venerdì 30 luglio 2010

Meninge per laringe



Non v’è alcun dubbio sul fatto che Michelangelo Buonarroti abbia studiato anatomia su cadaveri sezionati, interessandosi soprattutto dell’apparato locomotore. Tuttavia, com’è comprensibile per l’interesse che lo muoveva, il suo approccio a questo studio fu esclusivamente topografico, non molto diverso da quello che all’anatomia è oggi riservato nelle scuole d’arte, dove non si va oltre ciò che è utile sapere per riprodurre in modo corretto i volumi delle masse corporee, lasciando da parte ogni rilievo di natura sistematica. Ai suoi tempi, d’altronde, non poteva essere diversamente, perché le tecniche di studio anatomico cominciavano proprio in quella prima metà del XVI secolo, e assai timidamente, a costruire una tassonomia del corpo umano. Il primo a farlo fu il fiammingo Andrea Vesalio (Andreas van Wesel), contemporaneo di Michelangelo (morirono entrambi nel 1564), ma del quale l’artista italiano non ebbe mai modo di leggere il suo De humani corporis fabrica (1543), nel quale è dedicato assai poco spazio al sistema nervoso centrale (s’intrattiene solo sulle circonvoluzioni degli emisferi e sul corpo calloso). Bisognerà aspettare Malpighi (1628-1694), Morgagni (1682-1771) e Bichat (1771-1802) per sapere qualcosa dell’anatomia del cervello, un organo che si comincia a deteriorare irreparabilmente dopo poche ore dal decesso: fino a quando non fu trovato il modo di bloccare i processi degenerativi post mortem con opportuni allestimenti, lo studio della massa cerebrale fu un problema serio per ogni anatomista e, prima dell’impiego della formaldeide a tale scopo, non abbiamo studi che siano degni di attenzione. È possibile, dunque, che Michelangelo conoscesse l’anatomia del cervello e del tronco encefalico meglio di chiunque altro ai suoi tempi?
La domanda è in qualche modo inevitabile alla lettura di ciò che Ian Suk e Rafael Tamargo, due ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora, nel Maryland, scrivono sul numero di maggio di Neurosurgery (66:851-861, 2010): a sentir loro, nel pannello della Cappella Sistina detto della Separazione della luce dalle tenebre, Michelangelo avrebbe dipinto l’anatomia della base cerebrale e del tronco encefalico umani sul collo di Dio, e con tale precisione di dettaglio da potervi rilevare sorprendenti correlazioni.


L’idea – i due non ne fanno mistero – nasce dalle suggestioni offerte una ventina d’anni fa da Frank Lynn Meshberger con un articolo pubblicato su The Journal of the American Medical Association dal titolo An interpretation of Michelangelo’s Creation of Adam based on neuroanatomy, del quale riportano una tavola che proverebbe una correlazione tra la sezione sagittale del cervello e del tronco encefalico e un pannello della Cappella Sistina. Superfluo dire che ai tempi di Michelangelo una tale sezione anatomica non era neanche ipotizzabile, ma ciò che appare evidente anche a chi non abbia alcun rudimento di anatomia cerebrale è l’arbitrarietà della correlazione dei punti di repere.


La tesi di questo post è la seguente: Ian Suk e Rafael Tamargo hanno stravisto, perché sul collo del Dio ritratto da Michelangelo altro non v’è che la comune anatomia della regione sottomentoniera e di quella sternoioidea, quando soggette al movimento di estensione e lateralizzazione del capo lì raffigurato.


Ciò che ai due sembra il peduncolo cerebrale (a) altro non è che l’area approssimativamente trapezoidale che è racchiusa tra i due ventri anteriori dei muscoli digastrici (lateralmente), la depressione relativa al corpo dello ioide (inferiormente) e ai margini inferiori della mandibola (superiormente), e cioè l’area corrispondente alla superficie del muscolo miloioideo (a'), come appare quando protude attraverso lo spessore del platisma nella estensione del capo; ciò che a loro sembra il ponte (b) altro non è lo sviluppo dei due muscoli tiroioidei (b'); il midollo allungato (c) altro non è che il complesso laringo-tracheale (c'); e l’area triangolare a vertice inferiore, che i due riferiscono all’emisfero cerebellare, bilateralmente situata ai margini del complesso a-b-c, altro non è quanto si sviluppa tra sternocleidomastoideo e il complesso a'-b'-c', dove a' è la sezione relativa alla regione miloioidea (vedi la figura che apre questo post) e b'-c' è quella relativa al complesso tiroioideo-laringotracheale (vedi figura qui sotto).


Michelangelo avrebbe ben potuto avere nozione dell’anatomia topografica della regione cervicale anteriore così come qui sommariamente descritta e peraltro compiutamente rappresentata come regione cervicale anteriore di un Dio a immagine e somiglianza di uomo; assai più difficile che potesse avere nozione dell’anatomia della base cerebrale e del midollo allungato così come osservabile dopo adeguata fissazione in formaldeide; e invero appare senza ragionevole spiegazione il perché un pittore del Rinascimento possa essersi sentito ispirato a rappresentare un bulbo encefalico al posto di una gola, meninge per laringe.
Ma ciò rende del tutto inverosimile l’ipotesi di Suk e Tamargo – un Michelangelo che cripta le sue nozioni di anatomia del sistema nervoso – è il vedere in una piega della veste addosso a Dio il solco mediano anteriore del midollo spinale, peraltro non allineato al bulbo,



e, ancora, a stravedere nel panneggio l’anatomia dei globi oculari e del chiasma ottico.



Vengo a conoscenza dell’articolo sul numero di maggio di Neurosurgery da una AdnKronos di oggi. D’estate tutto è buono per riempire lo spazio tra il culo di Belén e il muso di Capezzone.


[Un grazie a Brunella per lo scanning dal Testut-Latarjet.] 

Consorterie

Che cosa manca nella blogosfera italiana?
«Niente, ciascuno ha quanto merita.
C’è solo una pesante cappa di provincialismo
e una irresistibile tentazione alla consorteria».



I termini non correnti o di raro uso vanno incontro a un rimaneggiamento più lento e nascosto del loro significato, ma altrettanto inesorabile che per i termini d’uso continuo. Dovremmo tremare nell’usare un termine non molto usato, perché corriamo il rischio di usarlo male. E qui, un po’ nauseato di bloggare, ma non di scrivere, e dunque per mettere riparo a ciò che nel privato avrei lasciato senza correzione, vorrei parlare di un mio errore: ho usato un termine – è stato qualche tempo fa, ma non molto – per significare tutt’altra cosa da quella che oggi mi è significata nell’autorevole parere del Quirinale, che mi sta al pari dell’Accademia della Crusca.
Parlo del termine “consorteria”: se Giorgio Napolitano ha definito “consorteria” quel nodo di interessi poco belli solitamente trafficati da un giro di sodali, clienti, famigli, nascosti e/o complici, spesso in nicchie di prepotere e di privilegio, io ho usato il termine “consorteria” a sproposito quando ho parlato di quelle aree della blogosfera che raccolgono sodali, clienti, famigli a fare traffico di carinerie che del prepotere e del privilegio hanno solo il millantato credito. A sproposito, perché qui gli interessi del giro sono sempre belli, addirittura nobili, e sono sempre abbastanza evidenti, talvolta pure troppo, e la complicità che li nutre non ha quasi mai nulla di quello “squallore” che il Presidente della Repubblica ha segnalato per la cosiddetta P3. Insomma, ho usato il termine “consorteria” in modo assai improprio, forse addirittura offensivo: correggermi è chiedere scusa e, visto che sto ripensando a tutto ciò che ho sbagliato a scrivere, comincio da questo.
Usavo il termine nell’accezione di “associazione di famiglie nobili, diretta al mantenimento di un certo prestigio e potere nell’ambiente delle società medievali, nel periodo della crisi del feudalesimo” (Devoto-Oli), con riferimento alla nostra età di mezzo che in ogni ambito relazionale e comunicativo non può che rivelare e rappresentare la crisi di vecchi modelli, con la nascita di nuovi, e non in quella spregiativa di “fazione che agisce più o meno nascostamente per il proprio interesse particolare, per lo più a detrimento del bene pubblico” (ibidem). Il bene pubblico, peraltro, è roba che la blogosfera non è tenuto a curare; per quanto attiene al proprio interesse particolare, invece, ciascuno può allegarlo a quello pubblico, fino a smentita.

