sabato 30 aprile 2011

Come fate a odiarlo?


La malattia mentale di Silvio Berlusconi è tutta squadernata nelle risposte che dà a chi gli chiede un giudizio su Giovanni Paolo II, per Tv7 (Raiuno, 29.4.2011): gli chiedono del beato, ma parla di sé.
Karol il Grande? Oh, certo, lui l’ha incontrato molte volte, anche prima di entrare in politica. Una volta gli ha portato la squadra del Milan e si sono intrattenuti a chiacchierare, da manager a manager.
Un’altra volta gli ha portato mamma Rosa (che è la mamma più speciale del mondo, non foss’altro perché ha messo al mondo lui) e Giovanni Paolo Magno ne è stato tanto bene impressionato che, quando si sono incontrati successivamente, gli ha sempre fatto la personale carineria di chiedergli “e come sta, la mamma?”.
Sì, ma il Papa, il Santo – che ne pensa, Silvio Berlusconi? Non pervenuto. Wojtyla è solo una foto nel suo album personale, trofeo di un certo prestigio, figurina che un bambino come-si-deve ti fa subito “ce l’ho!”.

Narcisismo maligno, senza dubbio. Mette in imbarazzo pure chi lo intervista, che gli porge un assist. Anzi, due.
Se non riusciamo a spremere niente sul Papa e sul Santo, vogliamo parlare delle sue grandi doti comunicative? Sì, era uno straordinario comunicatore. Perciò entrava molto bene in ogni casa. Grazie alla tv. A lasciar scorrere la spirale si finirebbe col dover ricordare che lui, Silvio Berlusconi, l’ha mandato tante volte in onda dalle sue emittenti, e partecipa di quel Grande Fenomeno Pop. Non si capisce se stordito dall’estasi o spossato dalla vertigine, chi lo intervista dà un ultimo cenno di vita: e il Wojtyla politico?
Gli offrono su un piatto d’argento la sua ghiottoneria preferita – l’anticomunismo – ma pure quella “ce l’ho!”: Giovanni Paolo II è santo, sì, ma al modo di Giovanni Battista, che annunciava la venuta dell’Unto, l’anticomunista per eccellenza – ancora, sempre – lui.

Come fate a odiarlo? Non vi rendete conto che è malato?



giovedì 28 aprile 2011

“Con quelle loro deliziose alette canard”





Peggio che a marzo



“April is the cruellest month…”
Thomas S. Eliot, The Waste Land

Un crollo dello share che solo in una occasione è stato inferiore al 5% (14.4.2011), ma che è arrivato anche a superare il 9% (27.4.2011): da un minimo di 625.000 a un massimo di 1.648.000 telespettatori in fuga ogni volta che la sigla di testa annuncia i suoi “messaggi speciali”. Sono le cifre del flop di Qui Radio Londra, che potrà pure sembrare meno drammatico di quanto è in realtà, ma solo in virtù dei grossi numeri del Tg1 e dei programmi che vanno in onda su Raiuno in prima serata. Non fosse che da anni l’azienda lavora contro i propri interessi, il programma andrebbe sospeso.

[...]





Che Karima El Mahroug abbia fretta di sposarsi con Luca Risso al solo fine di presentarsi dinanzi ai giudici di Milano ammantata di una rispettabilità che comunque non avrebbe effetto retroattivo nello smentire le numerose testimonianze circa un suo passato di prostituta – è quanto ha affermato un autorevole opinion leader – a me pare illazione orba e zoppa.
La ragazza è intelligente e conosce l’Italia meglio di un sociologo laureatosi alla Normale di Pisa: sa bene che le servirebbe a poco, a niente. Penso si faccia l’errore di proiettarle addosso un’immagine di squinzia coatta che puzza di pregiudizio, anche un po’ cretino. Tanto più cretino se lo si vuol fondare sulla convinzione che per una mai stata alla Bocconi il manto di rispettabilità di un matrimonio religioso abbia stoffa più pregiata di un matrimonio civile. Sì, perché pur non essendo (ancora) cattolica, Ruby Rubacuori vuole sposarsi in chiesa. E questo non farebbe ostacolo, perché i matrimoni misti (un coniuge cattolico e l’altro di altra confessione) possono essere celebrati in chiesa (ovviamente senza somministrare l’eucaristia al coniuge non cattolico): il freno posto dalla Diocesi di Genova alla fretta dei due promessi sposi è di altro genere, e attiene al contenuto delle linee guida del Direttorio Pastorale Familiare circa i corsi di preparazione prematrimoniale, vivamente raccomandati a chi si voglia accostare al sacramento.
Però è proprio qui che, a mio umile parere, sorgono i problemi, giacché al n. 63 si legge: “La partecipazione ai corsi o itinerari di preparazione al matrimonio deve essere considerata come moralmente obbligatoria, senza, per altro, che la sua eventuale omissione costituisca un impedimento per la celebrazione delle nozze”. E ancora: “Solo in casi estremi si dovrà proporre il rinvio della celebrazione del matrimonio”.
Eminenza, come la mettiamo? Lei può insistere, dire che quei corsi sono “moralmente obbligatori”, ma non può porli come condizione necessaria alle nozze. E può rinviarle un pochino, ma non troppo: se non riesce in due o tre settimane a rubricare questo caso fra i “casi estremi”, dovrà unire i due in matrimonio (pardon, ritirare il divieto posto ai parroci della sua Diocesi), voglia o non voglia.
Perché il Direttorio Pastorale Familiare non dà per indispensabili quei corsi prematrimoniali, ma il Codice di Diritto Canonico punisce severamente l’offesa al sacramento nella fattispecie dell’ostruzione.

Bù!

Accetti?


“Penso che se uno si rifiuta di assolvere un compito affidatogli dalla chiesa (cattolica), vuol dire che non ha fede in essa, nell’istituzione in sé. Nel film [Habemus Papam], al Papa in fuga viene chiesto se abbia perduto la fede, e lui risponde «no, assolutamente no». È una risposta funzionale al film e alle sue sottili polemiche, ma è assolutamente fuori luogo. Chi crede nella chiesa, sa che essa è fondata sul carisma, un carisma che le viene, secondo tradizione, direttamente da Cristo. E se Cristo l’ha affidata a un semplice pescatore, Pietro, come potrà abbandonare a se stesso, alle sue comprensibili angosce e ai suoi pur leciti dubbi, un suo eletto, l’eletto dai cardinali con l’assistenza dello Spirito Santo? «Domine, non sum dignus ut entres in domum meam…», ma il Signore entra. C’è, nella situazione raccontata da Moretti, qualcosa di incongruente” (Il Foglio, 28.4.2011).

Qualcosa di incongruente, allora, dev’esserci pure nella rituale domanda che il Cardinal Decano è tenuto a fare al neo eletto: “Accetti la tua elezione canonica a Sommo Pontefice?” (Romano pontifici eligendo, 87). Se la risposta non può essere che affermativa, è domanda superflua? Se la risposta è no, il neo eletto viene scomunicato per patente mancanza di fede?


