ad A. B.
1. Intendo dimostrare che c’è una grande disonestà nel dire che “nulla nel diritto canonico proibisce o impedisce di riferire i reati [commessi da preti] alla polizia”, affermazione che monsignor Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, fa in un articolo apparso su The Times (26.3.2010), sul sito web della sua diocesi (26.3.2010) e su L’Osservatore Romano (28.3.2010). La disonestà sta nel fatto che questa proibizione non è esplicita nel Codice di diritto canonico, ma è posta di fatto dal combinato disposto di molti obblighi procedurali.
Il post sarà giocoforza lungo e di lettura non agevole, come sempre quando di mezzo ci sono testi legislativi, sicché vorrei iniziare in modo leggero, segnalando le differenze fra le tre versioni dell’incipit.
Su The Times si legge: “The child abuse committed within the Roman Catholic Church and its concealment is deeply shocking and totally unacceptable. I am ashamed of what happened, and understand the outrage and anger it has provoked”; su rcdow.org.uk, invece: “The child abuse committed within the Catholic Church and its concealment is deeply shocking and totally unacceptable. I am ashamed of what has happened” (salta la comprensione per l’oltraggio e per la rabbia); su L’Osservatore Romano: “Gli abusi su minori commessi nella Chiesa cattolica e i loro occultamenti colpiscono profondamente e sono del tutto inaccettabili” (salta pure la vergogna di Sua Eccellenza). Quale buona fede può esservi nell’argomento di monsignor Nichols, se introdotto con tali differenze secondo chi lo debba soppesare? E tuttavia diamo per scontato che Sua Eccellenza sia in buona fede quando afferma che “nulla nel diritto canonico proibisce o impedisce di riferire i reati [commessi da preti] alla polizia”; diamo per scontato che sia vero – come aggiunge – che “dal 2001 la Santa Sede, attraverso la Congregazione per la Dottrina della Fede, [abbia] incoraggiato questo tipo di azione nelle diocesi che hanno ricevuto le prove di reati di abuso su bambini”; e consideriamo che questo sia accaduto “poiché l’istruzione Crimen sollicitationis finora in vigore […] doveva essere riveduta dopo la promulgazione dei nuovi codici canonici” (Joseph Ratzinger, De delictis gravioribus, 18.5.2001). Ma i nuovi codici canonici incoraggiano a denunciare il prete presso la giustizia civile? E allora perché – ancora nel 2001 (e il nuovo Codice di diritto canonico è del 1984) – Ratzinger continua a raccomandare che “le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”?
2. Il post sarà giocoforza lungo, dicevo, e di lettura non agevole.
Dobbiamo cominciare col dire che la Chiesa dichiara di avere “il diritto nativo e proprio di costringere con sanzioni penali i fedeli che [abbiano] commesso delitti” (Can. 1311), le quali si dividono in censure (sospensione, interdizione e scomunica) ed espiazioni (proibizione o ingiunzione di dimorare in un determinato luogo, privazioni di potestà, ufficio, incarico, privilegio, facoltà, grazia, titolo, ecc., e dimissione dallo stato clericale). Il fatto è che il Codice di diritto canonico prescrive che “per una trasgressione occulta non s’imponga mai una penitenza pubblica” (Can. 1340). Inoltre, “la procedura giudiziaria o amministrativa per infliggere o dichiarare le pene [deve essere avviata dall’Ordinario] solo quando [questi] abbia constatato che né con l’ammonizione fraterna né con la riprensione né per altre vie dettate dalla sollecitudine pastorale è possibile ottenere sufficientemente la riparazione dello scandalo, il ristabilimento della giustizia, l’emendamento del reo” (Can. 1341).
A un prete che abbia commesso abusi su minori, già qui, sono offerte due ottime occasioni per non essere denunciato alla giustizia civile. Ma quando pure il reato fosse stato giudicato tale dinanzi a un tribunale ecclesiastico, e punito con censura o espiazione, “le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio”, così scrive Ratzinger ancora nel 2001, perché “a coloro che sono chiamati al servizio del popolo di Dio vengono confidate alcune cose da custodire sotto segreto, e cioè quelle che, se rivelate o se rivelate in tempo o modo inopportuno, nuocciono all’edificazione della Chiesa o sovvertono il bene pubblico oppure infine offendono i diritti inviolabili di privati e di comunità” e “tutto questo obbliga sempre la coscienza” (Segreteria di Stato, 4.2.1974).