martedì 27 luglio 2010

Non proprio



Quando L’Osservatore Romano ha strillato in prima pagina della scoperta di “un nuovo Caravaggio” (18.7.2010), tutti i quotidiani nazionali – ripeto: tutti – non hanno fatto altro che rilanciare lo strillo. Non un dubbio, né dal gran mucchio di ignorantoni che stipano le redazioni, né dalla eletta schiera dei critici d’arte, che avranno pure avuto qualche dubbio, ma sono stati tutti zitti. Quello che aveva scritto Lydia Salviucci Insolera sembrava dato per certo: “Che il dipinto sia di grande bellezza è un fatto inequivocabile… Notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi… La dimensione umana, espressa dallo sguardo e dal movimento della testa, tutta tesa in avanti, viene efficacemente comunicata allo spettatore… Questa stessa sensazione si percepisce osservando le opere di Caravaggio per la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo…”.
Tutti incantati dinanzi al nuovo Caravaggio, molti a bocc’aperta, qualcuno semisvenuto per sindrome di Stendhal. Solo uno stronzo – blogger, per giunta – aveva argomentato contro l’attribuzione, concludendo con un’ardita affermazione: “il Martirio di San Lorenzo non è di Caravaggio”. Un post irrilevante, comprensibilmente irrilevato, di quelli di cui scorri due righe, sbadigli e corri a fare il test per sapere a chi write like. Post degno di nota solo nel caso che il Merisi si fosse offeso e avesse chiesto € 12.500 euro al blogger, quello sì che sarebbe stato un 3d avvincente. D’altronde, diciamola tutta, a voler essere dei blogger seri la giornata del 19 luglio s’offriva a riflessioni di assai maggior peso: Tremonti su l’iPad, il 36° suicidio in carcere, i bus del nordest ormai pieni solo d’immigrati… C’era di che ciucciarselo a vicenda.

Oggi, però, L’Osservatore Romano torna sui suoi passi, mandando avanti nientepopodimeno che il direttore dei Musei Vaticani: “Guardi da vicino e vedi mani prospetticamente sbagliate, anatomie goffe e disarticolate nei nudi in secondo piano sulla destra, panneggi incerti…”. Toh, anche lui s’è soffermato sul panneggio che al blogger di cui sopra sembrava “rozzo e innaturale”, senz’“alcunché di caravaggesco”. Ma il link va al professor Paolucci, perché neanche più ricordo chi fosse il blogger.


[Ci si rivede molto, ma molto più in là.]

pg ≠ p

“In seminario ci dicevano:
«Uno dei segni della vocazione
è che non ci piacciono le donne»”


L’inchiesta di Panorama sui costumi sessuali del clero in Roma non mi interessa, non mi dice niente, ma la reazione del Vicariato di Roma mi apre un mondo. “L’estensore del servizio – vi si legge – afferma di aver frequentato alcuni sacerdoti gay e di aver documentato i loro comportamenti con una telecamera nascosta. La finalità dell’articolo è evidente: creare lo scandalo, diffamare tutti i sacerdoti, sulla base della dichiarazione di uno degli intervistati secondo il quale «il 98 per cento dei sacerdoti che conosce è omosessuale»…”. Qui mi fermo e già mi vengono in mente un sacco di cose.
Prima fra tutte, la testimonianza di don Carmelo Vicari: “In seminario ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»” (Tempi, 16/29 – pag. 3). Poi penso al fatto che per il Catechismo un omosessuale rimane un buon cristiano se si astiene da pratiche omosessuali, ma che alla Chiesa non basta che un prete gay sia casto e ha perfino scatenato una “caccia al ricchione” nei suoi seminari. Se un seminarista riesce a confinare la propria omosessualità dove nessun ispettore riuscirà mai a stanarla, può fare il prete; appena si rivela, non è più prete. Un prete gay non è un prete (pg ≠ p), ma a patto che si risappia: già parlare di “preti gay” è un voler “screditare la Chiesa”, così afferma il Vicariato di Roma.
Ma che c’entra il Vicariato di Roma? Perché non parla la Congregazione per il Clero? Perché non parla la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica? Perché le “notti brave dei preti gay” sono romane: si esprime l’organo territorialmente competente, e infatti è fatta distinzione tra i “1.300 sacerdoti delle 336 nostre parrocchie” e le “molte centinaia di altri preti provenienti da tutto il mondo per studiare nelle università, ma che non sono del clero romano”. Giacché pg ≠ p, il fatto non riguarda il clero in generale, ma il discredito gettato sul clero romano “sulla base della dichiarazione di uno degli intervistati [da Panorama] secondo il quale «il 98 per cento dei sacerdoti che conosce è omosessuale»”: il Vicariato di Roma interviene per dire che non gli risulta ve ne sia notizia per ciò che riguarda il suo clero, ergo trattasi di diffamazione.
Certo, “i fatti raccontati non possono non suscitare dolore e sconcerto”, ma i preti gay di Panorama non sono preti e nemmeno preti romani, tutt’al più usurpatori i cui “comportamenti infanga[no] la onorabilità di tutti gli altri”. Poi: “Sappiano che nessuno li costringe a rimanere preti, sfruttandone solo i benefici”. Wow, uno dei rari casi in cui si ammettono benefici. E ancora: “Questo Vicariato è impegnato a perseguire con rigore, secondo le norme della Chiesa, ogni comportamento indegno della vita sacerdotale”. La Chiesa non c’entra niente: per la Chiesa, pg ≠ p.
“In seminario ci dicevano: «Uno dei segni della vocazione è che non ci piacciono le donne»”, ma poi nel 2005 è arrivata la circolare che vietava di ordinare sacerdoti i seminaristi gay. Da quell’istante chi già era prete, e gay, non esisteva: come con i pedofili, è bastato smettere di coprirli e non dovrebbero più essercene.

A sette settimane dall'omicidio di monsignor Luigi Padovese


Ho scritto della morte di monsignor Luigi Padovese in tre occasioni, segnalando i non pochi dettagli incongrui alla tesi dell’esecuzione di marca islamista. “Sicuro è che non si tratta di un assassinio politico o religioso, si tratta di una cosa personale”, l’ha detto Benedetto XVI. E io mi sono limitato a sottoscrivere e ad aggiungere: le pressanti avances di Sua Eccellenza hanno trovato una resistenza violenta.
Anche qui non ho fatto altro che sottoscrivere quanto peraltro concesso dal Vicariato in ordine all’inchiesta di Panorama sulle abitudini sessuali di un rappresentativo campione di preti a Roma: ci sono preti gay, sono invitati a dichiararsi tali e a lasciare la tonaca, ma non lo fanno. Qui mi limito a chiedere: se riesce a non farsi pizzicare, un prete gay può arrivare a diventare vescovo in Turchia? Direi che non si possa escludere, peraltro il Vicariato garantisce solo sul clero indigeno, margina il fenomeno a preti foresti e itineranti.

Ucciso in odio alla fede cristiana, diceva Il Foglio. Martirio, diceva Avvenire. Agnello sacrificale, diceva L’Osservatore Romano. Io dicevo: “Monsignor Luigi Padovese aveva rinunciato al suo viaggio a Cipro poche ore prima di essere ucciso, dopo che Murat Altun gli aveva comunicato che non lo avrebbe seguito. Quel viaggio era un appuntamento importantissimo (doveva essere accanto a Benedetto XVI che consegnava quell’Instrumentun laboris alla cui stesura il Padovese aveva dato un grande contributo), ma a tuttora nessuno sa spiegare perché il vescovo vi abbia rinunciato. […] Murat Altun era alle sue dipendenze come autista da quattro anni, e tuttavia il Padovese lo voleva accanto a sé anche quando non doveva spostarsi. Non sarebbero mancate occasioni per uccidere prima il vescovo, soprattutto nella settimana che ha preceduto quella nella quale si è consumato l’omicidio, nella quale il Padovese ha trattenuto presso di sé l’Altun senza mai consentirgli di tornare a casa”. Una zecca, almeno per una mente psicolabile come l’Altun.

