malafede, ipocrisia e mistificazione, ma stanno per buttarci addosso tutto ciò che Newman ha scritto: roba da convertito, dove lo zelo arde al meglio, dunque pappa prelibata per la propaganda clericale. Bisognerà, però, mettere in secondo piano il fatto che Newman non fosse a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale e che anteponesse il dettato della coscienza a quello dell’autorità pontificia, almeno in via di principio. (Sant’uomo, il Newman, ma aveva un sacco di difettucci.) Negare la sua omosessualità è operazione più semplice: la lasciano sbrigare alla bassa manovalanza, al tizio di cui sopra, che saluto, perché so che è mio lettore.

"You might think I'm frivolous, uncaring and cold"