lunedì 17 gennaio 2011

“Questa è la mia vita”


Per convincerla a sposare l’uomo che aveva scelto per lei come marito, un padre diceva alla figlia: “Non saresti un membro degno della nostra famiglia, se tu davvero pensassi di seguire con testardaggine e sventatezza la tua strada irregolare e arbitraria. Noi non siamo nati per quella cosa che con miopia consideriamo la nostra piccola felicità personale, perché non siamo esseri autonomi e indipendenti, ma anelli di una catena”. Il brano è tratto da I Buddenbrook (Thomas Mann, 1901) e documenta in modo assai efficace un dato di riscontro assai comune lungo tutta la storia dell’occidente, almeno fino ai primi decenni del secolo scorso, anche se la scelta del marito da parte della famiglia della sposa, e del padre in primo luogo, rimase un uso che qui e lì si protrasse fino agli anni ’50 e, in casi tutt’altro che sporadici, fino all’altrieri: segno evidente che secoli e secoli di cristianesimo non erano riusciti a far del matrimonio un atto autonomo e indipendente, come di fatto non fu nemmeno in un’Europa dalle profonde e salde radici cristiane, che a chiacchiere – le chiacchiere sentite negli ultimi anni in bocca agli apologeti – sarebbero sempre state a fondamento e a garanzia delle scelte libere e responsabili della persona, almeno nei suoi affari di cuore.
La ragazza aveva avuto l’ardire di dire al padre – riduco alla nuda sostanza – qualcosa del tipo: “Questa è la mia vita”, e il padre le faceva presente un bene superiore: l’integrità della catena, il dovere imposto da una tradizione sulla quale era posto il sigillo del IV comandamento, forma attenuata del diritto di vita e di morte del padre sul figlio.
Ecco, io penso che con questa storia tanto recente alle spalle dovremmo far meno i presuntuosi nei confronti di Muhammad Saleem, il padre di Hina, che oggi sconta una condanna a trent’anni di carcere per aver ammazzato la figlia. “Hina - Questa è la mia vita” è il titolo del libro, da oggi in libreria, che raccoglie l’intervista che l’uomo ha concesso Giammaria Monti e Marco Ventura (Piemme, 2011), e almeno a quanto traspare dalla recensione di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 17.1.2011) le pagine trasudano un senso di superiorità che è tipico della pescivendola da poco diventata regina. “L’orrore, il sangue, la riprovazione morale, il processo, la condanna, la detenzione, il confronto con gli altri detenuti non hanno spostato di un millimetro la sua visione del mondo, della vita, dei valori”. Un Buddenbook appena un po’ più rozzo, ma pure lui armato delle ragioni del buon padre di famiglia: “Non volevo che mia figlia fosse troppo libera”.

3 commenti:

  1. Se sgozzare la figlia e seppellirla ritualmente in giardino, col concorso dei maschi di famiglia, vuole dire essere 'appena un po’ più rozzo'...

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