Anche qui non faccio che sottoscrivere quanto dice un autorevole prelato, monsignor Ruggero Franceschini, che dopo la morte del Padovese ne ha preso il posto: “Mi fa soffrire questa attesa nel silenzio […] Mi dispiacerebbe che prevalesse il motivo passionale”. Lo esclude, ma allora perché temere di dover essere smentito? Perché “di concreto c’è che aspettiamo di conoscere la verità su questa morte”. Ma non era già nota? Evidentemente no, evidentemente non è ancora del tutto chiaro: Altun potrebbe aver ucciso un nemico dell’islam o uno spasimante troppo assillante, a sette settimane dall’omicidio ancora non si sa. Infatti monsignor Franceschini afferma che “Altun was not a religious man, leaving a question mark over why he had incorporated Muslim symbolism in the execution of Bishop Padovese”. Tenderebbe a cadere l’ipotesi dell’esecuzione in stile jihadista, e che altro rimarrebbe? “Una cosa personale”, proprio come aveva detto Benedetto XVI.

mercoledì 21 luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Cordialmente, come si dice


Andrea Tornielli mi fa:

Gentile Luigi Castaldi, lei ha ogni diritto di «schifarmi». Forse però, per completezza, dovrebbe riferire che lei cita non un mio articolo sul Giornale, ma un breve trafiletto sul blog, dove io riprendevo la notizia.
Sono ovviamente pronto a discutere con lei di Pio XII «seriamente», avendo scritto quattro libri sull’argomento, l’ultimo dei quali (Pio XII, Mondadori 2007, 680 pagine, tradotto in Francia e recensito positivamente da molti vaticanisti stranieri, quelli che lei non «schifa», tanto per intenderci) è basato su molti documenti inediti che mostrano quale fosse la percezione che Pacelli aveva di Hitler e soprattutto in quali date precise egli l’abbia messa per iscritto.
Ma sono certissimo che lei, ovviamente, sappia già tutto...


Rispondo:

Gentile Andrea Tornielli, lei non entra nel merito della questione da me sollevata nel post “E io perciò li schifo, i vaticanisti italiani”, che le dà occasione di risentirsi. Non espone argomenti avversi alla lettura che ritengo corretta della frase tratta dai diari del cardinale Celso Costantini, di cui lì si discute. Non mi contesta l’affermazione che Sua Santità l’abbia usata, peraltro citandola con apposita modifica, in patente soccorso della non lusinghiera fama di cui gode Pio XII presso gli ebrei. Non mette lingua neppure su quanto io affermo in ordine al nocciolo della questione: cosa sia da intendersi per “Anticristo” in quella frase, e cosa sia intendersi per “religione” nella parte appositamente tagliata da Benedetto XVI. In realtà, lei non sfiora neppure la tesi di fondo da me sostenuta, ma per tre quarti della sua pur breve letterina mi rimanda a quella opposta, che neanche a farlo apposta è quella sostenuta da qualsiasi vaticanista italiano che abbia intenzione di poter continuare a scrivere su un giornale italiano e da qualsiasi storico italiano di cose vaticane che ci tenga a poter aver accesso agli archivi. Non mi stupisco che sia anche la sua: ho letto i suoi libri e li ho trovati adeguatamente appiattiti agli interessi della Santa Sede.
Oltre ad aprirmi a ventaglio la coda dei suoi libri, lei si limita a riprendermi perché non ho specificato che lei ha avallato l’ennesimo, piccolo, miserabile trucchetto di Sua Santità sul suo blog, non su il Giornale. Non ho capito cosa cambi: non è sempre lei ad averlo avallato?
Un vaticanista serio non dovrebbe spiegarci i trucchetti? Quello che Benedetto XVI ha fatto usando la frase del cardinal Costantini, gentile Andrea Tornielli, lei non ce l’ha spiegato: né sul suo blog, né su il Giornale. E giacché me ne dà ogni diritto, le rinnovo il mio sentito.
Cordialmente, come si dice.

lunedì 19 luglio 2010

Una rotonda sul mare / 11



Migliorare la tosse, Martini!


“Buon giorno. Questa è «Stampa & Regime», la rassegna stampa di Radio Radicale. I giornali sono quelli di lunedì 19 luglio. Paolo Martini in studio, il direttore Bordin torna domani…”.

Non male, davvero non male la rassegna stampa di Martini, che a un certo punto butta lì pure due colpetti di tosse. Tuttavia è una tosse senz’anima, senza carattere, meccanica, totalmente inespressiva.

Solo un nodoso randello


Il 12 aprile di quest’anno la Santa Sede ha reso pubblico un Regolamento (Guida alla comprensione dei procedimenti adottati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nei casi di abuso sessuale su minori) che all’inizio non s’era capito bene se fosse stato scritto nel 2001 o nel 2003 (così poi ha chiarito la Santa Sede), ma che in chiusa citava un Benedetto XVI che non si sarebbe avuto prima del 2005 (se almeno confezionassero con più cura i loro falsi, ci sentiremmo meno offesi).
Questo Regolamento aveva lo scopo di guidare i vescovi nell’applicazione di quanto la De delictis gravioribus (2001) veniva a correggere della Crimen sollicitationis (1922, 1962) per le prerogative che in tale ambito Giovanni Paolo II riconosceva alla Congregazione per la Dottrina della Fede col motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (2001).
Semplificando, potremmo dire: fino al 2001 è in vigore la Crimen sollicitationis, dal 2001 in poi è in vigore la De delictis gravioribus, che viene dotata di una Guida nel 2003 o – più verosimilmente, per quanto detto – dopo il 2005; ma non basta, perché nel 2010 – siamo al 15 luglio scorso – vengono rese pubbliche delle Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis».

Penso sia ragionevole dedurne che fino al 2001 la Chiesa di Roma ha avuto le idee salde e chiare sul come trattare i casi di abusi sessuali su minori da parte del suo clero, perché trattarli com’erano stati trattati fin lì non aveva dato problemi; dal 2001 in poi, chiamata a rendere conto del fatto che avesse trattato il problema cercando sempre e solo il proprio tornaconto, la Chiesa di Roma non trova pace e, pur di non dover rendere conto del passato ad altri che a se stessa, non smette di precisare, rettificare, modificare, come se il passato potesse essere cancellato dal presente.
Sappiamo quanto questo sia difficile: anche avendo a disposizione intere schiere di manipolatori della memoria, il passato emerge proprio dove non dovrebbe. Per esempio, quando le Modifiche alle «Normae de gravioribus delictis» portano gli anni di prescrizione da 10 a 20 (art. 7, §1): tenuto conto della permanenza degli effetti che un abuso sessuale su minore comporta per la vittima lungo tutto il corso della sua vita, volendo davvero star dalla parte del debole (che pare essere nelle nuove intenzioni della Santa Sede), perché non risolversi a un semplicissimo “prescrizione mai”? E cosa è accaduto perché ciò che nel 2001 poteva andare in prescrizione dopo 10 anni adesso deve andarvi dopo 20? È cambiata la natura del crimine? Non risulta.

