Nella prolusione con la quale ha aperto l’Assemblea generale della Cei, ieri, il presidente Angelo Bagnasco ha ripreso l’argomento usato da Francesco D’Agostino in un editoriale dedicato al 150° dell’Unità d’Italia (Avvenire, 5.5.2010), che ho già commentato (qui).
Dalla banale distinzione tra stato e nazione, D’Agostino arrivava a questo: “L’Italia, da un punto di vista culturale, artistico, linguistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli [prima del 1861]”; e qui, come ho già scritto, andava sottolineato il “soprattutto”, nel quale è posta la tesi che una nazione trovi identità “soprattutto” nel culto religioso che nella sua storia si ritrova vincente sugli altri. Il che implica due assunti: che nazioni tradizionalmente multiconfessionali come quella indiana sia “meno nazione” di quella italiana, la quale invece è tanto monoconfessionale da aver avuto fino all’altrieri addirittura una propria religione di stato, e proprio nel cattolicesimo, che era religione di stato addirittura nel Regno di Savoia; in secondo luogo, che l’Unità d’Italia sia evento notarile sul piano storico, perché “già molto, molto prima di costituirsi in Stato unitario, l’Italia si era già costituita, attraverso la sua lingua, i suoi costumi, la sua arte, la sua religione in nazione e tra le più antiche d’Europa”.
In questo secondo assunto è posta un’ulteriore tesi – a corollario della prima, o forse tesi autonoma, chissà – per la quale l’Italia non esiste se non nell’omogeneità di lingua, costumi, arte e religione, tutta roba più affine al sangue che al suolo. O a un suolo culturalmente egemonizzato.
Tutto questo, in Bagnasco, assume forma di manifesto: “I credenti in Cristo continueranno a sentirsi, oggi come ieri, tra i soci fondatori di questo paese”.
Com’è che questa nazione così antica, identitariamente così cristiana, è arrivata così tardi a darsi uno stato unitario? Chi vi si è opposto? E com’è che proprio il Papato, vertice del cristianesimo, è stato così a lungo ostile a questa unità, prima, durante e dopo? È evidente: prima, durante e dopo, quella Unità d’Italia non piaceva al Papa, per il semplice fatto che sanciva sul piano politico l’egemonia papale sull’Italia.
Ma, insomma, questa nazione italiana – che è cosa “soprattutto religiosa”, non dimentichiamo – voleva o non voleva l’unità statuale? Sì, ma probabilmente la voleva sotto il Papa. Non voleva l’annessione dello Stato Pontificio al Regno di Savoia, semmai il contrario. Poi, dopo un mezzo secolo e più, si è rassegnata a tenersi uno stato laico, rinunciando al Papa-Re. Non c’è contraddizione?
Bagnasco non teme le contraddizioni: “La questione in particolare dei rapporti tra Stato e Chiesa, e di conseguenza l’esplicazione di una autentica laicità, è stata per noi italiani una vicenda forse un po’ più complessa che per altri, costata dibattiti e lacerazioni che hanno tormentato le coscienze più vigili; ma oggi − per i termini in cui è definita (cfr Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana di modifica al Concordato Lateranense, 18 febbraio 1984) − essa si presenta come un approdo di generale soddisfazione”.
Tutte le contraddizioni? Finiscono in Concordato. E tuttavia sia chiaro: “È «l’interiore unità» e la consistenza spirituale del paese ciò che a noi vescovi oggi preme”. È il grilletto che vi si dovrebbe premere.
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