sabato 17 luglio 2010

Un pizzino di Bertone



Gianni Maria Vian ci offre brani tratti dall’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d’Italia, Il Mulino 2010) con una affettuosa marchetta su L’Osservatore Romano (17.7.2010), e questo va bene, perché la marchetta è ubiquitaria, tutto il mondo è marchetta, la marchetta è l’anima del commercio, eccetera. Va bene pure Ernesto Galli della Loggia come autore, mancherebbe, abbiamo letto di tutto, anche di peggio. Quello che non va bene, e ci sconsiglia l’acquisto del libro, invece, è proprio il libro: miserie dello storicismo, però assai piccole.
“La marcia verso il potere del fascismo iniziò […] nella primavera del 1915. Fu allora che, per la prima volta, un certo mondo del sovversivismo italiano fatto di anarco-sindacalisti, repubblicani, intellettuali radicali, artisti più o meno déraciné, allacciò di fatto intensi rapporti di collaborazione con importanti settori dell’establishment (per esempio il Corriere della Sera di Luigi Albertini) e con i circoli governativi. I modi dell’urbanità e del galantomismo che fino a quel momento avevano dominato il campo che si chiamava «costituzionale» cominciarono a cedere il passo alla spregiudicatezza, all’uso pubblico dell’insinuazione e delle contumelie, alla convinzione terribile che il fine giustifica i mezzi. Una sbrigatività compiaciutamente plebea e una febbrile eccitazione intellettuale si fecero rapidamente largo in ambienti fin lì soliti ad apprezzare studio e ponderatezza”.
Capito quand’è che il Corriere della Sera perde l’aplomb e mi diventa un giornalaccio che rincorre la stampa giacobina, forcaiola e radical-chic? Capito, soprattutto, a che porta tutto questo? Rimettete il Corriere della Sera in mano a qualcuno di apprezzabile studio e ponderatezza, così romperete il legame tra importanti settori dell’establishment e un certo mondo del sovversivismo italiano. È un legame che genera eccitazione plebea, disordine e poi fascismo (non necessariamente nell’ordine). C’è qualcuno che vuol fare il direttore del Corriere della Sera a questo modo per evitarci derive autoritarie? Alzi la mano.

Il fascismo è un evergreen, ma le cover vengono sempre peggio. Prendete Mussolini: “personalità” dalla “leadership carismatica”, “impasto di antico e di moderno”, “ad esempio, di passione per la velocità, per le automobili, per il volo, e insieme di valori maschilistico-familiari della più schietta tradizione italo-romagnola; di retorica carducciana rétro, a base di «colli fatali di Roma», ma anche di simpatia per il modernismo futuristico o per l’architettura razionalistica”. Oggi? Chi vi viene in mente, oggi, che possa fare il paio? L’impasto tra il pezzente mostruosamente arricchito e il narcisista prodigo di sentimento? Tra il vulcano artificiale e la tomba neo-egizia? Tra il “mi consenta” e il “ghe pensi mi”? O l’anello di congiunzione tra famiglia e cricca?
È chiaro che sto parlando di un libro che non ho letto, perciò nell’incipit ho usato il noi. Tuttavia sto parlando di ciò che sicuramente sta in questo libro di Galli della Loggia, che poi è quanto scelto da Vian per la réclame: il professore usa la storia come un piede di porco e Vian gli fa da palo, mi basta questo per decidere che non lo comprerò. Non è un libro di storia, è un pizzino di Bertone agli azionisti del Corriere della Sera.

1 commento:

  1. concordo.
    e a proposito di fscismo, c’è anche da sottolineare un fatto non secondario, ovvero l’approvazione della legge del luglio 1920, che doveva entrare in vigore nel luglio del 1921, sulla nominatività dei titoli e altre misure fiscali. Oltre che dai soliti gruppi industriali e finanziari, la legge era molto temuta dal Vaticano, che aveva in Italia la quasi totalità dei suoi investimenti e possedeva a preferenza titoli al portatore, così come era temutissima la norma fiscale sulle trasmissioni ereditarie tra persone non legate da vincoli di sangue. Fu questo il motivo che «obbligò – secondo Ernesto Rossi – Giolitti a presentare le dimissioni». Ma poco prima, il 9 giugno 1921, il suo gabinetto promulgò un decreto contenente norme per la registrazione dei titoli. Con il nuovo governo presieduto da Bonomi, tale norma fu subito sospesa, ma non abrogata. Entrambi i successori di Giolitti, Bonomi e poi Facta, non ebbero la volontà politica di rinunciare o cancellare del tutto le misure giolittiane.
    Nella crisi che succedette alla caduta di Giolitti e fino all’avvento del fascismo, il Vaticano si oppose ad un possibile nuovo governo presieduto da Giolitti, innanzitutto con il veto imposto al Partito popolare di aderirvi. Il costo di questo atteggiamento fu la paralisi parlamentare e, infine, la crisi istituzionale. Come rileva in un suo libro Ernesto Rossi, l’Osservatore Romano del 27-28 febbraio 1922 si rallegrò perché la più lunga crisi ministeriale che si fosse mai avuta in Italia era stata finalmente conclusa con la formazione di un governo di coalizione, presieduto dall’ on. Facta, dal quale erano esclusi soltanto i socialisti. In risposta ai giornali che avevano accusato la Santa Sede di essere stata la principale responsabile della eccezionale lunghezza della crisi, col suo veto al ritorno di Giolitti al governo, il giornale del Vaticano ipocriticamente affermò che «la Santa Sede era, voleva e doveva rimanere completamente estranea alle questioni di politica italiana, sia estera che interna, come ad ogni partito di ogni colore».
    Se l’azione di Giolitti favorì la creazione delle condizioni per l’avvento del fascismo (il biennio rosso era finito da un pezzo e la fine del conflitto nelle fabbriche era un fatto compiuto e sottoscritto dai sindacati), quella del Vaticano gli spianò la strada.
    Scrisse nel 1947 Benedetto Croce:
    «L’azione della politica vaticana fu allora perniciosa per l’Italia e aprì le porte al fascismo impedendo ogni ritorno del Giolitti al potere. Su di che potrei aggiungere particolari, come d’un colloquio che l’on. Pozio, sottosegretario alla presidenza con Giolitti e a lui devotissimo, ebbe con il card. Gasparri, che rudemente respinse ogni approccio d’intesa: quel che più aveva inferocito la Chiesa era la legge giolittiana della nominatività dei titoli al portatore, nei quali molto denaro degli istituti ecclesiastici era investito».

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