Risulta, invece, che nel Sacramentorum sanctitatis tutela c’è scritto: “Si deve rammentare che tale Istruzione [la Crimen sollicitationis] aveva forza di legge” (2001); e oggi una Introduzione storica a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede sostiene che quella Istruzione “non ha mai inteso rappresentare l’intera policy della Chiesa cattolica circa condotte sessuali improprie da parte del clero” (2010).
Con la prescrizione che da 10 sale a 20 anni (con ciò chiamando in causa la Chiesa di Roma per quanto le competeva prima del 2001), voilà, la Crimen sollicitationis non aveva forza di legge. Anzi, neppure dettava un indirizzo ai vari episcopati.
Solo un nodoso randello può essere un buon argomento su simili imbroglioni.

domenica 18 luglio 2010

Il "Martirio di San Lorenzo"



Qui sopra ho raccolto i dettagli di alcune opere di certa attribuzione al Caravaggio, tutti relativi al panneggio. Sottraendo il colore (A) e lo sfumato (B), è possibile considerarne gli sviluppi.


Si può fare analoga operazione col dettaglio del panneggio nel Martirio di San Lorenzo
  

che qualcuno ipotizza essere opera del Caravaggio, ma con tutta la buona volontà risulta difficile attribuirgli qualcosa del genere.


Lo sviluppo è rozzo e innaturale, ma soprattutto non ha alcunché di caravaggesco (e parliamo di una tela del periodo romano, quello della piena maturità e del pieno controllo del disegno e del colore). Può darsi che si tratti un “mutandone” aggiunto in epoca successiva, toccherà ai periti esprimersi, ma se quel telo sulle pudenda del santo è di chi ha dipinto il quadro, faccio personale fatica a crederlo uscito dal pennello del Caravaggio.
Rimane un’altra questione. Sintetizzerei così: il Martirio di San Lorenzo è “troppo” caravaggesco. Il santo ha lo stesso volto di uno dei personaggi (il terzo da sinistra) nel Concerto di giovani (1593), la sua espressione è in tutto simile a quella di Isacco del Sacrificio di Isacco (1598), la posa del braccio destro è perfetta copia del braccio destro di Oloferne in Giuditta e Oloferne (1599), ecc.
A naso, il Martirio di San Lorenzo non è di Caravaggio.

Immagini pornografiche di minori sotto i 14 anni


Gravius delictum è quello del chierico che acquisisca, detenga o divulghi imagina pornographica minorum infra aetatem quattuordecim annorum, però se turpe patrata. Insomma, bisogna dimostrare che il fine sia proprio la libidine, ma vallo dimostrare, e che il minore non abbia 14 anni + 1 giorno, ma vallo a escludere. Il punto di cui all’art. 6, §1, 2° delle Normae è solo una presa per il culo.


Patro


Voce attiva di patior (soffro, sopporto, subisco), patro può essere tradotto con compiere, eseguire, realizzare – più o meno come perpetro (voce attiva di perpetior) – ed è usato per lo più in formule di carattere legale (patro promissum, patro iusiurandum e simili), a rammentarci di quel magistrato (pater patrator) che ufficializzava gli impegni sottoscritti in un atto pubblico. Non stupisce, dunque, trovare patro in due punti delle Normae de gravioribus delictis. Tuttavia, in entrambi i casi, il verbo è usato per esprimere il compimento di delicta.

- Art. 6, §2: “Clericus qui delicta de quibus in §1 patraverit…” (“Il chierico che compie [abbia compiuto] i delitti di cui al §1…”). Qui, il patratum è qualcosa di illegale e il patrator perde senza dubbio la dignità del magistrato.
- Lo stesso in art. 6, §1, 2°: [Delicta graviora contra mores (…) sunt] comparatio vel detentio vel divulgatio imaginum pornographicarum minorum infra aetatem quattuordecim annorum quovis modo et quolibet instrumento a clerico turpe patrata” ([I delitti più gravi contro i costumi (…) sono] l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i 14 anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento”).

È chiaro che questo patrare mal si adatti a quello del pater patrator: dobbiamo cercare il verbo in altri contesti, possibilmente turpi. Arriviamo così al “coitum patrare” di alcune scritte murali di franco contenuto osceno (Ostia, I-II sec. d.C.). Pare, insomma, che il latino usato dalla Curia vada ispirandosi a modelli linguistici di infimo livello.

sabato 17 luglio 2010

Buone notizie sul fronte dell'ecumenismo


Vescovo luterano accusato di aver coperto abusi sessuali su minori. Cattolici e protestanti sempre più vicini.

L'evento


L’evento cosiddetto civile non è mai sufficientemente comprensibile dal suo interno, perché lì dentro se ne fraintende quasi sempre la causa e non si riesce quasi mai a calcolarne l’effetto. Lì dentro si può arrivare a comprendere che l’evento è in atto: donde venga, dove vada e cosa esattamente sia, no. Nemmeno è garantito che, al centro dell’evento, lo si comprenda di più che standone ai margini: al centro del fascio strizza, in periferia flette, ma il tutto potrebbe essere torsione, e il tutto non lo cogli dal di dentro, dove puoi cogliere solo tutti i gradi della flessione o dello strizzamento.
Insomma, per dirla alla carlona, se fossimo alla vigilia di una guerra civile, chi potrebbe dire di averlo compreso?

Quando sfoglio vecchie riviste, mi assale sempre lo stesso stupore: l’evento sta lì e nessuno lo vede per quello che è. La guerra civile, per esempio, non sembra mai tale. Francisco Franco, per esempio, anzi, no, lasciamo stare le vecchie riviste, veniamo a tempi più recenti: Thaksin Shinawatra. Era un anno prima che scoppiassero i sanguinosi scontri di questo maggio tra camicie rosse ed esercito:

“La Thailandia non riesce a liberarsi di Thaksin Shinawatra, anzi, pare che i suoi sostenitori siano in tanti e disposti a tutto pur di rimetterlo dov’era prima del settembre 2006. Lo dimostrano i disordini recentemente scoppiati a Bangkok e che hanno costretto il governo ad annullare un importante vertice dei paesi del Sudest asiatico programmato in questi giorni. Aveva vinto le elezioni nel febbraio 2005, Shinawatra, e con una vittoria schiacciante del suo partito, il Thai Rak Thai, sul maggiore partito di opposizione, il Phak Prachathipat. Erano corse voci di brogli, ma ciò che aveva dato la vittoria a Shinawatra – lamentavano i suoi avversari – era stata la martellante pubblicità elettorale sulle tv e i giornali di sua proprietà, sfruttando la crisi abbattutasi sul paese dopo lo tsunami nel dicembre 2004 e mischiando paternalismo e populismo in un sapiente mix assai gradito all’elettorato thailandese, soprattutto al ceto medio. Era così tornato al governo, dopo esserne stato tenuto lontano per cinque anni. Nel 2001, infatti, subito dopo aver vinto le elezioni politiche, era stato messo sotto accusa per eclatanti episodi di frode, evasione fiscale, corruzione e nepotismo, in franco conflitto d’interessi per la carica rivestita, e messo al bando dalla vita politica. Aveva meditato la rivincita e l’aveva avuta, anche in forza dell’essere l’uomo più ricco della Thailandia (media, banche, assicurazioni, perfino una squadra di calcio), ma i suoi avversari approfittarono che fosse in viaggio all’estero e con un colpo di mano lo rimossero e gli sciolsero il partito di cui era proprietario più che leader, costringendolo all’esilio. Lo si ama o lo si odia, Shinawatra, non si può far altro. Una cosa è certa: corretti o no che siano, i suoi metodi gli procurano un seguito di fedeli disposti ad affrontare lo scontro violento e a portare il paese alla paralisi socioeconomica, eventualmente anche alla guerra civile. Non si può far altro che aspettare che muoia, ma ha solo 60 anni. E poi, quando un paese vuole un Shinawatra, sa rimpiazzarlo. Il problema, presumibilmente, è la Thailandia”.

L’ho scritto pensando a Il caimano di Nanni Moretti: il regista aveva centrato l’evento thailandese.
Donde venga l’evento, vabbe’, ma dove andrebbe? Mi è capitato sotto gli occhi ieri sera: “Mentre le camicie rosse morivano in suo nome a Bangkok, Thaksin faceva shopping a Parigi. Un fotografo lo ha immortalato con le borse della spesa in mano sugli ChampsElysées. I morti nelle violenze di mercoledì sono stati 14” (l’Unità, 21.5.2010).

