Da tempo – e il tempo muta il significato delle parole – si usa suddividere i cattolici che capiscono qualcosa del cattolicesimo (a naso, non mi paiono più del 2-3%) in «progressisti» e «tradizionalisti», con una semplificazione accettata anche da chi la ritiene ingannevole, sicché quasi più nessuno ne fa uso rammentando gli effetti indesiderati.
Capita, così, che quanti accettano per sé – sempre con fierezza – la definizione di «tradizionalisti» siano poco disposti a considerare cattolici quelli che così finirebbero per essere «progressisti»: un «cattolico progressista», in realtà, non sarebbe altro – dicono – che un eretico (luterano, calvinista, ecc.), perché «cattolico» – sostengono – non può che essere sinonimo di «tradizionalista», giacché senza piena fedeltà alla tradizione – affermano – non c’è cattolicesimo. Sembra argomento ragionevole.
E tuttavia questa opinione è contestata da quei cattolici per i quali, se è possibile una progressio populorum, è possibile anche una progressio ecclesiae: nel corpo mistico di Cristo – sostengono – è possibile un divenire, sicché la tradizione – affermano – è chiamata a darsi forme sempre nuove, se davvero vuol essere anima viva di un corpo vivo. Sembra argomento ragionevole, pure questo. E tuttavia costoro non accettano volentieri la definizione di «progressisti».
Non è tutto così semplice, perché ci sono i cattolici che rigettano per se stessi entrambe le definizioni: una suddivisione del genere – dicono – è impossibile, perché frequentemente si è costretti a constatare che vi sono più elementi comuni tra un «progressista» e un «tradizionalista» che non tra due «progressisti» o due «tradizionalisti». Non è argomento irragionevole, e in più ha la forza che gli dà il rilievo empirico: i «progressisti» – ciascuno a suo modo – si sentono i reali interpreti della tradizione; i «tradizionalisti» – ma non tutti – ritengono addirittura che la tradizione non vada interpretata, ma vissuta; i cattolici che rigettano la suddivisione finiscono per utilizzarla, ma solo e quando c’è da mostrarla come paradossale, perché foriera di grave danno a quanto del cristianesimo sta nel cattolicesimo.
Sarà il caso di usare una soda di carotaggio per verificare quanto abbiamo fin qui detto, e l’abbiamo: Joseph Ratzinger. I «progressisti» lo considerano «tradizionalista», ma abbiamo detto che essi hanno un gran rispetto per la tradizione, sicché usano sinonimi come «restauratore», «immobilista», ecc.; i «tradizionalisti», al contrario, ritengono Joseph Ratzinger un «progressista» (o «criptoprogressista»; o «progressista dei due passi avanti e uno indietro»; o addirittura – i lefebvriani, per lo più – «interprete [superfluo aggiungere: infedele] della tradizione»); piace, invece, e piace molto, a quei cattolici che capiscono poco o nulla del cattolicesimo, ma a quelli che ne capiscono qualcosa e con quel tanto arrivano a ritenere che il kerigma può cambiare senza cambiare, e che quindi in Joseph Ratzinger trovano l’ambiguità ad hoc (l’incarnazione dell’ambiguità come capo di una Chiesa che può ormai sopravvivere solo nell’ambiguità).
Semplificare può tornare utile in qualche raro caso, ma è sempre pericoloso, e perciò mettevo avanti le mani con una così lunga premessa. Dovendo affrontare una riflessione di carattere generale sulla Chiesa degli ultimi due pontificati, era il caso che chiarissi come e dove si può spendere lessicalmente questo soldo di latta che sul recto è «progressista» e sul verso è «tradizionalista» (o al contrario).
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