Del “corpo glorioso” col quale si fa ritorno da un “viaggio dell’anima”


Sandro Magister ci invita a porre attenzione alle risposte che Benedetto XVI ha dato alle domande rivoltegli nel corso della puntata di A sua immagine andata in onda su Raiuno il 22 aprile, soprattutto quelle date alla quinta e alla sesta, che riguardano due punti salienti nella dottrina: la discesa di Cristo agli inferi dopo la sua morte e prima della sua resurrezione; la natura “gloriosa” del suo corpo dopo la resurrezione.
Accettiamo l’invito.

Sulla prima delle due questioni, Benedetto XVI dice: “Questa discesa dell’anima di Gesù non si deve immaginare come un viaggio geografico, locale, da un continente all’altro. È un viaggio dell’anima”.
Ora, col massimo rispetto per un soggetto anziano con due episodi di ischemia cerebrale in anamnesi remora, rileviamo che il Catechismo della Chiesa Cattolica dà agli inferi i connotati fisici di “dimora” (632) nella quale Cristo è “disceso” (633-635), che esprime moto a luogo. È quanto ricaviamo da At 3, 15 e senza dubbio può essere letta come allegoria, ma senza dimenticare che poco prima (At 2, 24) la meta di questo “viaggio” è indicata col termine Shéol, che nella tradizione ebraica indica senza dubbio un luogo (per quanto ultraterreno, anzi infraterreno), non uno “stato” dell’anima.

Sul secondo punto, quello relativo alla domanda n. 6, Sua Santità rammenta che “la materia [il corpo umano] ha anche la promessa dell’eternità”, non solo l’anima. È la nota promessa della resurrezione della carne, che però ci viene assicurato risorgerà incorruttibile: sotto forma di “corpo glorioso”, appunto.
Ora, la domanda è posta in questi termini: “Quando le donne giungono al sepolcro, la domenica dopo la morte di Gesù, non riconoscono il Maestro, lo confondono con un altro. Succede anche agli apostoli: Gesù deve mostrare le ferite, spezzare il pane per essere riconosciuto, appunto, dai gesti. È un corpo vero, di carne, ma anche un corpo glorioso. Il fatto che il suo corpo risorto non abbia le stesse fattezze di quello di prima, che cosa vuol dire?”. La risposta è che “non possiamo definire il corpo glorioso, perché sta oltre le nostre esperienze”, per subito aggiungere che “nell’eucaristia il Signore ci dona il suo corpo glorioso”. E dunque questo corpo non sta “oltre le nostre esperienze”, perché il Catechismo della Chiesa Cattolica recita che “il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’eucaristia sono un unico sacrificio” (1367).
Nell’esperienza dell’eucaristia, insomma, facciamo esperienza piena del “corpo glorioso”, sennò verrebbe meno il presupposto in virtù del quale possiamo (dovremmo) ritenere che “coloro che partecipano all’eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito” (1353).

mercoledì 27 aprile 2011

Telenovela




Come una tunica giocata a dadi sotto una croce


Del salasso fatto a Wojtyla poche ore prima che morisse, perché il sangue fosse conservato in un’ampolla a futura reliquia, ho già parlato in gennaio (qui), sollevando alcune questioni:
(1) di ordine clinico (dove si è visto mai che si salassi un poveraccio che versi in quelle condizioni? e quale medico può aver agito – scientemente, c’è da presumere – contro ogni buonsenso, prim’ancora che contro l’interesse del paziente?);
(2) di ordine teologico (destinare all’adorazione dei fedeli la reliquia di un santo che ancora non è stato proclamato tale – e siamo prossimi all’idolatria – è moralmente legittimo? da quale tradizione pesca, a quale simbolo si ispira, che cazzo mi significa, questa procedura?);
(3) di ordine legale (certamente il salasso fu idea del segretario personale di Wojtyla, Dziwisz, ma non sappiamo se col consenso informato del paziente; certamente in territorio italiano, al Policlinico Gemelli; e abbiamo detto che sul piano clinico – col paziente consenziente o meno – è come dare una spintarella a chi sta sull’orlo di uno sprofondo: se non v’è stata colpa, se non v’è stato dolo, com’è potuto capitare che non si sia potuto mettere in primo piano – proprio col papa, proprio col vicario di Cristo – l’interesse del paziente, e la dignità della sua persona?).

Lasciavo decantare la faccenda, fino a ritrovarmela dinanzi, oggi.


Era su L’Osservatore Romano, piccina picciò, a pag. 6, infrattata tra una foto e un calendario liturgico. Ben altro rilievo si dà all’ostensione di reliquie di santi semisconosciuti, qui invece la notizia è quasi sussurrata. Non c’è paesino che non abbia una chiesetta nella quale stia gelosamente custodita una Rotula di Santa Putipilla o una Uallera di Santo Scorfano, che quando va in processione muove soldi dalle casse del Comune o della Regione, pigliandosi il suo bravo paginone su Avvenire. Qui, al contrario, si dà notizia dell’ostensione di un tessuto nobile come il sangue, pure bello fresco, e sangue di un santo con i controcoglioni, addirittura un Magno – e si spiccia la cosa in un quarto di colonnino?
Viene il sospetto che la reliquia poco stagionata meriti una adeguata affumicatura prima di essere esposta all’adorazione di più comuni salami. E che del santo non si butti mai niente. Anzi, che il trattamento del santo vada ottimizzato. Quattro ampolle, mica una. Però equamente distribuite, come una tunica giocata a dadi sotto una croce.
Prosaicamente: al moribondo era stato prelevato del sangue mica per spacchettarselo da vivo, ma per metterne da parte, in vista di un’eventuale trasfusione. Ma si può essere così stronzi?


[...]