Un pizzino di Bertone



Gianni Maria Vian ci offre brani tratti dall’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d’Italia, Il Mulino 2010) con una affettuosa marchetta su L’Osservatore Romano (17.7.2010), e questo va bene, perché la marchetta è ubiquitaria, tutto il mondo è marchetta, la marchetta è l’anima del commercio, eccetera. Va bene pure Ernesto Galli della Loggia come autore, mancherebbe, abbiamo letto di tutto, anche di peggio. Quello che non va bene, e ci sconsiglia l’acquisto del libro, invece, è proprio il libro: miserie dello storicismo, però assai piccole.
“La marcia verso il potere del fascismo iniziò […] nella primavera del 1915. Fu allora che, per la prima volta, un certo mondo del sovversivismo italiano fatto di anarco-sindacalisti, repubblicani, intellettuali radicali, artisti più o meno déraciné, allacciò di fatto intensi rapporti di collaborazione con importanti settori dell’establishment (per esempio il Corriere della Sera di Luigi Albertini) e con i circoli governativi. I modi dell’urbanità e del galantomismo che fino a quel momento avevano dominato il campo che si chiamava «costituzionale» cominciarono a cedere il passo alla spregiudicatezza, all’uso pubblico dell’insinuazione e delle contumelie, alla convinzione terribile che il fine giustifica i mezzi. Una sbrigatività compiaciutamente plebea e una febbrile eccitazione intellettuale si fecero rapidamente largo in ambienti fin lì soliti ad apprezzare studio e ponderatezza”.
Capito quand’è che il Corriere della Sera perde l’aplomb e mi diventa un giornalaccio che rincorre la stampa giacobina, forcaiola e radical-chic? Capito, soprattutto, a che porta tutto questo? Rimettete il Corriere della Sera in mano a qualcuno di apprezzabile studio e ponderatezza, così romperete il legame tra importanti settori dell’establishment e un certo mondo del sovversivismo italiano. È un legame che genera eccitazione plebea, disordine e poi fascismo (non necessariamente nell’ordine). C’è qualcuno che vuol fare il direttore del Corriere della Sera a questo modo per evitarci derive autoritarie? Alzi la mano.

Il fascismo è un evergreen, ma le cover vengono sempre peggio. Prendete Mussolini: “personalità” dalla “leadership carismatica”, “impasto di antico e di moderno”, “ad esempio, di passione per la velocità, per le automobili, per il volo, e insieme di valori maschilistico-familiari della più schietta tradizione italo-romagnola; di retorica carducciana rétro, a base di «colli fatali di Roma», ma anche di simpatia per il modernismo futuristico o per l’architettura razionalistica”. Oggi? Chi vi viene in mente, oggi, che possa fare il paio? L’impasto tra il pezzente mostruosamente arricchito e il narcisista prodigo di sentimento? Tra il vulcano artificiale e la tomba neo-egizia? Tra il “mi consenta” e il “ghe pensi mi”? O l’anello di congiunzione tra famiglia e cricca?
È chiaro che sto parlando di un libro che non ho letto, perciò nell’incipit ho usato il noi. Tuttavia sto parlando di ciò che sicuramente sta in questo libro di Galli della Loggia, che poi è quanto scelto da Vian per la réclame: il professore usa la storia come un piede di porco e Vian gli fa da palo, mi basta questo per decidere che non lo comprerò. Non è un libro di storia, è un pizzino di Bertone agli azionisti del Corriere della Sera.

venerdì 16 luglio 2010

Non ci siamo, non ci siamo ancora


La Crimen sollicitationis fu licenziata solo in latino dal Sant’Uffizio, sia nella prima edizione (1922) che nella seconda (1962), ma soprattutto era “servanda diligenter in archivo secreto curiae” “non pubblicanda nec ullis commentariis augenda”. Guai a farne sapere qualcosa ai laici, insomma, e infatti siamo venuti a sapere della sua esistenza solo nel 2001. La si citava nella De delictis gravioribus, licenziata proprio quell’anno dal Sant’Uffizio (intanto divenuto Congregazione per la Dottrina per la Fede), anche stavolta solo in latino, indirizzata esclusivamente agli “interesse habentes”.
Prima di ogni altra differenza con le Normae de gravioribus delictis, licenziate ieri, e col Regolamento del 2003 (reso pubblico solo nel marzo di quest’anno), c’è che stavolta dalla Santa Sede è licenziata versione anche in italiano. In più, le Normae sono strombazzate urbi et orbi, subito, mentre il Regolamento ha dovuto aspettare 7 anni e la Crimen sollicitationis ne ha dovuti aspettare 79. Potremmo dire che la riservatezza sulle circolari interne va drasticamente riducendosi, col tempo.
Rimane, invece, la consegna di quel segreto pontificio – qui, nelle Normae, all’art. 30, §1 – che da sempre è raccomandato sulle cause ecclesiastiche riguardanti chierici che hanno commesso abusi su minori, ma negli ultimi tempi con qualche pur vano sforzo di dimostrarlo a tutela della vittima, che nella Crimen sollicitationis e nella De delictis gravioribus neanche era dichiarato. Come dire che una certa filosofia di vita è conservata.

Tutti in queste ore stanno sottolineando le novità introdotte, che sarebbe ingeneroso negare, ma ingenuo credere possano risolvere il problema per come lo affrontano. Lo affrontano malissimo, come sempre è stato fatto, perché anche in queste Normae stuprare un bambino rimane “delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni” (art. 6, §1, 1°): il delitto non è “contro il minore”, ma “contro il sesto comandamento”; il chierico non lo commette “contro il minore”, ma “con” lui.
La parte lesa è il bambino solo in quanto occasione del delitto contro il Decalogo. Può sembrare niente, ma è tutto: è come chiedere perdono a Dio dei crimini commessi contro gli ebrei, ma non agli ebrei (e infatti così è stato nel 2000).
Nel fondo della sua filosofia di vita, il chierico continua a far fatica ad ammettere che debba dar conto al laico del danno che ha procurato al laico, ma pensa che, regolata la faccenda con Dio, il più è fatto. Diciamo che non ammette penitenza laica, se non come forma degradata della Penitenza.
Nel reato commesso da un chierico, Dio è chiamato a triangolare, cosa che risulta utile al chierico, perché ministro di Dio. È tutto un altro modo di accettare il giudizio, e però il solito, quello cui il chierico è convinto di aver diritto. Non ci siamo, non ci siamo ancora.

Carinissima



giovedì 15 luglio 2010

Don't laugh at us, Argentina

Primo paese sudamericano a legalizzare i matrimoni gay.

Una rotonda sul mare / 10


[...]


Prendetevela con De Mita


Degli italiani eletti al Parlamento europeo è Magdi Cristiano Allam l’ultimo nella classifica delle presenze a Strasburgo (votewatch.eu, 24.6.2010 – via Internazionale, XVII/854, pag. 3), al 729° posto nella classifica generale dei 736, presente solo la metà delle volte che ci dovrebbe essere. Ruba buona parte del suo stipendio di parlamentare europeo? Tradisce la fiducia espressagli dagli elettori? Nulla di tutto questo, fatemi ergere a suo difensore.
L’avete già scordato il nome dato alla sua lista? Era Io amo l’Italia: in trasparenza si poteva leggere Odio allontanarmene. Insomma, già al momento della candidatura l’aveva fatto presente ai suoi elettori: nessun tradimento al patto di fiducia.
Anche sull’accusa di furto vi consiglierei cautela: solo in apparenza trascura il lavoro per il quale è pagato, perché in favore dell’Italia in Europa, e in favore dell’Europa in toto, anche un rosario a giorni alterni può fare assai di più che cento presenze in aula. Chi vi consente di escludere che i suoi elettori gradiscano?

