Un commento anonimo a un post qui sotto mi ha dato molto da pensare. Ambiguo, laconico e fuori tema – “l’hobby di dio” (tutto in minuscolo, non una parola di più) – mi è parso poter essere puntuale, eloquente e pertinente, come una specie di insulto, in qualche modo meritato. L’avrei fatto scivolare via con noncuranza – mi sarei detto d’averlo frainteso – se non fosse che ieri sera ho dovuto compilare una lista di “opere che reputi necessarie per iniziare a studiare la Chiesa da un punto di vista storico-scientifico”, chiestami via email da un lettore, e mi sono reso conto di ciò che già sapevo, ma che è stato doloroso constatare: da due decenni e più, quasi tre, ho una lettura ossessivo-compulsiva, pressoché monotematica anche se il tema è infiltrato in ogni dove: insomma, coltivo una mania, mi diletto di un vizio: ho “l’hobby di dio”.
Fosse un mestiere, avrebbe senso anche da ateo, ma come dopolavoro che mi significa? Ho trovato una risposta, ma non avrebbe senso senza aver prima detto del commento di Berlicche a due articoli su La Stampa di ieri (Le amnesie dei cattolici in politica di Gian Enrico Rusconi e I cristiani e il peccato colonialista di Vittorio Emanuele Parsi): nell’obiezione a Berlicche c’è la risposta che mi sono dato. Sarò breve, nei limiti del possibile.
Parsi scrive: “Dal Pakistan all’India, dall’Iraq all’Egitto, dal Sudan alla Nigeria, […] la religione cristiana viene […] strettamente associata all’Occidente e al suo predominio politico […] Una tale identificazione assoluta […] è resa possibile attaccando il «punto debole» comune a tutte le grandi religioni, sempre alla ricerca di un difficile equilibrio tra i loro elementi propriamente teologici universalistici e il loro costrutto culturalmente e geograficamente determinato”. Io penso che qui Parsi volesse scrivere “geopoliticamente”, ma sia stato trattenuto da un pudore – diciamo – ruiniano.
Oltre: “L’intreccio tra cristianità e cultura occidentale è quello che per quasi un decennio ha alimentato la polemica sulle «radici cristiane dell’Europa», tanto oggettivamente evidenti, a parere di chi scrive, quanto oggi è altrettanto oggettivamente problematico il rapporto tra l’Europa e le religioni”. Qui Parsi non lo scrive, e chissà se lo pensa, ma lo dico io al posto suo, mettendomi nei suoi panni: “Tutto questo sbatterci per ricristianizzare l’Occidente e cosa ce ne viene in cambio? Che ci bruciano vivi in Asia e in Africa”. Parsi si limita a scrivere: “Se il messaggio teologico contenuto in religioni come il cristianesimo e l’islam è il vettore che rende queste ultime potenzialmente universali, il loro costrutto culturale è quello che ne provoca l’attrito, che ne indebolisce concretamente la capacità di diffusione”.
Questo articolo sembra ingenuo – ripeto: sembra – perché sembra ignorare che due religioni potenzialmente universali sono rivali di fatto, prim’ancora che nel portato culturale (cioè politico), in quello confessionale (cioè teologico). Non è ingenuità, quella di Parsi: in solido ai tentativi della Santa Sede di mediare con l’islam un’alleanza contro il secolarismo (cioè la modernità), lamenta l’incompenetrabilità degli incompenetrabili, in pratica Parsi e la sua Chiesa piangono perché non riescono a fottere. Un professorone del suo livello non può ignorare che, a cimentarli l’uno con l’altro, degli highlanders (cioè dei monoteismi) “there can be only one”: lamenta che al cristianesimo non sia data questa opportunità dove le sue radici sono “oggettivamente evidenti” e le sia preclusa dove non lo sono affatto, anzi, dove vi è traccia solo del portato geopolitico che si è espresso col colonialismo. A Parsi pare sfuggano le linee strategiche e tattiche dell’inculturazione cristiana nei paesi extra-europei. Non è ingenuità: è malafede.
Poco da dire su ciò che scrive Rusconi, tranne il fatto che come al solito è chiaro e onesto. Una sola cosa, che poi è quella ripresa da Berlicche: “una constatazione” che a Berlicche sembra “quasi un avvertimento”. Rusconi scrive – lo dico come l’ha letto Berlicche – che “se i cattolici vogliono contare in politica, il fatto religioso nella politica non deve entrarci”.