martedì 26 aprile 2011

Bollori



Capita spesso che al neofita faccia difetto il senso della misura e che il suo zelo, tanto più ardente quanto più la nuova fede ha in lui l’urgenza di non lasciare alcuna traccia della vecchia, sia motivo di imbarazzo per la comunità della quale entra a far parte, in primo luogo di chi la guida, costretto non di rado a mettere subito da parte il vanto di esibire il neoconvertito e porre un freno ai suoi pericolosi entusiasmi. Con Magdi Allam è capitato.
Fresco di battesimo, cominciò subito ad ardere di un cattolicesimo assai imbarazzante per la Santa Sede, che fu costretta a dissociarsi in fretta dalle sue smanie da lepantista: “Il cattolicesimo non nutre alcuna intenzione ostile nei confronti di una grande religione come quella islamica” (L’Osservatore Romano, 26.3.2008); “Accogliere un nuovo credente non è sposarne tutte le posizioni” (Corriere della Sera, 28.3.2008); “Sull’islam idee sue, non del Papa” (il Giornale, 28.3.2008).
Questo non è bastato a temperare i suoi bollori. Non gli è bastato farsi battezzare dal Papa e in mondovisione per sentirsi a pieno titolo cattolico e romano, non gli è bastato appiccicarsi il sovrannome di Cristiano per dimenticare d’essere nato musulmano, non gli è bastato assumere postura da leghista della Val Brembana per dimenticare d’essere un immigrato egiziano naturalizzato italiano: rieccolo a smaniare d’un “dover rompere l’assedio islamico” (il Giornale, 26.4.2011), che anche uno studente al primo anno di Psicologia non avrebbe difficoltà a riconoscere come assedio tutto interno.
È accaduto che a Milano, dove i musulmani sono più di 100.000 e hanno luoghi di culto per una capienza complessiva non superiore ai 3.000 posti, perché le autorità locali negano la costruzione di nuove moschee, un muezzin abbia invitato alla preghiera di strada. Magdi Cristiano Allam ha vissuto l’accaduto con l’angoscia di un viennese sotto l’assedio turco nel 1529. “È il momento di dire basta – scrive – e di chiedere quantomeno che i musulmani si attengano alle nostre leggi così come fanno gli ebrei, i cristiani o i buddhisti”.
Siamo dinanzi a un evidente infortunio: anche se in Italia non mancano chiese, spesso pure mezze vuote, non vediamo tutti i giorni delle processioni pubbliche con a capo un prete che canta Noi vogliam Dio ch’è nostro Re? Non vediamo buddhisti per strada cantare Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare? A chi non è capitato di vedere una banda dell’Esercito della Salvezza suonare Regna, regna il Signor all’angolo di una piazza?
Magdi Cristiano Allam scrive che è venuto il momento di “esigere che le moschee operino con le stesse norme a cui sono sottoposte le sinagoghe, le chiese o qualsiasi tempio di culto eretto sul suolo italiano… Significa che le moschee devono essere delle case di vetro dove, al pari delle sinagoghe e delle chiese, si parla in italiano e si diffondono valori che ispirano alla vita, all’amore e alla pace, e dove chiunque possa entrare, sedersi, ascoltare e condividere una spiritualità comune al di là della fede diversa”.
Dovremo mettere al bando la messa in latino e i salmi che il rabbino recita in lingua ebraica? Lo Stato dovrebbe sorvegliare sui contenuti che i capi delle confessioni religiose presenti in Italia diffondono ai rispettivi greggi? Visto che dal 1984, con un Concordato sottoscritto anche dalla Santa Sede, in Italia non esiste più una “religione di Stato” e tutte le confessioni religiose hanno almeno sulla carta pari diritti dinanzi alla legge, sulla base di quali criteri dovrebbe essere effettuata questa sorveglianza? Dobbiamo sottoporre i contenuti di ogni credo religioso al controllo attivo, eventualmente censorio, dello Stato? Personalmente sarei d’accordo, ma la Chiesa cattolica accetterebbe?
Lo zelo di Magdi Cristiano Allam riesce a trovare una via di fuga: “L’articolo 8 della Costituzione [recita] che «le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti», ma a condizione che «non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano »… Rileviamo che l’islam come religione, non avendo finora stipulato un’intesa con lo Stato per il profondo contrasto che persiste tra le associazioni islamiche, opera in un contesto di arbitrio giuridico non essendo stati definiti i rapporti con lo Stato”. L’assedio è rotto col vecchio caro cuius regio eius religio, principio che degrada la conversione di Allam alla presunzione di aver acquisito una cittadinanza di serie A.


“Un certo nostro modo di essere che si esemplifica nella Pasquetta”


Paesi nei quali si festeggia la Pasquetta
[http://it.wikipedia.org/wiki/Luned%C3%AC_dell'Angelo#Nel_mondo]

Se non dice puttanate, sta male. Deve dirne almeno una al giorno, sennò va in crisi di identità. Ieri sera, per esempio: “La Pasquetta è una cosa molto nostra” (Qui Radio Londra - Raiuno, 25.4.2011).
Ieri sera, però, si poteva chiudere un occhio: ammetteva che i giornalisti italiani lavorano forse troppo e non sempre troppo bene”.


Irresistibile




“Deboli, viziosi, inetti e ribelli”


Dalle prime esperienze, che sono necessariamente di tipo parentale, discende l’atteggiamento che successivamente avremo verso l’altro. Potremo con la ragione temperare questo imprinting, perfino arrivando a invertirne il segno, e così potremo passare dall’inclinare a credere che l’altro sia fondamentalmente buono al pensare che sia intrinsecamente cattivo, o viceversa, ma di solito la ragione servirà solo a trovare argomenti a supporto dell’imprinting. Arriveremo così ad avere argomenti in favore della tesi che l’uomo nasca buono o di quella opposta (nasca cattivo), e in realtà, ridotta all’osso, ogni discussione sull’uomo, e sugli uomini, non sarà altro che saggiare questi argomenti sul prototipo degli esiti delle prime esperienze.
Suppongo non sia difficile immaginare perché, dacché mondo è mondo, prevalga la tesi che gli uomini siano “deboli, viziosi, inetti e ribelli” (giudizio che Ivan Karamazov fa esprimere al Grande Inquisitore), insomma cattivi e pericolosi: una società costruita su questo giudizio dovrà rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza, e in cambio di pane e speranza affiderà la propria paura ad un’autorità, e giacché ogni autorità tende a perpetuarsi, lo farà riproducendosi nella relazione parentale, che a sua volta si farà modello di relazione sociale. Il bambino deve essere preparato a diventare un uomo che sia incline ad una conveniente diffidenza verso il suo simile: non potendosi mai del tutto fidare di un patto tra simili, deve sentire il bisogno di un potere che lo domini “fino ad aver paura di esser libero” (ibidem).
Mentre scrivo siamo a meno di due o tre secoli dall’aver intuito che della ragione può esser fatto miglior uso: per esempio, rimettere in discussione il senso di “buono” e di “cattivo”; per esempio, smettere di pensare alla libertà come a un assoluto e imparare a coniugarla con la responsabilità; per esempio, rinunciare a credere che una società non regga senza essere impalata su un principio trascendente. Tre esempi che ci fanno capire che non avremo un altro bambino, fino a quando non avremo un’altra famiglia, fino a quando non avremo un’altra società: non resta che immaginare possibile un progresso umano sulla capacità che la ragione avrà di decostruire l’imprinting.
Con una ellissi: quanto più capiremo la società che ha prodotto i genitori di Dostoevskij, tanto più potremo fare a meno del Grande Inquisitore.

lunedì 25 aprile 2011

asca.it, 21.4.2011


Daniele Capezzone si precipitava a dichiarare: “Esprimo vicinanza e solidarietà a Paola Concia e alla sua compagna per il grave e spiacevole episodio di cui sono state vittime” (asca.it, 21.4.2011). Non si esprimeva a titolo personale, ma in qualità di “portavoce del Pdl”. In tale veste affermava: “Ogni persona, qualunque sia il suo orientamento, la sua scelta, la sua preferenza sessuale e di relazione, ha diritto a vivere nella libertà e nel rispetto di tutti gli altri”. Il portavoce del partito che finora si è sempre opposto ad ogni proposta di legge che sanzioni l’omofobia affermava che “sta alla politica, a tutta la politica senza distinzioni di schieramento, lavorare perché lo spazio della discriminazione sia sempre più ridotto, e possibilmente annullato al più presto”.
Sarà possibile ridurre questo spazio della discriminazione affermando che è meglio andare a puttane piuttosto che essere gay? Sarà possibile ridurlo, come fa Carlo Giovanardi, chiamando la Corte Costituzionale a censurare una réclame di Ikea? O si potrà ridurlo, contando sull’autorità del proprio ruolo politico e istituzionale, dichiarandosi “lesbico al 25%”?