Se proprio sentite il bisogno di indignarvi, prendetevela con gli altri assenteisti. Debora Serracchiani, per esempio? Sì, è assente una volta su tre e chissà come gireranno le palle ai suoi 144.558 elettori, ma lasciate in pace pure lei: è giustificata, scrive su Il Post, la cosa le piglierà un certo impegno.
Se proprio sentite il bisogno di indignarvi, prendetevela Ciriaco De Mita, assente a Strasburgo più o meno in egual misura. Ecco, prendetevela con De Mita, ché nessuno verrà a contestarvi l’indignazione.

mercoledì 14 luglio 2010

Istinto alla coazione identitaria?

Paul Bloom per The New York Times Magazine (in italiano sull’ultimo numero di Internazionale): “Molti studi hanno dimostrato che i bambini mantengono le loro preferenze all’interno del gruppo: quelli di tre mesi preferiscono i visi della razza che gli è più familiare a quelli delle altre. I bambini di undici mesi preferiscono le persone che condividono i loro gusti alimentari e si aspettano che siano più buone di quelle che hanno gusti diversi. Quelli di dodici mesi preferiscono imparare da qualcuno che parla la loro stessa lingua piuttosto che da qualcuno che parla una lingua straniera. E da altri studi è emerso che quando sono divisi in gruppi, anche in base a criteri arbitrari come il colore della maglietta, i bambini favoriscono il loro gruppo in tutti i loro atteggiamenti e comportamenti”.

Conformisti, gregari, tendenzialmente xenofobi e pure un po’ razzisti? Termini impropri, trattandosi di bambini: si può parlare di conformismo, di carattere gregario e di coazione identitaria quando i suddetti atteggiamenti e comportamenti si riscontrano in adulti che sono fissati o regrediti a quel livello di apprendimento, ma come considerarli tali nei bambini?
Bloom ritiene che non si debbano considerare come espressione di un elemento biologico innato, ma comunque “frutto della cultura”. Non lo scrive esplicitamente ma penso faccia riferimento a quelle precocissime acquisizioni che il bambino ricava dall’ambiente che lo circonda attraverso un adattamento mimetico, finalizzato ai benefici che si traggono da una risposta congrua alle aspettative che l’ambiente ripone nel soggetto: il pregiudizio che tanti fissati e regressi amano credere sia istintivo, e per ciò stesso “biologico”, in realtà si apprende.

Se così non fosse, dovremmo ritenere che nel bambino – in una matrice psichica umana ipotizzabile come primigenia e che nel bambino sarebbe ancora intatta – ci siano le “naturali” ragioni di razzismo, xenofobia, ecc. E tuttavia i bambini “preferiscono i visi della razza che gli è più familiare a quelli delle altre [e] le persone che condividono i loro gusti alimentari [e] favoriscono il loro gruppo in tutti i loro atteggiamenti e comportamenti”, non già perché nel bambino riposerebbe una “natura” incontaminata dalla “cultura”, ma perché in lui l’adattamento mimetico assume forma di atavismo. La tragedia è quando non si accorgono che sono diventati adulti.

Vertical

Vorrei riportare qui da un post di Luca Massaro (vi consiglio di leggerlo per intero) una delle cose più belle che mi sia mai capitato di leggere su un blog: “Quanto ci sia riuscito o ci stia riuscendo non lo so. So solo che per me è importante essere qui. Mi fa sentire bene. Vivo. Mi estende. L’io esteso. Disteso. Nel senso che mi distende essere un blogger, un umbratile hombre vertical”.
Se il sano impulso a bloggare sta in questo, e io lo credo, tutto il resto (blog collettivi, aggregatori, nanopublishing & affini) non sono blogging. Con un altro campo di estensione a disposizione (scrittori, giornalisti & affini) si sta a buon diritto in rete, mancherebbe. Ma non si fa blogging: si fa – legittimamente, sia chiaro – una cosa obliqua, mai veramente vertical, e mai abbastanza umbratile.

Clic




“La vita è uno stato mentale”
Georges Ivanovič Gurdjieff

Sul giornale di Giuliano Ferrara è pubblicato un ritratto di Massimo Bordin che non trascura un cenno al suo tabagismo e “all’antiproibizionismo che lo portò a far sentire in diretta il «clic» dell’accendino in piena campagna italiana sui divieti di fumo nei locali. Bordin disse qualcosa come: e io mi accendo una sigaretta” (Il Foglio, 14.7.2010). Bene, penso che questo dettaglio sia assai utile alla comprensione dell’uomo che troppo spesso, e anche stavolta – stavolta con Marianna Rizzini – è ridotto a stereotipo e frusta aneddotica.
Roba benevola, in genere, o almeno non troppo malevola (che già è molto), e così è pure per questo ritratto che Il Foglio ci offre di Bordin. Tuttavia credo che tutto il carico di Trotzki e Pannella non metta e non tolga uno iota a un uomo che: fuma; ritiene ingiusto l’assoluto divieto di fumo nei locali pubblici (perché, rammentiamolo, è di questo che si trattava); e accende lo stesso la sua sigaretta; e fuma; e si autodenuncia.
Sarò un inguaribile romantico, ma ritengo tutto questo bello e nobile, giusto e logico.

Agli antipodi di questo genere d’uomo c’è quello che: fuma (qui stiamo parlando di Ferrara); e ritiene ingiusto il divieto (si legga Il Foglio della prima settimana del gennaio 2005); ma, quando il divieto è fatto legge, dichiara solennemente che la legge va rispettata, anche se ingiusta, sempre, per una sua intrinseca rappresentazione del Potere (non ha importanza se di un Dio o di un Principe, tanto per uomini del genere fa lo stesso), e che, per quanto lo riguarda, ogni tanto un bel tabù non guasta: non fumerà mai più in locali pubblici – dichiara – a cominciare addirittura dalla sua redazione (“Qui sono spariti i portacenere, la legge è legge [...] Siamo in piena ed esemplare astinenza”Il Foglio, 12.1.2005); e poi fuma di nascosto, come un liceale al cesso.
Si ascoltino le trasmissioni a cura della redazione de Il Foglio ospitate da Radio Radicale nel corso della campagna referendaria sulla legge 40 (le trovate su radioradicale.it): dalla puntata del 12 maggio 2005 fino alla fine, Ferrara fa sentire innumerevoli volte il «clic» dell’accendino. E non erano passati neanche quattro mesi. E mai una volta qualcosa come: e io mi accendo una sigaretta.

martedì 13 luglio 2010

Nessuna persona perbene tanto onesta?

Volendo commentare l’intervista che don Luigi Verzé ha concesso a Claudio Sabelli Fioretti (La Stampa, 12.7.2010) è arduo – fino all’impossibile – decidere da cosa cominciare.
Si tratta di un mentecatto che straparla, facendo cumulo di spropositi e sfoggio di ignoranza. Può darsi che da giovane avesse quel tanto di affascinante ambiguità da sembrare (a chi proprio volesse) uno spirito visionario ed eroico, un carisma sprizzato dalla vena più ardente della Chiesa, un riformatore del più genuino protocristianesimo, che però incanta politici, fornitori e clienti. E può darsi che da giovane fosse perfino un profetico preconscio della Chiesa postmoderna come migliore traduzione della tradizione. Può darsi. Fatto sta che, oggi, meriterebbe il trattamento sanitario obbligatorio.
Come il Re che se va nudo pensando di indossare abiti di sopraffina qualità e sublime taglio, don Verzé va avanti e indietro nell’intervista, mostrando tutto il ventaglio sintomatologico della classica dementia: gli hanno fatto credere di essere un alter Christus – son cose che ti mettono in testa fin dal seminario – e in quegli abiti ormai ci sta tanto comodo da potersi permettere affermazioni disinvolte, come grattarsi i coglioni con una mano in tasca.
Tasca trasparente: “Quando mi impediscono di fare una cosa che Dio mi chiede, non c’è Santo che mi tenga. Prima o poi la persona che mi impedisce di fare quella cosa sparisce. […] Se io fossi Papa non farei il monarca, ma tutte le mattine starei davanti a Gesù Cristo a pensare. E la Chiesa? Che si arrangino quelli della Segreteria di Stato. […] Dio, creatore, insuffla direttamente l’anima nello zigote. Queste cose le ho imparate studiando Aristotele, Socrate e Platone. […] Abbiamo il terreno. Stiamo cercando i soldini”.
Nessuna persona perbene tanto onesta da gridare: “Il Re è nudo e don Verzé è matto”?