Questo entrarci – che in Italia, almeno dal 1985 in poi, ha avuto il segno del ruinismo, cioè della reconquista arcigna – è quello che è intollerabile, e si resiste come si può: qui, in Occidente, con la forza degli argomenti; con la violenza, dove gli argomenti supportano solo la stessa violenza che è in ogni monoteismo. Se qui in Occidente ci si limita alle “pallottole di carta” come le ha chiamate Ruini, irridendole, è solo perché si ha coscienza che di più non è lecito: alla violenza del monoteismo cristiano, che ormai si esprime solo nella pretesa di una morale universale, eterna, trascendente e non negoziabile, che in passato non si è mai fatto scrupolo di imporre con la forza temporale e che oggi non ha smesso di imporre con quanto gliene è residuato, si oppone la nuda ragione, depurata da ogni ipoteca che la fede pretenderebbe di imporle. Dove il rifiuto della pretesa cristiana non è depurato da ogni fede, ma anzi prende quella che ha a disposizione e la brandisce come un’arma, è difficile far differenza tra attacco e difesa: “there can be only one”, e tutto è lecito. E un ateo davvero non riesce a far differenza tra un Dio e un altro: tutti ugualmente sanguinari, o sgozzano tra urla e schizzi o vampirizzano dolcemente svenando. Sempre sangue umano è.
Poi ci sarebbe una questioncella: se e quanto il “costrutto culturale” sia direttamente espresso dal “messaggio teologico”. Ma qui sarebbero necessarie pagine e pagine. Poi ci sarebbe ancora da dire due parole sulla foto scelta da Berlicche per fortificarci nella certezza che in Pakistan e in India, in Iraq e in Egitto, in Sudan e in Nigeria, i cristiani vengano bruciati vivi: foto di carbonizzati, da fidarsi siano cristiani (neanche vado a controllare in rete, ci credo, ci credo). Qui è tutto più semplice: i cadaveri carbonizzati si somigliano un po’ tutti e basta far finta che quelli della foto siano tutti ebrei mandati al rogo dal XIV al XVII secolo (i musulmani lo fanno con quei 6 secoli di differenza che li fa più giovani dei cristiani), tranne quello in primo piano, che invece faccio finta sia Giordano Bruno – e capisco l’ardore teologico di tutti i monoteismi.
Che obietta, Berlicche, all’articolato de La Stampa? “Il cristianesimo, in quelle terre, è di gran lunga più antico delle ideologie di coloro che cercano di distruggerlo. Maometto, nella sua resistibile ascesa, di seguaci di Gesù che stavano lì prima di lui ne accoppò parecchi. […] È chiaro che questa storia del colonialismo è una scusa, un costrutto ideato da chi vuole vedere versato quel sangue per poi, nella migliore delle ipotesi, lavarsene le mani. Da chi maschera la ferocia dell’odio accusando la vittima di colpe immaginarie. E che è molto più presente qui, sui nostri media, che là, dove le stesse pietre parlano in modo diverso”.
Se e quanto – qui – il “costrutto culturale” sia direttamente espresso dal “messaggio teologico” è in bella evidenza: la teoria (costrutto culturale) che il Medioriente sia cristiano da ben prima di diventare musulmano (6 secoli) non è declinazione dell’assunto (messaggio teologico) che il tuo Dio sia antecedente a tutto? Ma gli dei precolombiani che Pizarro rimpiazzò con la Santa Trinità non le erano antecedenti? Non erano radicalmente autoctoni alle Americhe? Inti e Quilla possono dirsi di gran lunga più antichi dell’ideologia di Gesù e Maria che li ha distrutti per mano gesuita? E a cosa può servir loro, ora, che lo si riconosca?
Per chi è riuscito ad arrivare fino a qui, eccoci a spiegare questo mio “hobby di dio”. La mania che coltivo, il vizio col quale mi diletto, è questo Dio del cazzo che ormai sta tutto nella costruzione psicologica, culturale, politica – antropologica – che s’è eretta addosso e che ormai abita come fantasma. E dunque l’hobby è della storia, eventualmente dell’architettura.