La violazione del segreto pontificio – ricordiamolo – è sanzionato in modo severo, fino alla scomunica. Questo incoraggerebbe a denunciare un prete? Non il contrario, al contrario?
3. Ma poi, che ha da aspettarsi un prete che abbia commesso abusi su minori, se scansa la giustizia civile? Cominciamo col dire che “l’autore della violazione non è esentato dalla pena stabilita dalla legge o dal precetto, ma la pena deve essere mitigata o sostituita con una penitenza, se il delitto fu commesso […] per grave impeto passionale” (Can. 1324), e chi vorrà negare che due chiappette morbide possano far perdere la testa ad un prete pedofilo?
Idem per lo stesso giudice del tribunale ecclesiastico, che può “differire l’inflizione della pena a tempo più opportuno, se da una punizione troppo affrettata si prevede che insorgeranno mali maggiori”, “astenersi dall’infliggere la pena, o infliggere una pena più mite o fare uso di una penitenza, se il reo si sia emendato ed abbia riparato lo scandalo, oppure se lo stesso sia stato sufficientemente punito dall’autorità civile o si preveda che sarà punito”, “sospendere l’obbligo di osservare una pena espiatoria al reo che abbia commesso delitto per la prima volta dopo aver vissuto onorevolmente e qualora non urga la necessità di riparare lo scandalo, a condizione tuttavia che, se il reo entro il tempo determinato dal giudice stesso commetta nuovamente un delitto, sconti la pena dovuta per entrambi i delitti, salvo che frattanto non sia decorso il tempo per la prescrizione dell’azione penale relativa al primo delitto” (Can. 1324).
In più, “ogniqualvolta il delinquente o aveva l’uso di ragione in maniera soltanto imperfetta o commise il delitto […] per impeto passionale […], il giudice può anche astenersi dall’infliggere qualunque punizione, se ritiene si possa meglio provvedere in altro modo al suo emendamento” (Can. 1345).
Stanti questi limiti posti alla stessa applicazione di una efficace sanzione ecclesiastica, come e quando ci sarebbe incoraggiamento alla denuncia presso la giustizia civile?
4. Il prete che abbia commesso abusi su minori “sia punito con giuste pene, non esclusa la dimissione dallo stato clericale”, ma solo se “il caso lo comporti” (Can. 1395). Non si ha notizia, però, di preti dimessi prima che i loro reati fossero giudicati da un tribunale laico.
Per il resto, “i giudici e gli aiutanti del tribunale [ecclesiastico] sono tenuti a mantenere il segreto d’ufficio, nel giudizio penale sempre, nel contenzioso poi se dalla rivelazione di qualche atto processuale possa derivare pregiudizio alle parti. […] Anzi ogniqualvolta la causa o le prove siano di tal natura che dalla divulgazione degli atti o delle prove sia messa in pericolo la fama altrui, o si dia occasione a dissidi, o sorga scandalo o altri simili inconvenienti, il giudice può vincolare con il giuramento di mantenere il segreto i testi, i periti, le parti e i loro avvocati o procuratori” (Can. 1455). Di fatto questo consiste in un incoraggiamento alla denuncia del prete che abbia abusato di bambini o, invece, in una pressante consegna all’omertà?
E che dire del Can. 1550? Recita: “Non siano ammessi a fare da testimone i minori al di sotto dei quattordici anni”. Si rende facile o difficile la carriera del prete pedofilo quando le sue vittime non possano testimoniare su abusi commessi su loro coetanei?
“Gravi errori sono stati commessi in seno alla Chiesa cattolica”, dice monsignor Nichols, ma essi sono consentiti, addirittura favoriti, dal Codice di diritto canonico. “In tutto il mondo – dice – esiste all’interno della Chiesa cattolica un ordinamento giuridico che è il Codice di diritto canonico. È dovere di ogni vescovo diocesano amministrarlo. Alcuni reati gravi che violano questo ordinamento devono essere riferiti alla Santa Sede per garantire che venga amministrata una giustizia appropriata. Ciò è stato nuovamente ribadito nel 2001”. Ebbene, i vescovi che hanno coperto i preti pedofili operanti nelle loro diocesi non hanno mai tradito le consegne di questo Codice: è lì dentro che c’è abbastanza per spiegare tutto.