[...]





Art. 289 c.p.


“Cosa aspettiamo a tirare fuori l’articolo 289 del codice penale, «attentato a organi costituzionali», che punisce con dieci anni di galera chi cospira contro lo Stato?”
il Giornale, 24.4.2011

In galera, secondo Giuliano Ferrara, dovrebbe finirci Antonio Ingroia. Urge fargli presente che il suddetto articolo vorrebbe ci finisse chiunque commette un fatto diretto ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, (1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; (2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”.
Ma questo non è l’identikit di chi gli mette la pappa nella ciotola? Quante volte Silvio Berlusconi ha paralizzato il Parlamento e il Consiglio dei Ministri, quante volte ha minacciato la Suprema Corte e il Capo dello Stato, quanto volte ha interferito pesantemente a discapito delle legittime prerogative di molte assemblee regionali?
Ritira l’idea dell’articolo 289, smetti di abbaiare, sennò ti mettono dentro il padrone e fai la fame.

domenica 24 aprile 2011

L’ultima su Fermat


“Una ricerca di Socialseeker che ha coinvolto 270 ricercatori volontari ha stilato la prima classifica dei 35 top opinion leader italiani che usano efficacemente i social network e in particolare Facebook sapendosi trasformare così in social influencers…” (primaonline.it, 21.4.2011), e in vetta trovo Nichi Vendola, Luca Sofri e Mario Adinolfi. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione del perché, ma non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina.

Chissà come si dice in giapponese



“Anche a me vengono le stesse domande… E non abbiamo le risposte… E rimane la tristezza… E un giorno capiremo…”. E questo sarebbe un finissimo teologo? Ma fatemi il piacere.
Meglio, meglio, mille volte meglio il professor Roberto De Mattei, che dinanzi alla stessa domanda ha – tutto sommato – dimostrato di sapersela cavicchiare decentemente con la dottrina. Perché – carte alla mano – la risposta cattolica alla domanda posta dalla piccola Elena è proprio quella: il peccato originale ci fa tutti colpevoli, in partenza, senza differenza; e scontiamo con la morte la colpa di esser carne; e le catastrofi naturali hanno un loro ben preciso ruolo nell’economia della salvezza dell’anima; e sono mezzo di espiazione; sicché la morte di un bambino innocente sta nel progetto di un Sommo Bene che include pure lui.
E il vecchio Ratzinger? Poteva almeno pigliare da I fratelli Karamazov quella storiella del bambino che tira pietre ai cani – e i cani lo sbranano, e la madre si dispera: un giorno, spiega Alëša, madre e figlio saranno in Dio e lì comprenderanno che quanto è accaduto era cosa buona e giusta – poteva almeno rifugiarsi nella letteratura, il vecchio Ratzinger. Niente. Farfuglia quattro puttanate consolatorie, come un pretonzolo di quelli dolciastri.
Immagino l’obiezione, direte che era la risposta a una bambina? Ma è una bambina in età da Catechismo: su un punto così importante, la più alta cattedra se la sbriga con un “non abbiamo risposte”? Ma va’ a cagare, allora. (Chissà come si dice in giapponese.)

venerdì 22 aprile 2011

Girard for dummies




Jack Godell (Jack Lemmon):
“Che ti fa pensare che cerchino un capro espiatorio?”.
Ted Spindler (Wilford Brimley):
“Tradizione”.


The China Syndrome
(James Bridges, 1979)



giovedì 21 aprile 2011

Almah



Pur avendo a disposizione un termine come betulah, che sta a indicare vergine nella più stretta accezione del termine, nel passo che secondo la tradizione cristiana profetizzerebbe la nascita del Messia da una donna vergine prima, durante e dopo il parto (Is 7, 14), Isaia usa almah, che in molti altri punti dell’Antico Testamento sta chiaramente ad indicare giovinetta, senza alcun riferimento obbligato alla condizione di illibatezza che invece è proprio di betulah. Quando il libro del profeta viene tradotto dall’ebraico al greco, almah diventa parthenos, che come vergine ha una stretta relazione alla condizione di illibatezza, che ad esempio non è nella più stretta accezione di un termine come kore (fanciulla). L’anonimo che scrive il Vangelo secondo Matteo attinge alla tradizione veterotestamentaria dei Septuaginta, che hanno tradotto Isaia in greco alcuni secoli prima, ed è lì che almah è diventato parthenos: legge vergine e in quel punto nasce il dogma della verginità di Maria, sulla quale è costruito un gran pezzo di cristologia. Sarà su questa lettura di almah che si consumeranno le cruente polemiche fra cristiani che porteranno all’eliminazione fisica di quanti in parthenos leggono fanciulla invece che illibata, e sulla perpetua integrità dell’imene di Maria continueranno a sgozzarsi per secoli.
Tutto questo è già noto da decenni, com’è noto che il cammello che troviamo nei sinottici alle prese con la cruna dell’ago è un aramaico gamal che andrebbe correttamente tradotto con corda. Sì, però Agostino ha scritto: “Non a caso Giovanni Battista, precursore del Signore, indossava una veste di peli di cammello: vuol dire che l’indumento che indossava era formato da colui che sarebbe venuto giudice dopo di lui, di cui egli dava testimonianza. Infatti nel cammello dobbiamo riconoscere una figura di Nostro Signore, che è grande come il cammello e tuttavia capace di chinare il capo fino a terra, sicché nessuno può imporgli un carico se lui stesso non si abbassa fino a terra. Così anche Cristo, che umiliò se stesso fino alla morte” (Sermones, 346).
Dopo un’esegesi così autorevole, quale importanza può avere che un errore abbia tradotto gamal in kamelos (cammello) invece che in kamilos (corda)? Agostino ha detto che ci va cammello: azzardarsi a ritenere che corda possa andarci meglio sarebbe offesa a lui, a tutti quelli che hanno ripreso la sua esegesi, e a Cristo, e a Giovanni Battista. Il fatto è che, come Benedetto XVI ci raccomandava nel 2008, “la conoscenza esegetica deve intrecciarsi indissolubilmente con la tradizione spirituale e teologica perché non venga spezzata l’unità divina e umana di Gesù Cristo e delle Scritture”: tutto il sangue degli eretici sgozzati per aver messo in discussione la perpetua verginità di Maria fonda il criterio della retta “esegesi teologica” e richiama l’attenzione dei credenti “ai rischi di un’esegesi esclusivamente storico-critica” che può smarrire il cammello.
Tutto questo era già noto, ma ci sarà ripetuto ancora, ora che negli Usa viene data alle stampe una nuova traduzione della Bibbia nella quale almah non è più vergine, ma giovinetta.

