1. «Verità rivelata da Dio o definita dalla Chiesa come tale, imposta ai credenti come articolo di fede»: la definizione di «dogma» data dal Devoto-Oli dovrebbe irritare la Santa Sede, perché al posto di quell’«o» dovrebbe esserci un «e». La Chiesa, infatti, è il soggetto al quale è affidata la rivelazione e il compito di definirla e trasmetterla: una verità definita tale dalla Chiesa non può che essere rivelata da Dio e, dunque, non vi può essere alcuna relazione disgiuntiva tra rivelazione e definizione. Anche volendo dare a quell’«o» un significato non oppositivo ma esplicativo o di equivalenza («ovvero»), il problema resta: sul piano teologico, la rivelazione di una verità non equivale alla sua definizione e la sostanza di un articolo di fede trascende la sua formulazione. Ma non ho notizia di teologo cattolico che abbia sollevato contestazione.
Non è tutto. Il Devoto-Oli parla di una verità «imposta ai credenti», ma «imposizione» è termine improprio, almeno oggi. Da quando la Chiesa ha perso gli strumenti del potere temporale coi quali per secoli ha potuto pretendere dai battezzati l’adesione almeno formale agli articoli di fede, nessuno è tenuto a dare valore di verità indiscutibile ai dogmi: meno di una dozzina di verità che sono state dichiarate indiscutibili in un ampio arco di tempo che va dal 325 (Concilio di Nicea) al 1950 (Munificentissimus Deus), molte delle quali hanno trionfato sul sangue di quanti si sono azzardati a contestarle. A rigettarne una, oggi, si è fuori dalla Chiesa. In pratica, la scelta è libera, ma impegna alla sospensione di ogni esame critico su ciò che la Chiesa ha proclamato dogma: nessun problema per chi voglia dirsi un buon cattolico, perché «tra i dogmi e la nostra vita spirituale c’è un legame organico: i dogmi sono luci sul cammino della nostra fede, lo rischiarano e lo rendono sicuro; inversamente, se la nostra vita è retta, la nostra intelligenza e il nostro cuore saranno aperti ad accogliere la luce dei dogmi della fede» (Catechismo, 89). D’altro canto, un buon cattolico non potrà mai dubitare che, quando proclama un dogma, «il magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo [e] propone verità contenute nella rivelazione divina» (Catechismo, 88): ogni tentazione allo scetticismo sarà sempre destinata ad essere infine vinta dalla fede (in caso contrario non sarebbe più un buon cattolico).
2. Arrivo a ciò che il Devoto-Oli afferma riguardo al «dogma» dopo alcuni mesi dedicati allo studio del Concilio Vaticano I e alla proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, che offre al buon cattolico l’indiscutibile verità così formulata: «Definiamo essere dogma divinamente rivelato che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell’assistenza divina che gli è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità, di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua Chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i costumi. Quindi queste definizioni sono irreformabili per virtù propria, e non per il consenso della chiesa. Se poi qualcuno - Dio non voglia! - osasse contraddire questa nostra definizione: sia anatema» (Pastor aeternus, IV - 18.7.1870).
Fortemente voluta da Pio IX e dai gesuiti, la proclamazione di questo dogma fu assai sofferta. Dobbiamo la più accurata ricostruzione storica di questi eventi ad August Bernhard Hasler (Come il Papa divenne infallibile, Ed. Claudiana 1982), che nel riportare ampia documentazione delle obiezioni allora sollevate da molti illustri prelati, teologi, biblisti e storici della Chiesa, infine ridotti al silenzio e all’obbedienza, ci fornisce gli elementi necessari per giungere a comprendere perché l’infallibilità papale fosse destinata già in partenza ad essere una verità da proclamare a voce sempre più bassa, meglio se dopo essere annacquata, come si è abbondantemente fatto, (a) restringendo sempre più l’ambito entro il quale si può dire che il papa stia parlando ex cathedra, (b) estendendo l’infallibilità alle proposizioni del collegio episcopale quando i vescovi siano in piena aderenza al magistero petrino e (c) canonizzando l’assunto di fede.
Quand’è che il Papa parla ex cathedra? Stando al testo della Pastor aeternus, «quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i costumi dev’essere ritenuta da tutta la chiesa». Ma in quale dei suoi detti o dei suoi scritti pubblici il Papa non «adempie il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani»? E, tolto tutto ciò che attiene alla fede e ai costumi, che resta del magistero? Nella definizione della Pastor aeternus il Papa parla sempre ex cathedra, ma oggi (a) si tende a ritenere che lo faccia solo quando si intrattiene su articoli di fede, mentre il Codice di Diritto Canonico continua a mantenere il punto sul fatto che goda dell’infallibilità anche quando si intrattiene sui costumi (Can. 749 - §1): almeno su ciò attiene ad essi sembrerebbe che (c) l’accettazione del dogma dell’infallibilità papale impegni il buon cattolico come soggetto di un momento giuridico, giacché «esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (Catechismo, 90) ed evidentemente la cathedra ha un gradiente di infallibilità che impegna il buon cattolico su piani pur sempre paralleli, ma distinti.