Off topic



Quando in prima stesura (1992) nel Catechismo fu scritto che “la Chiesa permette la cremazione, se tale scelta non mette in questione la fede nella risurrezione dei corpi” (2301), la pratica in Italia era diffusa nella misura dell’1,4%, con 7.471 cremazioni su circa 533.000 decessi. Il permesso non fu ritirato nella stesura definitiva del 1997, anno in cui si ebbero 20.681 cremazioni su 564.000, con un incremento percentuale al 3,7%. Dieci anni dopo, nel 2007, la percentuale era salita a circa il 10%, con 56.000 cremazioni su 562.000 decessi. Dev’esserci stato un ulteriore sensibile incremento della pratica, perché la Chiesa comincia a manifestare serie perplessità sulla cremazione, almeno stando a quanto si legge in un comunicato ufficiale dell’Ordinario militare per l’Italia, monsignor Vincenzo Pelvi.
Si lamenta che “la cultura del cimitero e della tomba attraversa mutamenti e ricerca di nuove forme che, a volte, sembrano distanti da un rapporto con i defunti cristianamente motivato” e che parrebbero voler tendere a “mimetizzare la morte, perché il suo pensiero non turbi”, favorendo “un approccio evasivo dell’esistenza”, con quanto di deleterio può tradursi a danno dell’anima. 
Certo, al momento rimane stabilito che “la Chiesa non riprova” la cremazione del cadavere “se non quando è voluta in disprezzo della fede, cioè quando si intende con questo gesto postulare il nulla a cui verrebbe ricondotto l’essere umano”, ma Sua Eccellenza – qui sta la novità – aggiunge qualcosa che non c’è nel Catechismo, se non a volerla immaginare come sottintesa: “pur preferendo la sepoltura tradizionale”. Attinge – guarda un po’ – al Codice di Diritto Canonico (1983), già richiamato sul punto da un documento della Commissione per la Liturgia, che nel 2007 – l’anno che segnò un sensibile aumento del numero delle cremazioni in Italia – raccomandava “vivamente” l’inumazione del cadavere. Sembrerebbe che il magistero morale, almeno dal 2007 in poi, abbia bisogno della sorveglianza giuridica.
Tutto questo, ovviamente, avrebbe potuto esporre il fianco a critiche di vario genere – prima fra tutte, quella di confondere le idee al gregge, consentendo, ma sconsigliando – sicché fu necessario trovare un mezzuccio: la cremazione era ammessa, ma non dispersione delle ceneri. Il fatto è che, a cremazione avvenuta, i parenti del defunto possono disporre delle ceneri come meglio credono, quando la dispersione delle stesse non è già delle volontà del morto. E allora ecco Sua Eccellenza con una perla di saggezza tipicamente cattolica: “A nessuno sfugge che lo spargimento delle ceneri nelle acque di mari, fiumi e laghi o sepolture anonime rendono più difficile il ricordo dei morti, estinguendolo anzitempo”. Se disperdete le ceneri di vostro padre, correte il rischio di dimenticarlo, no?

Giorni fa, un lettore (Ale) mi ha lasciato off topic fra i commenti una domanda che mi sono sentito rivolgere spesso: “Luigi, in tutta franchezza, ma perché ti interessi tanto di un relitto nevrotico quale la Chiesa vaticana? C’è un motivo prepolitico, psicoanalitico? Mi interesserebbe saperlo”. Aspettavo qualcosa come il documento di Sua Eccellenza per potergli rispondere, perché per spiegarsi non c’è niente di meglio che un esempio. Ma per la risposta c’è tempo. 

Comincerei col dire che il Codice di Diritto Canonico del 1917 vietava tout court la cremazione: in essa si ravvisava un inequivocabile intento di negazione dell’immortalità dell’anima e della resurrezione della carne. Un decreto del Sant’Uffizio del 1926 la definisce “pratica empia, scandalosa e gravemente illecita”. Bisognerà aspettare il 1963 e una apposita Bolla pontificia perché la cremazione sia consentita giacché “non impedisce all’onnipotenza divina di ricostruire [sic!] il corpo”. Sì, ma nel 1963 la percentuale delle cremazioni in Italia si aggira intorno allo 0,04%: la cosa è tollerabile, non fa scandalo e soprattutto non mette in pericolo il flusso di denaro che da secoli e secoli arriva nelle tasche dei preti per la cura liturgica di un inumato.
Incenerito, il defunto rende pochissimo alla Chiesa, mentre inumato necessita di attenzioni che si possono (e in larga misura si debbono) delegare al clero. Una volta disperse le ceneri, l’estinto riposa nei cuori dei suoi cari: a non voler essere considerati degli insensibili, una tomba richiede mille attenzioni, molte delle quali a pagamento, non poche delle quali a beneficio del clero e del suo indotto.

C’è qualcosa di così tremendamente schifoso nella Chiesa, caro Ale, che merita riflessione, studio, diagnosi. Non si può liquidare il cattolicesimo con un’alzata di spalle o un cenno di disgusto: non si tratta di un “relitto nevrotico”, come dici tu, ma di un sistema paranoico, di una immensa costruzione fatta di sopraffazione, violenza, mistificazione, ipocrisia, ricatto, minaccia, stupro.
Ci vorranno almeno altri due secoli, salvo colpi di coda, per vedere putrefatto questo mostro. Mi scoccia starmene con le mani in mano a guardare.   

lunedì 12 luglio 2010

Una rotonda sul mare / 9



Collegamenti intergalattici

a Mauro Suttora

La lettera con quale Massimo Bordin dà “ufficialmente” le sue irrevocabili dimissioni dalla direzione di Radio Radicale è datata 9 luglio 2010 ed è spedita alle 16:41:54, così si legge in capo alla versione diffusa da radicali.it. Mi aveva lasciato un po’ perplesso il fatto che Christian Rocca annunciasse come “ufficiali” quelle dimissioni con un post delle 16:30:18, una dozzina di minuti prima. Voi che avreste fatto? Io ho chiamato Bordin e gli ho chiesto come fosse possibile.
Ho trovato perplesso pure lui, almeno all’inizio. Poi la cosa mi si è chiarita, anche se solo in parte, perché resto assai confuso su ciò che debba intendersi per “ufficiale”.

Il testo della lettera al CdR non era stato spedito per posta elettronica, ma consegnato a mano nella tarda mattinata del 9 luglio a un rappresentante del CdR perché lo trasmettesse a Paolo Chiarielli, amministratore delegato del Centro Produzioni R.R., e dunque quel 16:41:54 deve intendersi come l’ora in cui quel testo è stato inoltrato dal redattore a Chiarelli o da Chiarelli all’editore, e tuttavia una dozzina di minuti dopo che la notizia fosse data come “ufficiale” da Camillo.
La cronologia degli eventi ci consente di escludere che Camillo abbia avuto notizia di quella lettera dall’editore e Bordin esclude che possa essere stata inoltrata ad altri che a chi di dovere: se ne deduce che, quando dà per “ufficiali” le dimissioni di Bordin, Rocca non abbia ancora letto il testo della lettera (l’avrebbe copia-incollato nel suo post, non avrebbe resistito), ma sappia che è in viaggio; se ne dovrebbe dedurre che l’“ufficialità” delle dimissioni non fosse data da quella lettera.