Sappia, presidente, abbiamo delle foto...



Roberto Lassini si è assunto la responsabilità di averlo fatto affiggere ai muri di Milano, ma sul contenuto del manifesto, che Giorgio Napolitano ha definito “ignobile provocazione”, non può vantare paternità: quella è roba di Silvio Berlusconi. Al netto: alcuni magistrati sarebbero membri delle Brigate Rosse o di consimile formazione terroristica di matrice comunista.
Silvio Berlusconi non ha mai prodotto prove, tanto meno nomi, ma ha sempre indicato una traccia: si tratterebbe dei magistrati che lo chiamano in giudizio a rispondere di reati che ogni volta hanno la singolare ventura di essere depenalizzati o di andare in prescrizione, dimostrando con ciò l’insussistenza delle accuse e disvelando in esse un intento persecutorio mosso dall’odio e dall’invidia, che risaputamente sono di matrice comunista.
Troppo complicato? Semplifichiamolo al livello intellettuale di “un ragazzo di undici anni che a scuola non siede neanche nei primi banchi”, che poi sarebbe la definizione dell’italiano medio secondo lo stesso Silvio Berlusconi: solo chi non lo ama può muovergli un’imputazione, odio = comunismo, il pm che gli muova una qualsivoglia imputazione è un brigatista rosso. Se ami Silvio Berlusconi, non puoi che saperlo innocente. Se non lo ami, vuol dire che lo odi e quindi sei comunista o amico dei comunisti.
Vi quadra? Se non vi quadra, è perché siete degli intellettuali del cazzo e amate sofisticare la linearità dei fatti. Forse siete anche un po’ finocchi.

Sì, ma Napolitano? Semplice: se definisce “ignobile provocazione” quel “fuori le Br dalle Procure”, vuol dire che rigetta la linearità dei fatti. Finocchio, chissà, certamente dimostra di essere pure lui comunista. Sempre stato, peraltro. E allora che si fa?
“Quando Giorgio Napolitano, in una lettera inviata al vicepresidente del Csm Michele Vietti, afferma che sulla giustizia siamo arrivati alle «più pericolose esasperazioni e degenerazioni», risulta evidente che ci sono due vilipesi e due misure. Da una parte troviamo il caso dei famigerati manifesti… Sull’altro piatto della bilancia, tuttavia, troviamo le accuse - di pari se non superiore gravità - mosse nei confronti di Silvio Berlusconi” (Libero, 20.4.2011).
Vi sembrerà che in questo argomentare ci sia un cortocircuito, ma solo se siete (finocchi o no) degli intellettuali del cazzo, perché anche qui è tutto molto lineare: per essere davvero al di sopra delle parti, Napolitano può stigmatizzare chi ha detto che certi pm sono brigatisti, sì, ma solo dopo aver stigmatizzato chi se n’è lamentato.

Non vi quadra? Probabilmente siete dei radical-chic, avete letto troppo, vi si è bruciato il cervello. Prova del nove? Sapete ancora ridere con gusto ad una di quelle belle barzellette zozze da ultimi banchi in seconda media? No? Ecco, come volevasi dimostrare: siete guasti dentro. Vediamo allora se può andarvi bene a metterla così: “Accolga, presidente, queste mie critiche come un invito all’equilibrio, non come un tentativo di scaricare opportunisticamente le responsabilità di chi ha concepito o avallato con imprudenti dichiarazioni, come ha fatto il presidente del Consiglio, il manifesto di rabbia incontrollata apparso sui muri di Milano. Siamo tutti in un precario equilibrio, e per questo la campagna di delegittimazione della politica e delle istituzioni va stroncata dovunque si affacci, anche quando rivesta una patina di cultura salottiera o si copra dietro la funzione giudiziaria” (Il Foglio, 20.4.2011).
Neanche così funziona? E allora proviamo in quest’altro modo: “Quando il giovane Napolitano fu salvato dall’art. 68, che più tardi abolì” (Il Foglio, 21.4.2011), disseppellimento di un episodio risalente al 1955, quando l’onorevole Giorgio Napolitano fu denunciato per aver detto ad un questore che aveva vietato una manifestazione di braccianti casertani in favore della riforma agraria: “Lei, questore, ha fatto scendere in piazza dei funzionari irresponsabili”. Denunciato per riunione senza preavviso e oltraggio a pubblico ufficiale.

Vi chiederete quale relazione possa esserci, più di mezzo secolo dopo, con le accuse di prostituzione minorile, concussione ed evasione fiscale - tanto per tenerci sul corrente - mosse a Berlusconi. Semplice: “La vicenda, molto comune a quei tempi, non ebbe alcun seguito giudiziario perché, essendo ancora vigente nella sua pienezza l’art. 68 della Costituzione, la giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio non ritenne di autorizzare la magistratura ad andare avanti”.
A buon intenditor poche parole, presidente. Se non bastasse, sappia, abbiamo delle foto che la ritraggono con le tette al vento.



“Un orrore, un orrore!”





Errata corrige


Qui avevo scritto cose che alcuni lettori mi hanno dimostrato essere delle sciocchezze. Le ritiro scusandomi.


Las Meninas



La foto è di Louafi Larbi (Reuters/Contrasto) ed è pubblicata sull’ultimo numero di Internazionale (XVIII/893, pagg. 4-5). Molto bella, senza dubbio. Tuttavia, come in Las Meninas di Velázquez c’è un quadro in un quadro, qui c’è una foto nella foto ed è quella che si ottiene scattando con un dito che copre l’obiettivo della fotocamera di un cellulare.

martedì 19 aprile 2011

“Pinochet ingannò Wojtyla”



Avete presente quella foto che ritrae Giovanni Paolo II su un balcone del Palacio de la Moneda in compagnia del generale Augusto Pinochet? Bene, se oggi non avete letto Avvenire, sappiate: “Pinochet ingannò Wojtyla”.
Ne fa fede quanto dice Sua Eminenza, il cardinal Roberto Tucci, che per anni ha avuto cura della preparazione di tanti viaggi apostolici del pontefice che fra una dozzina di giorni sarà elevato agli onori dell’altare. D’altra parte, potevate arrivarci pure da soli: vi pare che un santo avrebbe mai consentito di farsi ritrarre insieme a un dittatore, che poi sarebbe stato condannato per crimini contro l’umanità, come a dargli una qualsivoglia forma di legittimazione morale e/o politica? Ma ci mancherebbe altro.
Vi domanderete allora com’è che sono facilmente reperibili almeno altre quattro foto che ritraggono insieme il santo e il criminale? Siete ingenui: quelle non sono pose ufficiali. Quelle foto ritraggono Wojtyla mentre tenta di mondare l’animaccia zozza di Pinochet.
Guardatele con attenzione, senza pregiudizio cristianofobo: 


A - Wojtyla: “Figliolo, che ne dici di un po’ di pentimento?”
B - Pinochet: “Mica ci godo, è che sono anticomunista”
C - Wojtyla: “Ah, ne avessimo, in Polonia!”
D - Wojtyla: “Ok, fa’ in fretta... Poi, però, pèntiti...”