È sempre il Codice di Diritto Canonico (Can. 749 - §2) a consentire l’annacquamento per (b) ciò che interamente recepisce dall’istituto della collegialità come rappresentato su questo punto dal Concilio Vaticano II: «Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo» (Lumen gentium, 25). Qui il Papa resta infallibile su questioni relative a fede e costumi, ma gode di questa prerogativa in associazione ai vescovi che siano perfettamente associati a lui su tali questioni: il primato è condiviso, e dunque almeno in apparenza è attenuato, ma l’infallibilità della dottrina da essi espressa è tale se coincidente a quella infallibilmente espressa del Papa, e dunque la condivisione del primato ha il solo fine di rafforzare la prerogativa petrina, ma diluendone ogni responsabilità al collegio episcopale e in misura proporzionale al dovuto vincolo della comunione.
D’altro canto, il buon cattolico non deve dimenticare che «il grado più alto nella partecipazione all’autorità di Cristo è assicurato dal carisma dell’infallibilità, [che] si estende tanto quanto il deposito della divina rivelazione [e] anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale» (Catechismo, 2035), e dunque anche ai costumi: considerare infallibile il Papa (e i vescovi che mantengono saldo il vincolo della comunione a lui) gli assicura una perfetta obbedienza all’autorità di Cristo. E che può desiderare di più?
3. La verità che fu definita tale dalla Chiesa solo nel 1870, e con macchinosa estrapolazione da assai ambigua rivelazione e assai contraddittoria fonte storica, cominciò ad essere annacquata già in corso di definizione, quando monsignor Vincent Gasser, uno dei vescovi che pure era a favore della proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, tenne a precisare che «l’infallibilità del Romano Pontefice non gli deriva da ispirazione o da rivelazione, ma da assistenza divina. Perciò il Papa, in ragione del suo ufficio e della gravità della materia, è tenuto a utilizzare i mezzi che ritenga opportuni ad una retta indagine e ad una adeguata enunciazione della verità. Questi mezzi sono i Concili, il parere dei vescovi, dei cardinali, dei teologi, ecc. […] Noi dobbiamo piamente credere che nella divina assistenza promessa da Cristo Signore a Pietro e ai suoi successori è contenuta pure una promessa riguardo ai mezzi che sono necessari e atti ad esprimere un giudizio pontificio infallibile. Infine, noi non separiamo il Papa, neppure in minima parte, dal consenso della Chiesa, purché quel consenso non sia posto come una condizione che è o antecedente o conseguente».
Non è un caso se il Concilio Vaticano II si servì proprio degli argomenti di monsignor Gasser per liquidare ogni riconsiderazione sulla Pastor aeternus (Hans Küng ha lamentato che non se ne discusse per più di dieci minuti): pur rappresentabile solo attraverso un consenso che in ogni caso non poteva e non doveva immaginarsi antecedente o conseguente al parere del Papa, il principio della collegialità episcopale, che ad alcuni sembrò una rivoluzionaria rottura col passato, era formalmente fatto salvo e la Lumen gentium sembrò mettere la necessaria sordina ad una Pastor aeternus impresentabile al XX secolo: non si dichiarava il Concilio Vaticano I errante sull’inerranza papale – un Concilio che ne smentisce un altro è sempre inopportuno – ma si aggirava la questione ribadendola in termini che consentissero l’associazione del collegio episcopale alla partecipazione all’autorità di Cristo attraverso una comunione col suo Vicario che comunque non ammettesse condizioni. Un capolavoro di ambiguità e di ipocrisia che sembrò salvare la capra dell’innovazione e il cavolo della tradizione.
Che un dogma dichiarasse l’infallibilità papale, però, continuò a imbarazzare, al punto che, cento anni dopo la Pastor aeternus, Paolo VI la definiva «pagina drammatica della vita della Chiesa», aggiungendo subito: «Non è Nostro intento parlarne» (Udienza, 10.12.1969). Strano modo di commemorare l’apertura di un Concilio: glissando sul dogma che aveva partorito. Pochi giorni prima (Omelia, 8.12.1969), era stato meno reticente: «Chi vi parla trema pensando ai riferimenti concreti che [il dogma dell’infallibilità papale] ha con la Nostra umilissima persona, a Nostra confusione», per trovare conforto solo in quella fede che poneva le basi dell’inerranza in una «esclusiva derivazione divina». Meno reticente anche su ciò che aveva accompagnato il parto della Pastor aeternus: «avversione, dubbio, timore, entusiasmo, o altro», ma la reticenza residuava in quell’«altro»: le minacce e i ricatti di Pio IX prima del Concilio, le sue vendette a chi gli aveva fatto ostacolo, dopo.
Dieci anni dopo, e a centodieci dal Concilio Vaticano I, Giovanni Paolo II continuava ad annacquare: «Il dogma dell’infallibilità papale occupa certamente un posto meno centrale nella gerarchia delle verità» (Discorso ai teologi tedeschi, 18.11.1980). A centoventi anni dalla Pastor aeternus, e a centotrenta, solo vaghi accenni, niente che si potesse definire commemorazione, tanto meno celebrazione. Quest’anno, a centoquaranta anni di distanza, neanche mezza parolina. Se ci è sfuggita, è stata detta in modo che ci sfuggisse.