Anche voi confusi, vero? E allora cerchiamo di tirare i fili della trama: le dimissioni erano “ufficiali” prima di essere “ufficiali”. Se diamo ascolto a ciò che Pannella ha detto ieri, in questo non v’è contraddizione: “Le cose sono andate in questo modo. Mentre eravamo di ritorno da L’Aquila [nella serata di lunedì 5 luglio], a un certo punto Chiarelli mi dice: «Guarda che Massimo mi ha detto che lui – dopodomani, m’ha detto una cosa del genere – renderà note le sue dimissioni al CdR e le renderà pubbliche». [Bordin conferma, ma smentisce quel «le renderà pubbliche».] Dopo aver parlato con me, Chiarelli ti ha chiesto se avresti potuto rimandare di due o tre giorni, cosa che tu hai fatto”.
Bordin conferma e chiarisce: “C’è una norma contrattuale o regolamentare, non so com’è, che obbliga comunque il direttore a dare conto al CdR. Quindi io, a un certo punto, ho fatto presente a Chiarelli che questo era un obbligo al quale non potevo sottrarmi […] E allora io ho fatto una cosa molto semplice: ho scritto una cosa – perché è meglio lasciare per iscritto queste cose – e l’ho data al rappresentante del CdR…”. E qui abbiamo conferma del fatto che la lettera non sia stata spedita per posta elettronica.

In quale punto della catena cronologica degli eventi qui ricostruiti può darsi l’“ufficialità” delle dimissioni? Fin dal momento in cui Chiarelli comunica a Pannella che Bordin sta per scrivere la sua lettera di dimissioni (lunedì 5 luglio) che però non firmerà prima di giovedì 8 o venerdì 9, anzi, dal momento in cui Pannella ne dà notizia ad alcuni dirigenti radicali nel corso di una riunione tenutasi nei giorni successivi al rientro da L’Aquila. E dunque c’è solo da chiarire il percorso da questa riunione a Rocca, meglio se a ritroso.
Tanto per cominciare, a Rocca può averlo detto qualcuno che deve averlo detto pure ad Alessandro Trocino del Corriere della Sera e a Marianna Rizzini de Il Foglio, che già nelle ore antecedenti alla materiale stesura della lettera avevano cercato di contattare Bordin, presumibilmente per trovare riscontro a ciò che avevano appreso – da chi e tramite chi? Impossibile averne la conferma, ma triangolando si arriverebbe a un altro ex de Il Foglio, la cui moglie è assai amica di almeno due dei dirigenti radicali presenti a quella riunione: se così fosse, tutti i pezzi starebbero in ordine. Non avremmo chiarito cosa debba intendersi per “ufficialità” nella galassia radicale, questo è vero, ma sarebbero più chiari certi collegamenti intergalattici.

Incipit


Noi polpi subiamo l’ignoranza e la crudeltà di voi umani da millenni, salvo rarissime eccezioni (Alain Prochiantz, À quoi pensent les calamars?, Éd. Odile Jacob 1997). Abbiamo un sistema nervoso di una certa importanza (più sofisticato di quello di un embrione umano al terzo mese, per esempio), ma scontiamo la colpa di non avere nulla di antropomorfo (siamo meno antropomorfi di una cretinissima formica) e siamo trattati peggio delle vongole. Eloquente è il caso di mio zio. Se a dare i risultati delle partite dei Mondiali di calcio fosse stato un cavallo, quale tifoso della squadra data per perdente si sarebbe azzardato a minacciarlo di ridurlo a bistecche? Bene, non c’è stato un solo articolo scritto su zio Paul che rinunciasse almeno all’allusione di lessarlo o grigliarlo. Per gli animali sacrificati dagli aruspici per leggerne le viscere si aveva più rispetto, non per zio Paul.

[...]

[...]

“Il sesso rende gli uomini uguali agli altri animali. Sono un uomo che sostiene determinati principi morali. Il celibato è qualcosa che mi distingue dai comuni animali”. L’ha detto il Dalai Lama, nel corso di un’intervista concessa a Bild, ripresa da un articolo apparso su La Stampa del 7 luglio, che Giuseppe Di Leo così commenta nella sua consueta Rassegna stampa vaticana: “Chissà quali reazioni ci sarebbero state se queste frasi le avesse pronunciate Papa Ratzinger” (Radio Radicale, 11.7.2010).
Posso rispondere per me solo. Avrei detto: “Papa Ratzinger è stronzo come il Dalai Lama”.

Kleros

Nel mettere un po’ d’ordine sugli scaffali – impossibile, ma tentar non nuoce, anzi – mi sono reso conto che negli ultimi cinque anni sono stati pubblicati in Italia non meno di trenta volumi nei quali almeno un capitolo è dedicato a ciò che è “laico” e ho constatato che ogni autore ha considerato irrinunciabile un preliminare approccio etimologico su ciò che in principio era “laos”, per poi passare a considerare l’evoluzione del termine in relazione ai processi storici e ai contesti culturali, arrivando – senza eccezioni – a intrattenersi sul termine “laicismo”. Di là dai significati che ciascun autore arriva a dare a ciò che correttamente andrebbe da intendersi per “laico” – si va da chi non vede troppa differenza tra “laicità” e “laicismo” (e qui concordo), fino al paradosso del far di “laico” un sinonimo di “filoclericale” (e qui rido) – rilevo in tutti una mancanza di attenzione a ciò che è “clericale”: nessuno spiega l’etimo di “kleros”, nessuno s’intrattiene su ciò che si è inteso e si intende per “clero” e, quando si arriva a parlare di “clericalismo”, tutti danno per scontato che si tratti di una patologia della quale sarebbero affetti alcuni “laici” eccessivamente “filoclericali”. Penso dunque sia necessaria una riflessione analoga e parallela su ciò che troppo spesso – in realtà, sempre – si fa finta di non sapere.

“Kleros” viene da “kleroycheo”, che potremmo tradurre con “mi spetta per sorteggio” e che trae radice da “klao” (“spezzo”, “divido”, “spartisco”). Il termine nasce per la lottizzazione dei terreni, passando poi a indicare l’assegnazione degli migliori appezzamenti al ceto sacerdotale. Quando Tertulliano, intorno al 190, parla di “laici” e “chierici” è già chiara ogni cosa: il “clero” è quella casta che ha in sorte il diritto al boccone migliore, il “laico” prende quello che rimane e ringrazia. Prima di portare il suo pezzullo a pigliar farfalle, c’è chi scrive con buona sintesi: “Lo stato sacerdotale [è] lo stato di eccellenza del cristiano, del credente, anche quando non possa direttamente accedervi e deve rassegnarsi a essere un semplice laico […] Si dice, e credo sia vero, che si deve al cristianesimo la distinzione tra clero e laos-popolo, e dunque si porta a vanto del cristianesimo l’invenzione del laicato, della laicità. Penso sia un vanto ambiguo e ampiamente contestabile […] Lo stato laicale è il rango inferiore con il quale l’individuo sta nella chiesa. E tuttavia oggi, da tutte le parti, si invoca la crescita del dialogo tra credenti e laici, e se ne parla come di un dialogo tra pari” (Angiolo Bandinelli – Il Foglio, 8.7.2010).

Occorre ripigliare la Lettera dell’episcopato al clero del 25 marzo 1960, al punto nel quale il “laicismo” è definito come ribellione del buon “laico” allo stato di cose che prevede la sua subordinazione al “clero”: “Nell’edificazione della città terrestre [il laicista] intende prescindere completamente dai dettami della rivelazione cristiana, nega alla Chiesa una superiore missione spirituale orientatrice, illuminatrice, vivificatrice nell’ordine temporale”. Insomma, intende rimettere in discussione l’antica lottizzazione e gli antichi privilegi. “Praticamente si nega o si prescinde dal fatto storico della rivelazione”. Praticamente si nega la correttezza del sorteggio e il criterio dell’assegnazione dei privilegi. “Nella sua accezione più conseguente, [il laicismo] è una concezione della vita che è agli antipodi di quella cristiana”. Vorrebbe dire che non è possibile cristianesimo senza la subordinazione del popolo dei laici alla privilegiata casta dei chierici. E allora che c’è di scorretto nel sostenere che il cristianesimo è in radice incompatibile con la democrazia?