Foto rubate dal dialogo tra i due, e che testimoniano chiaramente la sollecitudine pastorale del santo verso il criminale e la potente esortazione alla conversione, non mi pare neanche il caso di metterlo in discussione.
Diversa cosa per la foto sul balcone: quella poteva essere fraintesa, e Wojtyla voleva evitarla, ma dicevamo: “Pinochet ingannò Wojtyla”. Accadde così: “Pinochet lo fece affacciare con lui al balcone presidenziale, contro la sua volontà, cambiando, senza averlo concordato, il percorso del cerimoniale”. Fila, no?
Non fila? Vi sembra che Wojtyla stia sul balcone in posa per una foto ufficiale che voglia in qualche modo dare una copertura ad una giunta militare fra le più spietate e sanguinarie? Consentite che corregga la vostra impressiore errata: 


Visto come si dimena? Cercava di sottrarsi, ma qualcuno gli impediva di rientrare.


Mascalzone è ancora poco


Non importa se davvero sia stato stretto un patto tra Gianfranco Fini e le «toghe rosse», come Silvio Berlusconi ha affermato due giorni fa, perché “quel che conta sul piano politico non sono i «patti» più o meno segreti [ma qui potreste metterci pure “più o meno dimostrabili”], ma le convergenze oggettive di interessi e i comportamenti che ne conseguono” (Il Foglio, 19.4.2011). Non ha importanza, dunque, se quella detta da Silvio Berlusconi sia una menzogna: si adatta così bene alla realtà dei fatti, per come li vede Giuliano Ferrara, che in pratica non è una menzogna: il «patto» c’è di fatto, tanto più segreto quanto meno dimostrabile. Si può essere più mascalzoni di così?
Mica è tutto, però, perché invece “un patto assolutamente ufficiale era stato stipulato tra Berlusconi e Fini, ma si è visto che fine ha fatto”: manca l’esplicita accusa di tradimento, basta insinuare che il “patto assolutamente ufficiale”, che “a un certo punto non è più parso politicamente conveniente per l’uno o per l’altro” (come se Fini non fosse stato espulso dal Pdl, ma fosse andato via nottetempo portandosi dietro l’argenteria), sia stato infranto per stringere il “patto più o meno segreto”. Oplà, “la riluttanza di Fini ad accettare le misure di autodifesa politica via via proposte dal centrodestra [ma qui potreste metterci pure “le leggi che darebbero la piena e permanente impunità al culo flaccido”] è stata la conseguenza di un calcolo”, quello che lo ha spinto al tradimento.
E di quale calcolo di trattava? “Fini è entrato come cofondatore nel Pdl, ma la sua possibilità di assumerne la leadership, alla quale aspirava legittimamente, era fin dall’inizio basata sull’aspettativa di un incidente che azzoppasse l’altro cofondatore”. Fini ha tradito, dunque, perché questo suo vile calcolo (che tuttavia noi uomini-di-mondo siamo disposti a concedere fosse “legittimo”) si è dimostrato pure errato: frustrato, forse pure livido di rabbia, ha rotto il “patto assolutamente ufficiale” con Berlusconi e ne ha stretto uno “più o meno segreto” con le «toghe rosse», tutto evidente in certe “convergenze parallele di interessi” che stanno nel loro divergere dagli interessi di Berlusconi.
Prima ho detto che argomentare in questo modo è da mascalzoni? Rettifico: è peggio.

Rivoltare la tonaca


L’Uomo della Provvidenza è stato abbandonato dalla Provvidenza, ed è tempo di rivoltare la tonaca. Quelli che hanno messo troppo in mostra le loro sfavillanti protesi dentarie quand’erano fotografati accanto a lui, facciano un passo indietro.
Un passo indietro a chi gli somministrava l’eucaristia sebbene divorziato, anzi, il tribunale canonico apra un fascicolo. Un passo indietro, meglio due,  a chi l’ha pubblicamente assolto perché la bestemmia non costituirebbe peccato quando il contesto è lui. Due passi indietro, anzi quattro, a chi ha sudato sette talari per giustificare sul piano teologico tutta quella misericordia ad personam, mettendo la faccia in tv e il nome in calce al pippone.
Arretri il clero che lo incensava, vengano avanti i Tettamanzi, mettete in primo piano monsignor Crociata, da oggi in poi in tv si mandi solo il Mogavero, Bagnasco gli faccia dire che non può parlargli perché è fuori, per gli esercizi spirituali. Bertone eviti di incontrarlo e, se lo incontra, si tenga stretto stretto a Napolitano.
Fate tacere i ciellini, per carità di Dio. Avessero la faccia tosta di spendere ancora un’altra parola in difesa di Berlusconi, chiamateli in disparte e fate capire loro che non c’è più niente da spremere: pregassero per le anime del Purgatorio, torna assai più conveniente.

Rivoltare la tonaca, ma lentamente. Sennò si capisce che dentro, pur con un’altra faccia, pur con un altro nome, c’è sempre lo stesso prete.


"Quando il bambino era bambino, non sapeva di essere un bambino..."




lunedì 18 aprile 2011

Dopo un emozionante testa a testa...



Dopo un emozionante testa a testa con L’autodeterminazione del pisellino di Giuliano Ferrara (Il Foglio, 18.4.2011), al quale s’è tenuto appaiato fino a una spanna dal filo di lana, è Un’immagine da difendere di Antonio Polito (Corriere della Sera, 18.4.2011) a conquistare il Premio «Stronzo d’Oro».
“Non c’è nessuna buona ragione per deprecare anche l’Italia e la storia d’Italia al fine di condannare il suo premier pro tempore”, scrive Polito. Questo vibra dello stesso patriottismo di cui vibra più di un hooligan del Pdl sulle sghembe virtù transitive per le quali Berlusconi = Presidenza del Consiglio = Stato = Patria. Tutto meno grossolano in Polito, come è evidente in quel “pro tempore”.
Sono dettagli come questi a fare la differenza con uno di quei rozzi comunicati stampa coi quali Capezzone bolla come traditore della Patria chiunque si sia azzardato a non trovare divertente l’ultima barzelletta di Berlusconi: qui, in Polito, la prosa non è asservita a una consegna, ma sgorga libera e, se la barzelletta è brutta, è brutta. Anzi, si arriva al punto di concedere che, sì, “ci sono molte ragioni per deprecare Berlusconi”; e però affermare che Berlusconi smerda l’Italia non è bello, perché a non lamentarcene quando si va all’estero, e a non farne cenno alcuno con l’ospite forestiero, può darsi che la cosa non trapeli, resti inter nos. Puzza, senza dubbio. Ed è merda senza dubbio italiana. Ma Polito ci consiglia di fare i disinvolti. Così nessuno se ne accorge. E la Patria è salva.


Apologo zen


È da 35 anni che Nanni Moretti ci parla di sé. Piaccia o non piaccia ciò che dice e come lo dice, il sé di cui ci parla aspira a darci la chiave di lettura di un mondo, e in ciò possiamo dirlo artista. Negli anni questo mondo è andato senza dubbio dilatandosi e l’universo asfittico di Io sono un autarchico e di Ecce bombo si è ampliato in largo (Sogni d’oro e Bianca) e in lungo (La messa è finita e Palombella rossa), e poi di nuovo in largo (Caro diario e Aprile) e ancora in lungo (La stanza del figlio), e ancora in largo (Il caimano) e ora, ancora, in lungo (Habemus Papam).
Quando dico in largo, mi riferisco alla platea alla quale l’artista si rivolge e siamo così passati dalla cerchia di amici alla tranche generazionale, a un’area politico-culturale, fin quasi a metà del paese; quando dico in lungo, invece, mi riferisco alla profondità del disagio – perché Nanni Moretti è artista del disagio, in tutto e sempre – che da quello del giovane Michele Apicella è diventato il disagio dell’anziano cardinal Melville, acquistando – appunto – profondità esistenziale. Pur così dilatato in lungo e in largo, il mondo del quale Nanni Moretti ci offre la sua chiave di lettura è tuttavia sempre lo stesso, e in ciò possiamo dirlo artista coerente, fedele a una filosofia che negli anni non ha mai smentito se stessa, né sembra essere stata smentita dai fatti, almeno come sentiti: da Welt si è fatto Weltall, ma si tratta sempre dello stesso mondo nel quale l’uomo soffre un cronico “deficit di accudimento”.
È questa madre che non è abbastanza sollecita ai bisogni del poppante che dà questa urgenza di cioccolato, è questo Pci non abbastanza attento a quello che si muove nella società italiana degli anni ’80 che produce la crisi della sinistra, è questo presente che non ha cura del passato che condanna il paese. E il cardinal Melville arriva quando tutto questo è già compiuto: quando a Roma non c’è quasi più una sola pasticceria che sappia preparare una Sachertorte come Dio comanda, quando molte sale cinematografiche sono state costrette alla chiusura, quando molte tazze sono ormai sbreccate, quando tra i conoscenti e gli amici le coppie scoppiano, e le madri si suicidano, e i padri si innamorano di ragazzine, e quasi nessuno calza più scarpe decenti. Il paese ha perso la bussola e su tutto incombe una grassa mediocrità contenta di sé: ogni decisione pesa perché nessuno sa più dove iniziare a mettere le mani, tranne i ghepensimì che le mettono dappertutto.
Il Papa e il Vaticano c’entrano poco o niente: si offrono come espedienti, e vengono trattati con la delicatezza di chi vuole riconsegnarli intatti dopo l’uso. All’autore interessava solo l’allegoria della grande indecisione dinanzi alle grandi responsabilità. In questo senso, Habemus Papam è un apologo zen.

“Rabbi, consenti una domanda?”



Stanotte ho sognato Gesù. Era seduto in mezzo a due o tre dozzine di fan e raccontava la parabola del profugo eritreo che sbarca a Lampedusa, compra una schedina precompilata in una tabaccheria, vince 150 milioni al Superenalotto, eccetera. Mi avvicino, aspetto che finisca e gli faccio: “Rabbi, ce la racconti un’altra volta quella del buon samaritano?”.
Devo aver toccato il tasto giusto perché è tutto un “sì, Rabbi!”, “dai, Rabbi!”. Lui si fa un po’ desiderare, da vero artista alla richiesta del bis, poi attacca: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…”.
Quando arriva in fondo, faccio: “Rabbi, consenti una domanda?”. Annuisce e allora chiedo: “Mettiamo che il samaritano si avvicini al tizio che intende soccorrere e questi gli sferri un pugno in faccia: è fesso il tizio o il samaritano?”.
“In verità, in verità ti dico – dice – così smette di essere parabola e diventa barzelletta”. E lì mi son svegliato.

Ecco, questa mi mancava



domenica 17 aprile 2011

Nustalgia de Milan




Non può negarsi


Fabio Brotto scrive: “Il pensiero della non esistenza di Dio è già un pensiero metafisico. Fondato su una proposizione dichiarativa-metafisica. In questo senso, tutto il gran darsi da fare di materialisti di ogni tipo per smontare la plausibilità della credenza è la conferma del fatto che il pensiero umano ha sempre bisogno della trascendenza, anche nella sua negazione. E il motivo è semplice: anche il pensiero più ateo è per sua natura una realtà trascendente. Mi impressiona, in questo senso, la faciloneria con cui si usa il termine «realtà» (oggi molto più usato del termine «verità»). Esso è maneggiato da tutti in modo superficiale ed acritico. Come se non fosse una bomba metafisico-epistemologica” (Brotture, 17.4.2011).

Sciocchezze sentite mille volte, e che possono anche sembrare profonde, ma siamo a quel livello di logica che consente a un prete, trionfante sull’ateo al quale sia scappato un “porcodio”, l’esclamazione “ma allora vedi che sei costretto ad ammetterne l’esistenza?”, montandosi la testa fino a sentirsi un sant’Anselmo. Logica che al primo “perbacco” è costretta a mettere sullo stesso piano (fenomenologico e perfino ontologico) Dio e Bacco.
È il solito sillogismo zoppo che ci perseguita da secoli: se penso Dio, Dio è nel mio pensiero; è l’ente propriamente metafisico, e quindi il mio pensiero non può che avere dimensione congrua a Dio; non posso negare l’esistenza di Dio senza negare la piena dimensione del mio pensiero, e quindi io esisto solo se esiste Dio. E Bacco no?
Prima che epistemologica, la bolla di scollamento è linguistica: il trucco del treccartaro qui sta nel fare scivolare, fino a separarli, il piano del significato su quello del significante, e più la mano è lesta, più il trascendente pare plausibile fino al necessario, come contenuto e contenente della bolla.

Ma prima di tutto: cos’è una proposizione “dichiarativa-metafisica”? I sudati tomi di filosofia e teologia non ne danno notizia, sarà un concetto introdotto dal Brotto. Non lo spiega, sicché siamo costretti a congetturare. Se la “proposizione dichiarativa” è la subordinata completiva di una frase che lega a Bacco il predicato di compresenza, allora nel dire “Bacco non c’è” faccio “proposizione dichiarativa-metafisica” dell’esistenza di Bacco? O è questo o Brotto l’ha butta lì solo per impressionarci un po’. Se lo escludiamo, perché il Brotto si atteggia a persona seria, dobbiamo ritenere che per lui è vero – o reale, a piacere – ciò che è partecipato (completivamente) di compresenza metafisica, per il solo avere un predicato (non importa quale): neghi l’esistenza di Bacco e, oplà, gli dai vita. Se poi neghi l’esistenza di un creatore onnipotente e onnisciente, eccolo, l’hai creato (e allora vuol dire che lui ha creato te).
Insomma, detto in posa solenne: “il pensiero umano ha sempre bisogno della trascendenza, anche nella sua negazione”. Messa così, la cosa sembra quasi reggere. Zoppica, è vero, ma, se proseguiamo zoppicando anche noi, ci raggiunge e ci convince: andiamo tutti a farci una bevuta da Bacco. Venga pure Brotto, non può negarsi.

Si fa presto





sabato 16 aprile 2011

Senza titolo


Correvo il rischio di invecchiare incupendomi sempre più dinanzi a un mondo che era già pazzo quando nacqui (ma non privo di un metodo) e che lo è diventato sempre di più (perdendo via via anche il metodo). Non mi sarebbe stato duro rinchiudermi in me stesso, costruendomene un altro, tutto a sfizio mio, fatto di volontà e rappresentazione, tutto razionale e della ratio mia. Ma mi è sembrato vile e allora mi son detto: “Adesso faccio un altro figlio”. Che ogni volta è sempre il primo.
 

venerdì 15 aprile 2011

[...]


La tecnica ha reso così complicate le questioni relative al fine-vita che la pretesa immediatezza della verità del magistero cattolico è andata a perdersi in distinguo di sempre più difficile comprensione, che fanno attorcigliare su se stesse perfino le più acute intelligenze alle quali la Chiesa affida la catechesi. Non c’è più un solo termine capace di chiudere in sé un significato certo per troppo tempo, e quello che può andare bene in una lingua, seppure a stento, oggi, in un’altra fa fatica a trovare analogo che non ponga altri problemi, anche più seri, se non oggi domani. La tecnica ha cambiato le cose e le parole che prima le esprimevano ora a malapena ne rammentano il senso che avevano e non hanno più. Ad ogni nuovo farmaco che sposta di un solo millimetro l’indistinto confine tra vita e morte, il Catechismo della Chiesa Cattolica è costretto ad aprire una nota a pie’ di pagina.
Volentieri dedicherei del tempo agli imbarazzi che Youcat sta provocando in autori, traduttori e autorità preposte a dichiararne l’aderenza alla retta dottrina, ma stasera mi fanno una tal pena che li lascio in pace.

“Restiamo umani”


Mi auguro di non ferire la sensibilità di alcuno con quanto sto per dire, e anzi, per evitare che possa accadere contro la mia volontà, farò largo uso di virgolettato da fonti senza dubbio filopalestinesi. In più voglio premettere che sono sinceramente dispiaciuto per la morte di Vittorio Arrigoni, non solo per il rispetto che si deve ad ogni morto, ma anche per l’istintiva simpatia che mi ha trasmesso nella video-intervista che circola in rete in queste ore. Nella quale, a mio parere, mostra d’essere fazioso, e però con tanta buonafede e con così ingenuo candore da riuscire a farmi grande tenerezza. Non vorrei aver commesso di già il primo guaio: ho detto “fazioso”, avrò con ciò fatto offeso alla memoria di Vittorio Arrigoni? Era un attivista dell’International Solidarity Movement (ISM), “a Palestinian-led movement […] aim[ing] to support and strengthen the Palestinian popular resistance by providing the Palestinian people with two resources, international solidarity and an international voice with which to nonviolently resist an overwhelming military occupation force”.
Tutte cose belle, ma dichiaratamente di parte. E su questo non c’è niente da obiettare, ci mancherebbe altro: di fronte a due fazioni in lotta ciascuno è libero di scegliere a chi portare aiuto. Se al posto di un attivista umanitario filopalestinese fosse morto un volontario di quelli che prestano soccorso alle vittime degli attentati palestinesi in terra d’Israele, sarebbe morto un “fazioso” dell’opposta fazione, ma sarei ugualmente dispiaciuto, né più, né meno.
Nel “restiamo umani” di Vittorio Arrigoni c’è da leggere l’umana ammissione dell’umana tendenza a schierarsi per questa o quella fazione, ed egli era schierato: superfluo dire che lo fosse legittimamente. D’altra parte, s’è mai sentito dire di un attivista umanitario che, dopo aver soccorso le vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani su Gaza vada a soccorrere le vittime dei missili Qassam che piovono in Israele, o viceversa? Forse sarebbe ancora più “umano”, ma è praticamente impossibile: “restiamo umani” e con ciò accettiamo i nostri limiti, “umani” pure quelli.

Ciò detto, resterebbe la questione del chi (eventualmente del cosa) l’abbia ucciso. Salafiti, dicono. Pur sempre palestinesi. E qui saremmo al “chi”. Ecco, io qui mi chiedo se si sia mai sentito dire di un attivista filoisraeliano che sia stato fatto fuori da estremisti israeliani per il solo fatto di stare in Israele senza essere israeliano, di religione ebraica, ecc. – e piango Vittorio Arrigoni per tutte le belle cose che ho detto prima, ma ci metto pure la tristezza del constatare che aveva scelto la “fazione” più ingrata. Ma con questa ingratitudine (e qui saremmo al “cosa”) ha ormai da fare i conti l’ISM e chiunque sia – come Vittorio Arrigoni diceva di se stesso – “filopalestinese senza se e senza ma”.



Nota (h. 23.00) - Dai primi commenti a questo post verifico di aver ferito la sensibilità di chi reputa improprio l’uso del termine “fazione”. Neanche un cenno, al momento, al fatto che Vittorio Arrigoni sia stato ucciso da palestinesi. Eppure, “faziosa” o no che fosse la sua scelta (e ho scritto che in ogni caso sarebbe da considerare legittima), la cosa più importante in questa triste vicenda è il fatto che sia stato ucciso da palestinesi: è cosa che viene rimossa o almeno assai poco considerata, almeno da chiunque sia, come lui, “filopalestinese senza se e senza ma”. E nemmeno si può dire che sia morto per “fuoco amico”: i palestinesi che lo hanno ucciso non hanno tenuto in alcun conto del suo essere filopalestinese, anzi, pare che lo abbiano ucciso per l’esserlo. E questo, vedo, non si può dire. Il dolore che arreca la sua morte è guastato dal non poterla addebitare tutta ad Israele: è come ucciderlo una seconda volta, per troppo amore della causa che amava. Altra tristezza.